A 50 anni dal K2 – Intervista ad Achille Compagnoni
- Che ricordo le rimane di quell'avventura a quasi 50
anni di distanza?
"E stata una spedizione meravigliosa: siamo partiti
dall’Italia con il sogno della conquista ed un entusiasmo
incontenibile. E' difficile spiegare quello che provavamo
allora. Sapevamo che non era una cosa semplice, che avremmo
dovuto stare lontani da casa per più di sei mesi e correre
anche dei rischi, ma la voglia di partecipare a quell'avventura
era troppo grande.
Anche laggiù le cose non sono state comunque facili, basti
pensare che su 70 giorni di permanenza al campo base ne
abbiamo avuti 40 di tempo brutto ed era davvero difficile
non lasciarsi andare allo sconforto. Eppure abbiamo sempre
continuato a credere che ce l'avremmo fatta e siamo sempre
andati d’accordo. Eravamo ben affiatati e ognuno cercava di
collaborare in base alle proprie forze e alle proprie
capacità".
- Per gli italiani la conquista del K2 fu una questione
di orgoglio nazionale, legata a forti sentimenti di
patriottismo e alla voglia di dimostrare al mondo quanto il
nostro popolo era capace di fare. Quanto erano importanti
queste cose per voi, mentre eravate alle prese con la
montagna?
“Certo che anche noi sentivamo la spinta del patriottismo! E'
stato così fin dai primi momenti dell'organizzazione: non
era una spedizione come le altre, era una cosa che andava
ben al di là dell'alpinismo! Anche quando abbiamo raggiunto
la cima sentivamo che l’importante non era che lassù ci
fossimo noi, io e Lacedelli, ma che ci fosse l'Italia, la
bandiera italiana!
Sapevamo di essere lì a fare qualche cosa di importante per
tutti gli italiani, e questo ci univa e ci spingeva a dare
il massimo che potevamo. Mi ricordo di quando scendendo al
campo 1 incontrai Mario Puchoz, che già stava male. Era
sdraiato nel sacco a pelo e praticamente non riusciva più ad
alzarsi, ma continuava a ripetere che aveva già lo zaino
pronto e l'indomani voleva salire. Io gli dissi che doveva
piuttosto pensare ad andar giù, ma lui rispose "Achille, se
scendiamo adesso la becca non la facciamo più!". Insomma,
era in fin di vita, eppure tutte le sue energie erano
concentrate sulla montagna”.
- Che importanza ha avuto nella sua vita il fatto di
essere diventato “l’eroe del K2”?
“Per me il K2 è stata una cosa grandiosa, che ha soddisfatto
tutti i miei desideri, tanto è vero che io in vetta ci
volevo rimanere!
Quando ho visto le mie mani congelate ho pensato: "Ma cosa
ci torno a fare a casa conciato così? Con due figli da
mantenere?". Ho anche pregato: "Dio fa che i miei bambini
non mi odino perché li ho lasciati, ma io resto qua!". Poi
ho ritrovato la volontà di vivere e ho cominciato la
discesa.
Anche i congelamenti secondo me sono una cosa che fa capire
quanto era forte la motivazione che ci spingeva. Infatti c'è
stato anche chi mi ha detto "potevi tornare indietro prima
che le mani si congelassero e potevi evitare di toglierti i
guanti per fare le fotografie in vetta!". Queste sono parole
che mi hanno fatto male, perché chi dice così non ha capito
proprio niente di quello che noi sentivamo su quella
montagna!”.
- Quale è stato il momento più difficile della
spedizione?
“La cosa più difficile che abbiamo dovuto affrontare è stato
il maltempo, che praticamente non ci ha dato tregua. Eppure
io non mi sono mai sentito demoralizzato, non ho mai pensato
che non ce l'avremmo fatta! Mi ricordo di quando io e Ubaldo
Rey eravamo al quinto campo, in mezzo alla bufera. Ad un
certo punto ci chiama via radio il professor Desio e dice di
tornar giù perché anche i compagni ai campi più bassi
volevano scendere. Io rifiutai: "Se usciamo adesso dalla
tenda il vento la porta via - dissi - e la cima ce la
scordiamo!". Lo sapevamo tutti che se abbandonavamo allora
non saremmo più saliti. Desio non volle impormi di
abbandonare e anche gli altri, quando sentirono la mia
decisione, dissero: "Se non scende Compagnoni non scendiamo
neppure noi!".
- A proposito di Desio: qual'era il rapporto fra lui e la
squadra alpinistica e come vivevate voi scalatori il fatto
di essere guidati, in una delle più difficili imprese
alpinistiche della storia, da un professore universitario?
“Io ho sempre avuto fiducia in lui, perché capii che sapeva
bene dove andavamo. Lui era già stato lì, era l'unico che
conosceva bene quel paese e quella gente. Forse i miei
compagni non erano così convinti, ma questo più che altro
prima di partire. Qualcuno probabilmente pensava:"Beh, Desio
va bene fino a che arriviamo sotto alla montagna, poi ci
arrangiamo noi alpinisti!". Alla prova dei fatti però si
rivelò un vero capo spedizione, senza il quale non so come
sarebbe andata a finire...”.
- Perché il K2 è una montagna ancora tanto temuta dagli
alpinisti?
“Il k2 non è una montagna facile, anche Messner che è stato
il primo a salire i 14 Ottomila dice che il K2 è il più
difficile di tutti. E' una montagna che ti mette alla prova
sia con le difficoltà alpinistiche che con quelle
meteorologiche: mi ricordo di un colpo di vento che mi prese
e sollevò di netto. Mi fece un'impressione tale che ancora
oggi ogni tanto me lo sogno!”
- Gli italiani si preparano a tornare al K2, per
celebrare la vostra impresa. Quale sarebbe a suo
parere il modo più bello per ricordare la vostra vittoria?
“Arrivare in cima naturalmente! Auguro con tutto il cuore ai
ragazzi che torneranno sulla montagna di avere successo, e
di provare l'emozione che ho provato anche io!
Ho saputo che la spedizione si occuperà anche di aiutare
l'ospedale di Askole, anche questo è un bel modo per
celebrare i 50 anni della conquista ed è una cosa
importante, perché può salvare delle vite umane...
Poi io ho un ricordo stupendo di quel villaggio! Askole è un
oasi, l'ultimo posto dove puoi trovare alberi ed erba prima
di addentrarti sul ghiacciaio del Baltoro. Quando ci
arrivammo c'erano tutti gli albicocchi in fiore ed era
bellissimo... Al ritorno dal K2 i frutti erano ormai maturi
e noi avevamo fame! Ne chiedemmo un po' agli abitanti del
villaggio e loro ce ne diedero volentieri, raccomandandoci
però di restituire i noccioli... Noi quando mangiamo un
frutto buttiamo via il nocciolo senza nemmeno pensarci, per
loro invece anche quei semi erano vitali!”.
A cura di: Gian Pietro Verza
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