SPECIALE: 27 gennaio: Giorno della Memoria
E’ strabiliante celebrare nei nostri giorni l’orribile e sconvolgente carneficina degli ebrei avvenuta durante il regime nazista e compagni e non accomunarla a quanto sta avvenendo nel nostro tempo, giorno dopo giorno, magari non con numeri così esorbitanti, ma assolutamente tanti di gente inerme e proprio incapace di nuocere ad altri, anche per la ragione che viviamo in un mondo globalizzato e- si spera- abbastanza civile-.
Ma la nostra terra corre verso la fine, si preannuncia da più parti, però non vogliamo dare loro credito e per tale motivo, presentiamo “stralci” di quello che è accaduto per il popolo ebraico e di come ancora la forza del suo passato lo fa correre verso il futuro che è di Dio. E- speriamo sia per tutta l’Umanità.
Tanto perché non si perda la storia…
Le città italiane si sono ben organizzate per celebrare il 27 gennaio per memorizzare nel cuore e nella mente quell’orribile massacro degli ebrei avvenuto per “purificare” la razza da quel delinquente di Hitler, che assieme ai suoi accoliti ( fascisti che oggi si “mascherano” sotto altri nomi), pianificò un eccidio esecrando, di gente semplice e sana che aveva solamente come attributo al suo nome “ebreo”.
Alcuni brani di storia
Quel primo Olocausto
il 27 gennaio é il Giorno della Memoria, dedicata ai milioni di vittime dell’Olocausto, ebrei, dissidenti politici, rom, omosessuali, che perirono per la folle teoria della “razza pura”. Prima della “soluzione finale”, però, il regime nazista si “esercitò” sulle persone con disabilità, ritenute “indegne di vivere”. Oggi raccontiamo la storia di quel “primo Olocausto”, che costituisce certamente una delle maggiori atrocità del Novecento. “Com’è ben noto, il 27 gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della Memoria, ricorrenza dedicata alle vittime dell’Olocausto. Una data non casuale: il 27 gennaio 1945, infatti, i soldati russi entrarono ad Auschwitz, scoprendo quell’orrore che gli storici chiamano “male assoluto”.
C’è chi parla di 11 milioni di morti, alcuni si spingono fino a 17 milioni. Tanti furono gli ebrei, i dissidenti politici, i rom, gli omosessuali che perirono per la folle teoria della “razza pura”. Prima della “soluzione finale”, però, che portò alla morte milioni di persone, il regime nazista si “esercitò” sui disabili, ritenuti indegni di vivere, un peso economico per la società e un pericolo per la salvaguardia della popolazione “sana”. Un accanimento organizzato, iniziato nel 1939, chiuso ufficialmente due anni dopo, in realtà proseguito fino al termine del conflitto, segretamente e – se possibile – in modo ancora più crudele.
Vennero uccise circa 300.000 persone affette da malattie ereditarie, tra loro moltissimi bambini. Un Olocausto parallelo tenuto seminascosto per quasi mezzo secolo, che soltanto negli ultimi anni è venuto alla luce, grazie soprattutto alle iniziative promosse in occasione del Giorno della Memoria.
Le origini
Nel corso della prima guerra mondiale, negli istituti di cura tedeschi aumentarono in modo impressionante i decessi dei pazienti. Il cibo scarseggiava per tutti, perché “sprecarlo” per quelle “bocche inutili”? I medici “accelerarono” la morte di 45.000 persone con disabilità in Prussia e di più di 7.000 in Sassonia. Senza clamori si creò un clima favorevole per l’affermazione di teorie sulla cosiddetta “eutanasia di Stato”, come quelle contenute nel libro del 1920 L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute. Gli autori, lo psichiatra Alfred Hoche e il giurista Karl Binding, affermavano che i cittadini affetti da malattie invalidanti soffrivano, provocavano sofferenza ai familiari ed erano causa di disagio per l’economia e la società tutta, in quanto sottraevano risorse che avrebbero potuto essere meglio impiegate per le persone in perfetta salute. Lo Stato aveva quindi il dovere di “risolvere” il problema, ponendo fine alla vita dei malati.
La comunità scientifica iniziò a dibattere sulla questione e accese l’interesse di Adolf Hitler, che da anni coltivava l’idea di migliorare la “razza ariana” attraverso la selezione dei caratteri ritenuti positivi (eugenici) e la rimozione di quelli negativi (disgenici).
«Esiste un numero assai elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerarsi veri e propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo». Con queste parole si esprimeva Heinrich Wilhelm Kranz, direttore dell’Istituto di Eugenetica dell’Università di Giessen. L’eugenetica nazista venne accolta con immediato favore dalla psichiatria tedesca e si schierò dalla parte di essa perfino il professor Carl Schneider, che pure aveva attuato con successo la terapia del lavoro negli istituti psichiatrici, dimostrando che i malati mentali ne traevano beneficio.
Nel 1933 Hitler emanò la Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie e parallelamente ridusse in maniera drastica i fondi destinati alle strutture di cura. L’8 ottobre 1935 venne emanata una seconda Legge per la salvaguardia della salute ereditaria del popolotedesco.
La “macchina della follia” era partita e nei dodici anni di regime furono oltre 400.000 le persone con diverse disabilità a subire la sterilizzazione forzata. Da lì all’eutanasia il passo fu breve. Le prime vittime furono i bambini giudicati fisicamente o psichicamente disabili.
Sotto l’egida della Direzione Sanitaria del Reich, venne creata la Commissione per le Malattie Genetiche Ereditarie. A dirigerla, il dottor Leonardo Conti, che passò alla storia come uno dei più fervidi sostenitori degli esperimenti medici sui prigionieri nei campi di sterminio. Disponeva di 500 Centri di Consulenza per la Protezione del Patrimonio Genetico e della Razza, sorta di “consultòri” sparsi tra Germania e Austria, i cui medici, in base a un provvedimento segreto emanato dallo stesso Conti il 18 agosto 1939, ricevevano dagli ospedali notizia della nascita di bambini affetti da patologie fisiche o psichiche. I genitori venivano convocati e convinti a lasciare i figli nelle mani di strutture specializzate, dove avrebbero ricevuto “cure sperimentali”. Le possibilità di guarigione erano ridotte, si raccontava, ma valeva la pena provare. Le strutture in questione erano cinque (Brandenburg, Steinhof, Eglfing, Kalmenhof e Eichberg), le “terapie sperimentali” consistevano in iniezioni letali oppure i piccoli venivano lasciati progressivamente morire di fame.
Agghiacciante quanto testimoniato da un medico circa il processo di eliminazione: «Nell’arco di alcuni giorni il bambino dorme molto tranquillamente e non muore per avvelenamento: su questo insisto, anche se ho già avuto modo di dirlo. Il bambino muore per il sopravvenire di un ristagno polmonare e quindi per complicazioni cardiache e polmonari: di questo muore». Con queste parole intendeva giustificarsi, convinto della “bontà” delle sue azioni.
Subivano questa sorte i bambini ebrei i quali – malati o sani che fossero – venivano immediatamente uccisi, e quelli tedeschi disadattati. A una madre vennero restituiti i vestiti del figlio tredicenne, scappato di casa e deceduto in un istituto dopo essere stato trovato per strada dalla polizia. Tra quelle poche cose, la donna trovò un bigliettino del bambino che diceva: «Cara mamma! Se ne sono andati e mi hanno lasciato rinchiuso. Cara mamma io non resisto otto giorni qui con questa gente: io me ne vado, io qui non ci resto. Vieni a prendermi. Anche la mia valigia è rotta, è caduta. Cara mamma, fa qualcosa affinché la mia richiesta sia esaudita».
Nessuno è mai riuscito a calcolare con precisione quanti piccoli trovarono la morte, ma sembra probabile che il numero ammonti a diverse migliaia.
Aktion T4
«Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia». L’ordine partì da Hitler il 1° settembre 1939, scritto sulla sua carta intestata e con la nota a mano del ministro della Giustizia Franz Gürtner che ne aveva preso visione.
La distruzione dei disabili ebbe quindi origine da un provvedimento del Führer. Non era una vera e propria normativa, ma era sufficiente che egli esprimesse un’opinione perché quella diventasse un disposizione di legge. Oltretutto quell’ordine è un “falso storico”, dal momento che Hitler lo firmò in realtà nel mese di novembre, perché il 1° settembre 1939 era occupato a invadere la Polonia. Nei documenti ufficiali fece coincidere l’inizio della guerra con l’inizio diAktion T4, per rendere più “accettabile” la soppressione dei cittadini tedeschi “al di sotto dei parametri”.
L’eutanasia nazista fu sì la scelta scellerata e solitaria di un pazzo seguito ciecamente dai suoi accoliti («La mia coscienza era Adolf Hitler», disse Hermann Goering al Processo di Norimberga), ma anche la conseguenza di un humus culturale che permeava l’intero Vecchio Continente. La crisi post-grande guerra, spirituale oltre che economica, aveva infatti creato indifferenza per la morte degli individui “improduttivi”. L’eutanasia imposta dallo Stato non era più un’aberrazione, ma uno strumento di politica finanziaria.
L’operazione, come detto, prese il nome in codice di Aktion T4, dove T4 stava perTiergartenstrasse 4, “la strada nel giardino dello zoo”, l’indirizzo della centrale operativa berlinese, una palazzina espropriata a un ebreo. Vennero create tre istituzioni fittizie allo scopo di reggere segretamente il progetto: la Fondazione Generale degli Istituti di Cura per la Gestione del Personale, l’Associazione dei Lavoratori degli Istituti di Assistenza e Cura del Reich, che si occupava del censimento dei disabili, e la Società di Pubblica Utilità per il Trasporto degli Ammalati, che trasferiva le persone nelle sei “cliniche della morte”(Grafeneck, Bernburg, Sonnenstein, Hartheim, Brandenburg, Hadamar). I membri dell’operazione dovevano giurare di non rivelare mai la propria attività, i capi lavoravano sotto falso nome e la realtà degli omicidi veniva raccontata sulle carte ufficiali con un apposito vocabolario di eufemismi, una tecnica riproposta pochi anni dopo, per nascondere il genocidio degli ebrei.
Nessuno, passando per Tiergartenstrasse 4, nell’elegante quartiere residenziale berlinese di Charlottenburg, avrebbe immaginato che lì dentro un vero e proprio ufficio inviava ai direttori di istituti di cura e manicomi la richiesta di fornire l’elenco delle patologie riscontrate nei pazienti. Erano questionari generici, ufficialmente elaborati per accertare le capacità lavorative dei ricoverati, molti dei quali venivano impiegati con profitto all’interno delle strutture sanitarie. I dirigenti, spazientiti per la compilazione dei moduli, erano al contempo timorosi di perdere i loro malati, valida manodopera a costo zero che forse il Reich voleva sfruttare altrove. Delegarono pertanto i questionari al personale amministrativo, che dichiarò migliaia di persone inabili al lavoro, con l’obiettivo di trattenerle in ospedale, condannandole senza saperlo a morte certa.
Una volta compilati, i questionari venivano esaminati da tre periti, ignari l’uno dell’esistenza dell’altro; infine, un quarto supervisore decretava la vita o la morte dei pazienti, senza visitarne alcuno. Stabilito chi non meritava di vivere, il giorno concordato gli uomini della Società di Pubblica Utilità per il Trasporto degli Ammalati caricavano i disabili su pullman dai finestrini oscurati diretti nei centri di eliminazione, avendo cura di scegliere quello più distante dal luogo di residenza del paziente. I direttori degli istituti erano all’oscuro della destinazione finale del viaggio, qualche tappa intermedia garantiva il depistaggio dei familiari, cui veniva detto che i loro parenti sarebbero stati accolti in strutture dove avrebbero ricevuto terapie migliori. Raggiunte le “cliniche della morte”, i disabili venivano uccisi dopo pochi giorni in camere a gas camuffate da docce. Dai cadaveri venivano tolti i denti d’oro, una parte dei cervelli finivano nelle mani di neuropatologi per “ricerche mediche”, infine i corpi venivano fatti sparire nei forni crematori. Una lettera standard indirizzata alla famiglia annunciava la morte per cause naturali e l’avvenuta cremazione per “ragioni sanitarie”. L’urna con le ceneri era a disposizione, insieme ai beni personali del defunto, da ritirare entro quattordici giorni, ma i tempi di spedizione della lettera venivano calcolati in modo che giungesse quando il tempo utile era trascorso.
Così, tra il 1940 e il 1941 morirono 70.273 persone, quelle che Hitler definiva «involucri le cui vite sono indegne di essere vissute».
La propaganda e la resistenza
Malgrado la segretezza costituisse un punto centrale di Aktion T4, il regime aveva bisogno di validare nel popolo la convinzione che fosse necessario sopprimere i malati incurabili. Venne quindi messa in campo una massiccia e oculata campagna di informazione, per supportare il programmaeugenetico.
Nei discorsi ufficiali e sulle colonne dei giornali fecero la loro comparsa espressioni tipo “morte misericordiosa”, vennero distribuiti opuscoli, allestite mostre, prodotti spettacoli teatrali e film che mostravano quanto i disabili fossero “dannosi” per la società. La trama era più o meno la stessa: una famiglia scopriva di avere al proprio interno una persona con disabilità e decideva di affidarla a un ente che la eliminava come “atto di carità”.
Il film più famoso della serie venne girato nel 1941 su suggerimento del dottor Brandt. Migliaia di tedeschi si recarono nelle sale cinematografiche per vedere Ich Klage an (“Io accuso”), la storia di una donna che scopre di essere affetta da sclerosi multipla e supplica il marito medico di ucciderla. Processato, il medico viene assolto dalla giuria che si interroga sulla domanda dello stesso accusato: «Vorreste voi, se invalidi, continuare a vegetare per sempre?».
Vi erano anche documentari come Opfer der Vergangenheit (“Vittima del passato”), che mettevano a confronto il popolo “sano” con riprese dalle corsie degli istituti psichiatrici. Passava in sostanza il messaggio che quei malati fossero una degenerazione della selezione naturale e che l’uomo dovesse porvi rimedio. La prima proiezione avvenne a Berlino nel 1937 e successivamente Opfer der Vergangenheit fu proiettato in 5.300 cinema in tutta la Germania.
Il progetto propagandistico non risparmiò nemmeno i programmi scolastici. Un problema di matematica poteva essere: «Un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5 marchi, un delinquente 3,5 marchi. In molti casi un funzionario pubblico guadagna al giorno 4 marchi, un impiegato appena 3,5 marchi […] rappresenta graficamente queste cifre».
Se non fu difficile convincere parte dei cittadini, arrivarono comunque le proteste e per quante precauzioni fossero state prese, la “macchina della morte” diventò di dominio pubblico. I cittadini di Hadamar, a due passi da uno dei centri di eliminazione, non tardarono a capire che il fumo dall’odore nauseabondo che si alzava dal camino della clinica altro non era che il risultato della cremazione dei malati. Per tutta la nazione era un continuo via vai di pullman dai vetri scuri, uno spostamento imponente che non poteva passare inosservato. I procuratori diLipsia e Stoccarda segnalarono al ministro Gürtner l’insolito aumento di necrològi riferiti a pazienti deceduti in ospedale. Gürtner scrisse preoccupato: «[…] Se la cosa si è risaputa così velocemente, se ormai la gente ne parla, significa che il tentativo di segretezza è fallito[…]». Molte famiglie ormai rifiutavano di “consegnare” i loro congiunti disabili e si levò con forza l’opposizione della Chiesa sia cattolica che protestante.
Il 3 agosto 1941 l’arcivescovo di Münster, Clemens August von Galen, detto “il leone di Münster”, condannò duramente l’eutanasia durante un sermone e non esitò a denunciare lo Stato come autore delle uccisioni. Poche settimane dopo Hitler sospese Aktion T4.
L’eutanasia selvaggia
L’ordine di sospensione impartito da Hitler non fu che l’inizio di una fase più spietatadell’eliminazione delle fasce deboli della popolazione: il progetto Aktion 14F13, quello che i medici tedeschi chiamarono “eutanasia selvaggia”. Una commissione medica appositamente creata si recava nei campi di concentramento e stabiliva chi dovesse essere eliminato. Questa la testimonianza di un medico delle SS: «[…] Vidi i quattro medici seduti a quattro scrivanie collocate tra le due baracche e parecchie centinaia di prigionieri in fila dinanzi a loro. Ciascuno si presentava ad un medico che, previa verifica dell’inabilità al lavoro e degli incartamenti politici, lo iscriveva nell’apposito elenco. So che la commissione rimase solo pochi giorni a Dachau e che in quel breve tempo era impossibile una visita medica di così tanti detenuti».
L’elenco veniva compilato sul modulo Aktion 14F13, da cui il nome dell’operazione. I “prescelti” erano trasferiti nelle cliniche di eliminazione. La chiamavano “dolce morte”, ma non aveva proprio nulla di dolce. Dopo l’iniezione letale, infatti, seguiva un’agonia che poteva durare da poche ore fino a tre giorni.
Molti furono anche i disabili assassinati in case di cura e ospedali situati nelle zone occupate, dove per altro già dal 1939 si eseguivano uccisioni basate sulle teorie eugenetiche. Ad esempio, nel nosocomio di Meseritz-Obrawalde, un tempo all’interno della Prussia e oggi in Polonia, morì Emmi G., sedicenne giudicata “schizofrenica”. Venne prima sterilizzata e successivamente uccisa con un’overdose di tranquillanti, il 7 dicembre 1942. Il suo volto paffutello, incorniciato dai capelli chiari, compare in molti siti internet che trattano il tema dell’Olocausto di disabili.
All’inizio del 1942 arrivarono a Meseritz-Obrawalde i primi treni di Aktion 14F13, ciascuno dei quali trasportava circa 700 persone. Giungevano di solito nella notte, scaricavano individui in condizioni orribili. Al processo, una delle 14 infermiere alla sbarra, Luise Erdmann, accusata di avere partecipato all’omicidio di 210 pazienti, disse: «Mi sono resa conto che i pazienti incurabili dovevano essere liberati. Se diventassi incurabile considererei una liberazione se un medico o un’altra persona mi desse un farmaco per liberarmi da tutto».
Ex degenti sopravvissuti hanno raccontato una vita molto simile a quella dei campi di sterminio con l’appello, i lavori forzati, le selezioni. Tra i pazienti, anche soldati tedeschi fisicamente o mentalmente non più in grado di svolgere il loro lavoro. Ad ogni uccisione partecipavano almeno due infermieri. Mentre poi un certificato di morte fraudolento veniva indirizzato alla famiglia, i corpi finivano nudi in fosse comuni. La costruzione del forno crematorio di Meseritz-Obrawalde non era ancora stata conclusa, quando le truppe sovietiche liberarono l’ospedale il 29 gennaio 1945. Le stime più conservative parlano di circa7.000 pazienti uccisi in quel luogo, alcuni suggeriscono 18.000.
Ideata per i disabili fisici e psichici, Aktion 14F13 si estese poi ai cittadini con stili di vita e comportamenti non conformi alla logica nazista, persone con lievi disturbi della personalità come la citata Emmi G., alcolizzati, ragazzi degli orfanotrofi in perfetta salute, tutti considerati una “minaccia biologica”.
L’“eutanasia selvaggia” diventò uno strumento di repressione ideologica per uniformare la popolazione ai diktat del regime. A tutt’oggi è impossibile stabilire quante persone vennero assassinate nel quadro di Aktion 14F13. Alcune fonti affermano che l’ultima morte riconducibile al programma avvenne il 29 maggio 1945 presso l’istituto statale di Kaufbeuren-Irsee, in Baviera. In Germania la seconda guerra mondiale era finita da tre settimane. L’ultima vittima fu un bambino di 4 anni, Richard Jenne.
L’eredità di Alice Ricciardi von Platen ed Ernst Klee
Si chiamava Alice Ricciardi von Platen ed era una psichiatra tedesca poco più che trentenne, quando nel 1946 venne chiamata in veste di osservatrice nella Commissione Medica istituita dal Tribunale Militare di Norimberga. Gli imputati erano 23 medici dei campi di concentramento, accusati di crimini contro l’umanità per avere svolto esperimenti sui prigionieri e avere partecipato al programma nazista di eutanasia.
Ricordò la dottoressa Ricciardi von Platen: «Quel processo si concluse con sette condanne a morte, altri furono condannati alla prigione, qualcuno andò assolto. […] Il responsabile del programma eutanasia, Karl Brandt, medico, non ebbe alcun ripensamento. In un’intervista prima della morte disse: “Non mi sento colpevole. Era una scelta giusta. Avrei agito allo stesso modo anche conoscendo le conseguenze […]».
Nel 1948 la Commissione Medica di Norimberga pubblicò le sue relazioni, ma il mondo distrutto e affamato dalla guerra non aveva interesse a prendere coscienza di quello scomodo passato. «Fummo incaricati di osservare e riferire i fatti senza commenti o giudizi: solo i nudi fatti. E così facemmo. Ma quando furono pubblicati, i testi improvvisamente sparirono. Forse la nostra oggettiva documentazione aveva tanto scioccato o, forse, aveva anche provocato tanta vergogna, che furono fatti sparire. Quando, però, il documento finalmente uscì nel 1961 ebbe un grande successo». Il documento in questione è il libroMedicina senza umanità, cui è seguito Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, uscito nel 2000. Una preziosa testimonianza storica e una lezione di attualità.
La cronaca quotidiana racconta che semi di odio germogliano alimentati dall’ignoranza e dalla paura del “diverso”. Abbiamo la scienza che in cambio di denaro promette figli “migliori”, mentre qui e là fanno capolino notizie di intolleranza nei confronti delle persone con disabilità, vittime anche in Italia di una campagna mediatica contro i cosiddetti “falsi invalidi”, attuata in modi discutibili, tanto da instillare nell’opinione pubblica l’idea che i cittadini con disabilità (quelli veri) siano un inutile peso economico. «L’assassinio di 70 mila malati di mente su una popolazione di 70 milioni di abitanti – si legge nel libro di Ricciardi von Platen – dimostra che una volta intrapresa la strada dell’annientamento delle cosiddette “vite indegne” non ci sono più limiti. E breve sarà poi il passo verso Auschwitz. […] È certo che una sola uccisione ne provocherà altre centinaia se non si rinnega fino in fondo l’ideologia che l’ha generata».
Il monito del libro è l’eredità di Alice Ricciardi von Platen, scomparsa a Cortona nel 2008. La storia può ripetersi, magari non allo stesso modo, ma con gli stessi effetti. Diceva ancora la dottoressa von Platen: «I documenti esistono e devono essere conosciuti. Io spero facciano riflettere». Questo pensiero la accomunava adErnst Klee, giornalista free lance e docente di Pedagogia Sociale, che gettò le basi del movimento di emancipazione dei disabili tedeschi. Frugò archivi dimenticati, lesse migliaia di fascicoli e dagli Anni Ottanta in poi firmò articoli e libri sui crimini medici del Terzo Reich. Nel 2003 scrisse un duro articolo che criticava l’omissione del passato nazista di alcuni personaggi menzionati nell’Enciclopedia Biografica della Germania.
Senza le minuziose e appassionate ricerche di Alice Ricciardi von Platen e di Ernst Klee, quasi nulla oggi sarebbe conosciuto dell’Olocausto dei disabili, una delle maggiori atrocità del secolo scorso.
I luoghi della memoria
Ma se un viaggiatore volesse ritrovare le tracce tangibili del “programma eutanasia”, cosa troverebbe nei luoghi teatro di tanta sofferenza? A Berlino, in Tiergartenstrasse 4, non vi è traccia della palazzina che ospitava il quartier generale di Aktion T4. Al suo posto, una fermata dell’autobus. Sotto la pensilina, un pannello bilingue, in tedesco e inglese, rammenta alle persone in attesa che lì venne pianificato e diretto l’eccidio dei disabili. Un pannello identico si trova dall’altra parte della via, nella pensilina gemella. La commemorazione pubblica delle vittime è iniziata solo negli Anni Ottanta, ovvero quando nel 1986 un monumento e una lapide stradale sono stati posti su Tiergartenstrasse. Li ha progettatiRichard Serra, ad onor del vero con scarso successo. La lapide stradale, infatti, passava facilmente inosservata, mentre il monumento – lastre di acciaio rugginoso piantate nel selciato e chiamate Berlin Curves – era interpretato da molti come l’ennesimo tributo al Muro di Berlino.
Dal 2 settembre 2014, però, le cose sono cambiate. Sulla strada, infatti, nella parte non edificata del terreno a nord della Sala Concerti Berliner Philharmonie, l’autunno scorso è stato inaugurato l’imponente Memoriale dell’Olocausto dei Disabili. L’architetto Ursula Wilms ha collaborato con il creatore di paesaggi Heinz Hallmann e il giovane artistaNikolaus Koliusis, riuscendo a combinare un impatto visivo forte con la necessità di informare. Si viene condotti in un viaggio attraverso la storia da una parete luminosa di vetro azzurro, simbolo del cielo e delle vittime. Accanto, un lungo tavolo su una colata di cemento grigio è coperto di notizie storiche sull’eutanasia di Stato nel periodo nazista. Il memoriale, chiamato Gegenueber, ovvero “di fronte”, è privo di barriere architettoniche e sensoriali e le informazioni sono leggibili anche in braille. Seppure in ritardo, dunque, per stessa ammissione del Governo tedesco, Berlino ha accettato l’onere della memoria.
Anche in numerose “cliniche dello sterminio” sono sorti monumenti e sono state realizzate esposizioni su Aktion T4. L’associazione di assistenza sociale tedesca Deutsche Paritätische Wohlfahrtsverband gestisce un sito internet nel quale sono indicati i luoghi che ricordano l’eccidio dei disabili. Altro riferimento informativo online è quello voluto daLutz Kaelber, professore associato di Sociologia presso l’Università del Vermont (USA).
La prima città che ha commemorato le vittime dell’eutanasia è stataKocborowo, in Polonia. Già nel 1948 i crimini avvenuti nell’ospedale locale erano risaputi per merito del dottorTadeusz Bilikiewicz. L’anno successivo una mostra fu allestita nella clinica, dove si legge: «In memoria di quelli assassinati dai barbari nazisti in ospedale, nelle carceri e nella foresta Szpegawski –
Nel 1979, poi, Anno Internazionale del Bambino, un gruppo di boyscout installò una lapide nella vicina foresta Szpęgawski. Tra quegli alberi, durante gli anni 1939-1945, furono uccisi e sepolti più di 500 bambini. Oggi l’edificio ospedaliero è ancora sede di una clinica per disturbi mentali, ma il sito web ufficiale non fa il minimo riferimento a questa parte del passato dell’istituzione.
Anche Kaufbeuren-Irsee, dove avvenne l’ultimo omicidio del “programma eutanasia”, ha scelto di ricordare. La cittadina si trova a pochi chilometri da Monaco di Baviera. Negli anni della guerra, l’ospedale psichiatrico era circondato da cartelli che avvertivano di tenersi alla larga, per evitare il contagio di gravi patologie. In realtà il personale uccideva i pazienti, spesso ricevendo un’integrazione allo stipendio, e poteva agire indisturbato proprio grazie a quegli avvisi di finto pericolo, che inizialmente spaventarono gli stessi soldati americani, arrivati a liberare la città. Quando questi ultimi raccolsero il coraggio ed entrarono, trovaronocadaveri sparsi per le stanze e pochi degenti sopravvissuti in condizioni inimmaginabili. Morirono 2.000 persone, come inciso sul masso posato su una collinetta da cui si gode una delle migliori viste di Kaufbeuren. È un memoriale semplice, concepito, finanziato e realizzato da un gruppo di operatori sanitari nel 1989, in occasione del cinquantesimo anniversario dall’inizio di Aktion T4.
Nel 1981 una scultura bronzea di Martin Wank è stata eretta sul terreno che per molto tempo si è creduto fosse il “cimitero” della clinica (ricerche recenti hanno mostrato invece che le vittime furono sepolte più lontano). Si tratta della prima commemorazione nella Germania occidentale, la seconda in assoluto dopo quella di Kocborowo del 1949.
Sempre negli Anni Ottanta il dottor Michael Cranach ha voluto la mostra In memoriam, dedicata ad Ernst Lossa, ucciso a Kaufbeuren-Irsee il 9 agosto 1944 con un’iniezione dimorfina-scopolamina. Gli avevano detto trattarsi di un vaccino contro il tifo, ma molto probabilmente il quattordicenne Ernst non aveva creduto a una parola di quella spiegazione. Figlio di zingari che si mantenevano facendo i madonnari, Lossa era stato sottratto alla famiglia all’eta di 4 anni, passando da allora da un istituto all’altro. Le testimonianze parlano di un ragazzo sveglio, vivace, simpatico, che in ospedale rubava le mele e le divideva con gli altri degenti. Aveva capito che in quella clinica i pazienti venivano uccisi. Proprio quell’intuizione spinse la direzione ad anticiparne la morte.
Nel pomeriggio dell’ultimo giorno, Ernst Lossa lasciò a un infermiere una sua foto con scritto «in memoria» e gli disse: «Spero di morire quando sei di turno tu, così mi metti bene nella bara».
( Fonte: Superando.it).
E –per non perdere la nostra “Memoria” culturale citiamo:
Darkness, di Agneszka Holland o 2013CULTURA
Agneszka Holland è la regista polacca che ha firmato il film più commovente sulla Shoà. Tratto dal libro Nelle fogne di Lvov di Robert Marshall, In Darkness racconta la storia vera di Leopold Socha, operaio del sistema fognario e ladruncolo a Lvov, nella Polonia occupata dai nazisti. Dopo essersi imbattuto in un gruppo di ebrei nelle fogne della città, Socha accetta di nasconderli per denaro. Quello che inizia come un mero accordo “economico” prende, però, una piega inaspettata.
Tutti dovranno trovare un modo per scampare alla morte nei 14 mesi vissuti in un continuo stato di allerta. La regista polacca stavolta ha scelto un tema difficile: quella dell’eroe per caso. Socha infatti viene costretto dalle circostanze ad andare contro la propria indole di uomo meschino. E morirà fucilato dai russi nel 1945 dopo avere salvato gli ebrei della propria città nascondendoli nelle fogne. Dopo la guerra ebbe anche un riconoscimento e un posto tra i giusti di Israele a Gerusalemme, ma nel film si capisce chiaramente che da principio aveva solo intenzione di farsi pagare e lucrare sul terrore degli ebrei. Nelle note di regia è la stessa regista a essere più che esplicita sulla scelta del soggetto. Il 2009 ha portato una quantità di storie nuove sull’Olocausto attraverso libri e film. Viene da chiedersi se non sia stato detto tutto sull’argomento. «Eppure – spiega la Hollande - secondo me, il mistero principale non è stato ancora rivelato e nemmeno analizzato completamente. Com’è stato possibile questo crimine (l’eco del quale risuona ancora in diverse parti del mondo, dal Ruanda alla Bosnia)? Dove si trovava l’uomo in quel periodo critico?
Dov’era Dio? Tali vicende e azioni rappresentano l’eccezione nella storia umana o rivelano piuttosto una verità oscura, intima sulla nostra natura?». Risposta: «Esaminare le molte storie di questo periodo mostra un’incredibile varietà di destini e vicissitudini, spiegate in un ricco tessuto di trame e drammi, con personaggi che affrontano scelte morali e umane difficili dando prova sia del meglio che del peggio della nostra natura».
Tra le varie storie c’è quella di Leopold Socha che nasconde il gruppo di ebrei del ghetto. Nelle fognature di Lvov. Il protagonista è ambiguo: apparentemente un brav’uomo di famiglia, però anche un ladruncolo e un truffatore, religioso e immorale allo stesso tempo, forse solo un uomo qualunque, che vive tempi terribili. Nel corso della narrazione, Socha cresce in diversi modi come essere umano. Il punto centrale del film è quando gli ebrei che vivono in questa condizione claustrofobica, che “sadicamente” la Holland riversa nel film per la gioia percettiva dello spettatore che vive quasi due ore tra buio e angoscia, affidano a Socha un tesoretto di gioielli in cambio della protezione. Lui potrebbe vendere i gioielli ai ricettatori e gli ebrei ai nazisti, e la tentazione ci sarebbe pure... ma la moglie lo costringe a riportarglieli anche se sa che la vendita del maltolto, o meglio “mal ottenuto”, potrebbe cambiare il loro tono di vita. Da quel momento Socha, invece di scivolare nell’infamità dei tanti che gli ebrei se li sono venduti in guerra al migliore offerente, cade nella trappola dell’eroismo quotidiano dell’uomo comune: rischia la vita “per niente”, cioè per questa gente che diffida di lui e forse lo odia e che poi, solo alla fine, invece comincerà a dirgli grazie, avendo capito la maturazione morale avvenuta .
La storia della sceneggiatura del film la racconta meglio di tutti il diretto interessato, cioè lo sceneggiatore David F. Shamoon: «È bastata una frase su un giornale di Toronto per cominciare un viaggio di otto anni che mi ha portato nelle fogne di Leopoli, in Ucraina». Per chi non lo sapesse, infatti, Lvov è il nome in polacco proprio di Leopoli. Durante la Seconda Guerra Mondiale la città apparteneva alla Polonia. «Così mi son trovato su un set dei leggendari Babelsberg Studio - continua Shamoon - alle porte di Berlino con un freddo da lupi e in una buia sala montaggio a Toronto, in un viaggio che mi ha portato anche nei recessi più oscuri della storia dell’umanità».
L’articolo in questione parlava de I Giusti, cioè gli eroi sconosciuti dell’Olocausto, libro di Sir Martin Gilbert che raccoglie le storie di quelle persone incredibilmente coraggiose che hanno rischiato non solo la propria, ma anche la vita delle loro famiglie, per aiutare gli ebrei a fuggire gli artigli dei Nazisti durante l’Olocausto.
«La frase che mi ha esaltato - racconta il collaboratore della Holland - diceva più o meno così: “Un ladro polacco cattolico nascose un gruppo di ebrei nelle fogne di Lvov, ambiente che conosceva bene perché lo utilizzava per nascondere la refurtiva e, in effetti, ottenne un lavoro come operaio nel sistema fognario”. Immediatamente, volevo sapere di più su questa persona, la frase sollevava tutta una serie di domande che erano principalmente: che cosa spinge un criminale, o un tipo del genere, a rischiare la sua vita e quella della sua famiglia per aiutare dei perfetti sconosciuti? Sentivo che quest’uomo aveva necessariamente intrapreso un viaggio psicologico e fisico, profondamente emozionante».
Con premesse simili ecco quindi un film non consueto sull’Olocausto e neanche molto politically correct. Ma il messaggio anti nazista è ancora più forte, anzi dirompente: non occorreva nella Polonia degli anni ’40 essere una brava persona per essere un eroe. E rischiare la vita contro i nazisti per tentare di salvare quella degli ebrei che in molti casi erano dei perfetti sconosciuti per i rispettivi salvatori. Anche un delinquente di mezza tacca poteva diventare un giusto della terra. Per cui doppiamente vigliacchi
Exodus - Dei e Re
Un film di Ridley Scott. Con Christian Bale, Joel Edgerton, John Turturro, Aaron Paul, Ben Mendelsohn.
«continua
Sigourney Weaver, Ben Kingsley, María Valverde, Dar Salim, Golshifteh Farahani, Indira Varma, Emun Elliott, Ghassan Massoud, Hiam Abbass, Kevork Malikyan
Titolo originale Exodus: Gods and Kings. Azione, Ratings: Kids+16, durata 150 min. - Gran Bretagna, USA, Spagna 2015. - 20th Century Fox uscita giovedì 15 gennaio 2015. MYMONETRO Exodus - Dei e Re valutazione media: 2,67 su 25 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un fantasy, un'allegoria, una science fiction del passato e il libro famoso di Martin Gilbert:
Mai più. Una storia dell’Olocausto. La cronaca di una delle tragedie del nostro secolo. Accanto alle vicende storiche, commentate da una ricca selezione di immagini e documenti, l'autore dà particolare risalto alle storie individuali, attingendo direttamente ai ricordi e alle esperienze dei protagonisti, testimoni di straordinari atti di coraggio e generosità. Dalla vita delle comunità ebraiche in Europa all'ascesa del nazismo, dalle deportazioni nei campi di concentramento ai processi di Norimberga, il volume ricostruisce il calvario di un popolo che "non ha mai perso la volontà di resistere".
Quel primo Olocausto
di Stefania Delendati
il 27 gennaio sarà il Giorno della Memoria, ricorrenza dedicata ai milioni di vittime dell’Olocausto, ebrei, dissidenti politici, rom, omosessuali, che perirono per la folle teoria della “razza pura”. Prima della “soluzione finale”, però, il regime nazista si “esercitò” sulle persone con disabilità, ritenute “indegne di vivere”. Oggi raccontiamo la storia di quel “primo Olocausto”, che costituisce certamente una delle maggiori atrocità del Novecento
Com’è ben noto, il 27 gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della Memoria, ricorrenza dedicata alle vittime dell’Olocausto. Una data non casuale: il 27 gennaio 1945, infatti, i soldati russi entrarono ad Auschwitz, scoprendo quell’orrore che gli storici chiamano “male assoluto”.
C’è chi parla di 11 milioni di morti, alcuni si spingono fino a 17 milioni. Tanti furono gli ebrei, i dissidenti politici, i rom, gli omosessuali che perirono per la folle teoria della “razza pura”. Prima della “soluzione finale”, però, che portò alla morte milioni di persone, il regime nazista si “esercitò” sui disabili, ritenuti indegni di vivere, un peso economico per la società e un pericolo per la salvaguardia della popolazione “sana”. Un accanimento organizzato, iniziato nel 1939, chiuso ufficialmente due anni dopo, in realtà proseguito fino al termine del conflitto, segretamente e – se possibile – in modo ancora più crudele.
Vennero uccise circa 300.000 persone affette da malattie ereditarie, tra loro moltissimi bambini. Un Olocausto parallelo tenuto seminascosto per quasi mezzo secolo, che soltanto negli ultimi anni è venuto alla luce, grazie soprattutto alle iniziative promosse in occasione del Giorno della Memoria.
Le origini
Nel corso della prima guerra mondiale, negli istituti di cura tedeschi aumentarono in modo impressionante i decessi dei pazienti. Il cibo scarseggiava per tutti, perché “sprecarlo” per quelle “bocche inutili”? I medici “accelerarono” la morte di 45.000 persone con disabilità in Prussia e di più di 7.000 in Sassonia. Senza clamori si creò un clima favorevole per l’affermazione di teorie sulla cosiddetta “eutanasia di Stato”, come quelle contenute nel libro del 1920 L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute. Gli autori, lo psichiatra Alfred Hoche e il giurista Karl Binding, affermavano che i cittadini affetti da malattie invalidanti soffrivano, provocavano sofferenza ai familiari ed erano causa di disagio per l’economia e la società tutta, in quanto sottraevano risorse che avrebbero potuto essere meglio impiegate per le persone in perfetta salute. Lo Stato aveva quindi il dovere di “risolvere” il problema, ponendo fine alla vita dei malati.
La comunità scientifica iniziò a dibattere sulla questione e accese l’interesse di Adolf Hitler, che da anni coltivava l’idea di migliorare la “razza ariana” attraverso la selezione dei caratteri ritenuti positivi (eugenici) e la rimozione di quelli negativi (disgenici).
«Esiste un numero assai elevato di persone che, pur non essendo passibili di pena, sono da considerarsi veri e propri parassiti, scorie dell’umanità. Si tratta di una moltitudine di disadattati che può raggiungere il milione, la cui predisposizione ereditaria può essere debellata solo attraverso la loro eliminazione dal processo riproduttivo». Con queste parole si esprimeva Heinrich Wilhelm Kranz, direttore dell’Istituto di Eugenetica dell’Università di Giessen. L’eugenetica nazista venne accolta con immediato favore dalla psichiatria tedesca e si schierò dalla parte di essa perfino il professor Carl Schneider, che pure aveva attuato con successo la terapia del lavoro negli istituti psichiatrici, dimostrando che i malati mentali ne traevano beneficio.
Nel 1933 Hitler emanò la Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie e parallelamente ridusse in maniera drastica i fondi destinati alle strutture di cura. L’8 ottobre 1935 venne emanata una seconda Legge per la salvaguardia della salute ereditaria del popolotedesco.
La “macchina della follia” era partita e nei dodici anni di regime furono oltre 400.000 le persone con diverse disabilità a subire la sterilizzazione forzata. Da lì all’eutanasia il passo fu breve. Le prime vittime furono i bambini giudicati fisicamente o psichicamente disabili.
Sotto l’egida della Direzione Sanitaria del Reich, venne creata la Commissione per le Malattie Genetiche Ereditarie. A dirigerla, il dottor Leonardo Conti, che passò alla storia come uno dei più fervidi sostenitori degli esperimenti medici sui prigionieri nei campi di sterminio. Disponeva di 500 Centri di Consulenza per la Protezione del Patrimonio Genetico e della Razza, sorta di “consultòri” sparsi tra Germania e Austria, i cui medici, in base a un provvedimento segreto emanato dallo stesso Conti il 18 agosto 1939, ricevevano dagli ospedali notizia della nascita di bambini affetti da patologie fisiche o psichiche. I genitori venivano convocati e convinti a lasciare i figli nelle mani di strutture specializzate, dove avrebbero ricevuto “cure sperimentali”. Le possibilità di guarigione erano ridotte, si raccontava, ma valeva la pena provare. Le strutture in questione erano cinque (Brandenburg, Steinhof, Eglfing, Kalmenhof e Eichberg), le “terapie sperimentali” consistevano in iniezioni letali oppure i piccoli venivano lasciati progressivamente morire di fame.
Agghiacciante quanto testimoniato da un medico circa il processo di eliminazione: «Nell’arco di alcuni giorni il bambino dorme molto tranquillamente e non muore per avvelenamento: su questo insisto, anche se ho già avuto modo di dirlo. Il bambino muore per il sopravvenire di un ristagno polmonare e quindi per complicazioni cardiache e polmonari: di questo muore». Con queste parole intendeva giustificarsi, convinto della “bontà” delle sue azioni.
Subivano questa sorte i bambini ebrei i quali – malati o sani che fossero – venivano immediatamente uccisi, e quelli tedeschi disadattati. A una madre vennero restituiti i vestiti del figlio tredicenne, scappato di casa e deceduto in un istituto dopo essere stato trovato per strada dalla polizia. Tra quelle poche cose, la donna trovò un bigliettino del bambino che diceva: «Cara mamma! Se ne sono andati e mi hanno lasciato rinchiuso. Cara mamma io non resisto otto giorni qui con questa gente: io me ne vado, io qui non ci resto. Vieni a prendermi. Anche la mia valigia è rotta, è caduta. Cara mamma, fa qualcosa affinché la mia richiesta sia esaudita».
Nessuno è mai riuscito a calcolare con precisione quanti piccoli trovarono la morte, ma sembra probabile che il numero ammonti a diverse migliaia.
Ci sarebbero tante altre storie da narrare, ma ci consola leggere sui giornali e sul Web le tantissime iniziative che scuole ed istituzioni stanno assumendo nelle proprie città affinché le nuove generazioni imparino ad essere amichevoli tra loro e sfuggire gli orrori del male che- purtroppo- si annida nell’umanità.