Quando i migranti eravamo noi. Saggio di Maria de falco Marotta
Dobbiamo dire che ci impressionano non poco le molte navi che arrivano da varie parti del Mediterraneo, zeppe di povera gente che cerca solidarietà e lavoro in Italia che è l’approdo più facile da raggiungere. Sembra che siamo diventati tutti ricchi di euro e dollari e non abbiamo minimamente il ricordo di nonni e nonne con grappoli di figli che si imbarcavano su navi piuttosto malandate per andare negli Stati Uniti, in Australia e paesi più vicini come la Svizzera.
Il dramma dell'emigrazione italiana di fine Ottocento
Nel 1876, il Ministero di agricoltura, industria e commercio dell’Italia da poco unita decise, per la prima volta, di raccogliere dati statistici sul fenomeno dell’emigrazione che, negli anni precedenti, aveva già portato decine di migliaia di italiani a lasciare il paese per cercare fortuna in altre parti del mondo. Le statistiche raccontano una realtà fatta di numeri impressionanti: tra il 1876 e il 1900 lasciarono il paese più di cinque milioni di connazionali, per una media annuale di circa 210mila migranti italiani. Numeri che crebbero in maniera considerevole nei vent’anni successivi: tra il 1901 e il 1920 la cifra salì a quasi dieci milioni, per una media di 492mila migranti ogni anno. Dati tanto più indicativi se si pensa che all’epoca l’Italia comprendeva all’incirca trenta milioni di abitanti, la metà degli attuali. L’esodo si concentrò soprattutto nelle regioni del nord Italia: nel periodo compreso tra il 1876 e il 1900, il primato delle emigrazioni spettò al Veneto, da dove partì il 17,9% del totale dei migranti seguito dal Friuli Venezia Giulia con il 16,1%, dal Piemonte con il 12,5%, dalla Lombardia e dalla Campania, entrambe con il 9,9%. Stati Uniti, Francia, Svizzera, Argentina, Germania, Brasile, Canada e Belgio i paesi verso i quali si concentrò la gran parte del flusso dei migranti italiani. Una serie di eventi contribuì a formare uno dei fenomeni di emigrazione di massa più importanti della storia. L’ondata che caratterizzò l’ultimo ventennio dell’Ottocento fu spinta a lasciare il paese soprattutto per effetto della pesantissima crisi agraria che colpì l’Italia e l’Europa in quegli anni: la crescente meccanizzazione dell’agricoltura, l’arrivo sul mercato europeo di grano a basso prezzo proveniente dall’America (del nord e del sud) e dalla Russia grazie alla modernizzazione dei mezzi comportarono un crollo dei prezzi del frumento che colpì inesorabilmente gli agricoltori del Vecchio Continente. In Italia la congiuntura sfavorevole fu poi aggravata dal fatto che il paese si trovò, a pochi anni dall’Unità e per la prima volta, a dover competere con altri paesi su diversi mercati. (per esempio quello del vino con la Francia o quello degli agrumi con la Spagna), a fare i conti con la persistenza delle colture estensive (soprattutto di cereali) a scapito di quelle specializzate che meglio avrebbero potuto reggere la competizione internazionale, a fronteggiare crisi delle singole colture dovute a malattie che le colpirono (a farne le spese furono soprattutto le risaie e il comparto della sericoltura al nord, e l’ulivo nel meridione), a subire gli effetti rovinosi della grande campagna di vendita di beni demaniali e di titoli pubblici avviata proprio in quegli anni (molti proprietarî terrieri furono attratti dalla possibilità di accaparrarsi immobili e dalle possibilità di guadagno offerte dagli alti tassi d’interesse sui titoli di stato, con la conseguenza che preferirono investire nell’acquisto di beni e titoli, piuttosto che nel miglioramento dei sistemi di lavoro della terra: è quanto emerge da una celebre e approfondita inchiesta agraria che fu presieduta dal senatore, economista Stefano Jacini (autore dello studio "Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio. Milano, Stabilimento Civelli, 1858 - ndr) e che richiese sette anni, dal 1877 al 1884, per essere completata). E in più, a peggiorare il tutto, fin dagli anni immediatamente successivi all’Unità, era il progressivo aumento della pressione fiscale, perché l’Italia unita aveva bisogno di entrate per poter realizzare le infrastrutture. La società rurale aveva poi conosciuto nuovi “processi di trasformazione in senso capitalistico dei rapporti sociali nelle campagne”, che “creavano nuove fortune familiari e individuali” ma al contempo “generavano inediti squilibrî all’interno della società rurale” conseguenza di questo fenomeno furono, per esempio, l’erosione dei diritti dei contadini e la precarizzazione del loro lavoro.
Alle cause economiche si legavano poi inedite ragioni di natura sociale: per esempio, le lavoratrici donne, che abbandonavano il lavoro domestico per andare ad ampliare le fila di quanti lavoravano in fabbrica, maturarono una percezione della loro condizione che non avevano mai avuto prima. Lo stesso fu per i contadini che lavoravano per le aziende agricole avviate secondo regime capitalistico, specialmente nell’Italia del nord, che cominciarono a reclamare migliori condizioni di lavoro: lo stesso Jacini, nelle conclusioni della sua inchiesta, scriveva che tempo addietro “mancava alle plebi rurali la chiara consapevolezza della loro inferiorità economica; e, nel loro silenzio, era lecito supporre che non stessero male; [...] Da qualunque parte ci volgiamo, si rivela che oggi l’Italia agricola si sente impoverita e guarda sgomenta all’avvenire che minaccia di diventar peggiore del presente. In sostanza, a un crescente clima di sfiducia si accompagnava la speranza di migliorare le proprie condizioni di vita a seguito di un trasferimento all’estero. E tali speranze erano accresciute dal fatto che in molti paesi stranieri, soprattutto in America settentrionale e meridionale (negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina), c’erano moltissimi territorî poco popolati e che necessitavano di manodopera.
Questi furono i principali motivi che spinsero centinaia di migliaia di italiani ad abbandonare il paese. Chi partiva per le Americhe, ovviamente, non aveva altri mezzi che la nave per raggiungere la meta agognata: il più grande porto di emigrazione era quello di Genova. Però bastimenti carichi di migranti partivano anche dai porti di Livorno, Napoli, Palermo. I porti non erano però solo meta di migranti: alcuni artisti del tempo, desiderosi di denunciare la situazione di chi aveva scelto di lasciare il paese, iniziarono a frequentarli per restituire sulla tela le scene di cui erano testimoni durante le partenze di velieri, piroscafi, transatlantici. Com’è noto, l’epoca della grande emigrazione coincide anche con quel periodo della storia dell’arte italiana (all’incirca dagli anni Settanta dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale) in cui s’impone il verismo sociale. Tra i capolavori più alti del verismo sociale, nonché tra le opere che meglio descrivono il tema migratorio, figurano Gli emigranti del toscano Angiolo Tommasi (Livorno, 1858 - Torre del Lago, 1923) e il dipinto del 1905 di Arnaldo Ferraguti (Ferrara, 1862 - Forlì, 1925)
Poeti, scrittori, saggisti che parlano dei migranti italiani
Tra gli artisti ci fu anche chi preferì concentrarsi sugli aspetti umani e sentimentali dell’emigrazione, gli stessi che molti poeti e letterati cercarono di rendere vivi nei loro scritti, a partire da Edmondo De Amicis, che agli emigranti dedicò anche una lunga lirica, Gli emigranti (“Cogli occhi spenti, con le guancie cave, / Pallidi, in atto addolorato e grave, / Sorreggendo le donne affrante e smorte, / Ascendono la nave / Come s’ascende il palco de la morte. / E ognun sul petto trepido si serra / Tutto quel che possiede su la terra. / Altri un misero involto, altri un patito / Bimbo, che gli s’afferra / Al collo, dalle immense acque atterrito. / Salgono in lunga fila, umili e muti, / E sopra i volti appar bruni e sparuti / Umido ancora il desolato affanno / Degli estremi saluti / Dati ai monti che più non rivedranno”... ), per continuare con altri come Giovanni Pascoli (all’emigrazione in America dedicò il poemetto Italy), Luigi Pirandello (il tema dell’emigrazione emerge da alcune sue novelle, come L’altro figlio o Lontano), Dino Campana, Mario Rapisardi, Ada Negri (nella sua lirica Emigranti, la poetessa si rivolge a un muratore lombardo che lascia la sua terra e la sua famiglia: “La vecchia storia sempre nuova io tutta / leggo nei solchi e solchi che ti scavano / il volto, e nella dura orbita cava / degli occhi, ove ogni luce par distrutta. / Porti, nel sacco a spalla, ogni tuo bene; / ma raccolto sul petto aver vorresti / il tuo bambino, e dargli, se si desti / e pianga, un bacio, e il sangue delle vene!” ... ). In ambito artistico, una delle descrizioni più commoventi dell’emigrazione è il dipinto Ricordati della mamma dello svizzero Adolfo Feragutti Visconti (Pura, 1850 - Milano, 1924), realizzato tra il 1896 e il 1904. L’emigrazione interessò anche il Canton Ticino: la prima tappa dei migranti ticinesi, solitamente, erano gli imbarcaderi sul lago di Lugano, dai quali partivano i battelli che facevano la spola verso le sponde italiane del lago, dove il viaggio sarebbe proseguito verso i porti di mare. La scena descritta da Feragutti Visconti si svolge sul molo di Gandria, borgo sulle rive del lago a pochi chilometri di distanza da Lugano. Qui, una giovane madre saluta malinconica il figlio che sta per partire: il suo sguardo è confuso e tormentato, i gesti comunicano tutta la mestizia e lo struggimento del momento, la postura e la bocca della madre sembrano suggerire la frase che il pittore ha scelto come titolo del dipinto. La separazione delle famiglie era del resto un dramma tipico di chi migrava, perché non era detto che l’intera famiglia partisse alla volta della meta. Feragutti Visconti stesso, dopo aver presentato Ricordati della mamma alla Biennale di Venezia del 1903, in una lettera inviata al pittore Abbondio Fumagalli, suo amico, il 9 maggio del 1903, scrisse che il quadro “è estremamente doloroso” Sempre centrata sugli affetti, ma di tono molto diverso, è una scultura di Domenico Ghidoni(Ospitaletto, 1857 - Brescia, 1920), che rappresenta uno dei capolavori dell’artista nonché uno dei momenti più alti del verismo sociale nell’ambito della scultura. Gli Emigranti di Ghidoni volevano far emergere il dramma di chi lasciava la propria terra, Il gesso di Ghidoni venne fuso soltanto postumo, nel 1921: una delle due repliche che furono realizzate quell’anno, in forma monumentale, fu a lungo esposta nei giardini di corso Magenta a Brescia, mentre è oggi conservata presso il Museo di Santa Giulia, dov’è stata ricoverata per preservarla dalle azioni degli agenti atmosferici.
Se molti autori dedicarono la loro attenzione al tema dell’imbarco verso il nuovo mondo, non mancò chi preferì raffigurare i primi momenti della partenza, o concentrarsi su altri tipi di migrazioni. Al primo caso appartiene un dipinto del veneto Noè Bordignon (Salvarosa, 1841 - San Zenone degli Ezzelini, 1920), che col suo dipinto Gli emigranti, ambientato nelle campagne venete, raffigura una famiglia che, su di un povero carretto trainato da un asino e con pochi fagotti caricati, ha appena lasciato il suo borgo e probabilmente è ancora inconsapevole di ciò che l’attenderà (i volti appaiono infatti freschi, e addirittura compare una ragazza che sorride). Di ben altro tenore è invece Membra stanche, noto anche come Famiglia di emigranti, ultima opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo(Volpedo, 1868 - 1907), che racconta le tribolazioni dei migranti stagionali che lasciavano temporaneamente le montagne per lavorare nelle risaie attorno a Vercelli.. In ultimo, alcuni artisti dipinsero anche il tema del ritorno a casa, con toni drammatici. Tra i dipinti più tragici è possibile annoverare Il ritorno al paese natio di Giovanni Segantini (Arco, 1858 - Pontresina, 1899), drammatica e poetica riflessione sulle conseguenze più tristi dell’emigrazione, che fu peraltro premiata alla prima Biennale di Venezia, nel 1895: l’opera racconta il rientro, al borgo natale tra le montagne, della salma di un emigrato, probabilmente un naufrago, portata su di un carretto trainato da un cavallo, scortato da un uomo e accompagnato da una donna in lacrime. Il ritorno felice è invece il tema di Torna il babbo, dipinto di Egisto Ferroni (Lastra a Signa, 1835 - Firenze, 1912), del 1883, che narra il ricongiungimento di una famiglia a seguito del ritorno del padre: sorrisi, volti sollevati, sensazione di felicità. L’opera contribuisce anche a sottolineare due aspetti dell’emigrazione italiana di fine Ottocento: nella prima ondata (fino al 1885) si trattò di un fenomeno che coinvolse soprattutto i maschi), ma negli ultimi anni del secolo la percentuale di donne aumentò fino a raggiungere il 25%, e i numeri si equilibrarono in prossimità del primo conflitto mondiale. Il secondo aspetto è il numero dei rientri: in particolare, nei primi venticinque anni del Novecento, fece ritorno in patria circa un terzo di coloro che avevano lasciato l’Italia per trasferirsi in America.
Il tema dell’emigrazione cominciò a scomparire dalle opere dei pittori italiani attorno agli anni Dieci, ma il fenomeno non si arrestò, anzi. Certo, le condizioni di viaggio erano nettamente migliorate, ma la separazione dalla propria terra e dai proprî affetti era sempre un dramma e i numeri dei migranti continuarono a essere consistenti per gran parte del XX secolo. Lo storico Gianfausto Rosoli, specialista in storia dell’emigrazione, ha calcolato che in un secolo, dal 1876 al 1980, più di 26 milioni di italiani hanno lasciato il paese: di questi, 16 se ne sono andati prima del 1925 . Un fenomeno che, fatte le debite proporzioni e considerati i mutati contesti economici, culturali e sociali, continua ancora al giorno d’oggi: l’Italia oggi non è solo terra di arrivo di molti migranti, ma è ancora, seppur in misura ridotta rispetto al passato e con logiche totalmente cambiate nelle dinamiche dei flussi, un paese da cui si parte.
Oggi
Tra il 1997 e il 2010, secondo i dati raccolti dall’Istat, sono stati 583mila gli italiani che hanno scelto di espatriare, e solo nel 2017 il numero di italiani emigrati ammontava a 114.559. Il fenomeno oggi riguarda soprattutto i giovani: un emigrante italiano su cinque ha meno di vent’anni, due su tre hanno un’età inclusa tra i 20 e i 49 anni, e l’età media ammonta a 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Il flusso è costituito soprattutto da cittadini che hanno titoli di studio medio-alti: nel 2017, sono stati 33mila i diplomati e 28mila i laureati che hanno lasciato il paese. Storie radicalmente diverse rispetto a quelle di fine Ottocento, mezzi diversi, disponibilità economiche diverse, ceti sociali diversi, cultura diversa, paragoni impossibili, ma stessa speranza, sia per coloro che partono, sia per coloro che arrivano o ritornano: quella di provare a crearsi un futuro.
Bibliografia di riferimento
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