ARMENIA, GEORGIA. QUANDO UN BUON FILM CI AIUTA A CAPIRE

Nonostante sia una città piccola l’offerta culturale che propone Lugano è di ottima qualità. Concerti, conferenze, spettacoli teatrali e cinema. Purtroppo non si ha tempo per tutto, la stanchezza ha spesso il sopravvento, ma quando i programmi televisivi sono così scadenti, e capita spesso, spinti dalla forza della disperazione si può sempre trovare un buon film. Anche in edizione originale.

Così un paio di settimane fa vediamo che è in programmazione “Voyage en Arménie”, (Titolo internazionale Armenia), film franco-armeno di Robert Guediguian e decidiamo di vederlo.

So poco dell’Armenia di oggi, così come so poco dell’Armenia di ieri se non che c’è stato un genocidio nel 1915, di cui si torna a parlare ad intervalli regolari, magari per fare una macabra gara con la Shoah o per parlare male della Turchia, dimenticando che la vita continua e che c’è un popolo che vuole affrancarsi dalla miseria e trovare un suo posto dignitoso nella comunità internazionale.

So poco dell’Armenia se non che è un popolo di antiche tradizioni, con un alfabeto molto antico e di religione cristiana di antico rito.

So poco dei legami che questo paese ha con il ricco Occidente se non che ci sono illustri personaggi di origine armena che hanno fatto fortuna e che si adoperano in occasione di calamità, come terremoti o guerre.

Certo ho letto alcuni libri e non solo sul genocidio. Uno in particolare mi aveva molto colpito, “Passage to Ararat”, di Michael J. Arlen. La storia di una visita in Armenia da parte di un occidentale figlio di un armeno, uomo di successo. La difficoltà di questo figlio di accettare le proprie radici, di capire questo ambiguo rapporto che tutti gli oriundi hanno con le proprie origini, lacerati tra il senso di appartenenza alla cultura del loro nuovo paese di adozione e a questa terra misteriosa, di cui non sempre conoscono molto.

E’ il dilemma che ha anche la cardiologa, protagonista di “Voyage en Arménie”, (Titolo internazionale Armenia), di Robert Guediguian, presentato alla recente festa del cinema di Roma.

Il suo anziano padre, invece di andare in ospedale a farsi curare come vorrebbe lei, preferisce tornarsene in Armenia, suo paese d’origine, senza lasciare tracce. Allora questa figlia, (Ariane Ascaride, che ha vinto a Roma il premio come miglior attrice), professionista emancipata, moderna, decide di andarlo a cercare in quel paese di cui lei non conosce nulla. Si trova in un paese poverissimo, isolato, che vive di ricordi e di retorica, che dopo la caduta dell’Unione Sovietica è stato devastato dal terremoto e dalla guerra con i poveri paesi vicini e che ora è in mano alla mafia locale collegata con quella internazionale. I giovani sognano di partire, i vecchi sono rassegnati. Tutti hanno il culto del passato, di San Gregorio e del Monte Ararat.

All’inizio la donna francese non capisce, guarda tutto con gli occhi di un’occidentale, è infastidita dalla lentezza, dall’inaffidabilità della gente, dalla rassegnazione di tutti.

Poi comincia a toccare con mano le difficoltà quotidiane di queste persone, e capisce che la rassegnazione è l’unico modo per non cadere nella disperazione, gli espedienti sono l’unico modo per sopravvivere, la retorica della patria è l’unico valore rimasto cui attaccarsi dopo la caduta di tutte le altre ideologie. Scopre anche la generosità, la solidarietà, il senso della famiglia, il calore umano, e scopre suo malgrado di appartenere anche lei a questa terra e finalmente comincia a capire le ragioni che hanno spinto il padre a tornare.

Ho ritrovato in questo film lo stesso contrasto fra la rassegnazione orientale e lo spirito di iniziativa occidentale così ben descritti in quel poderoso libro di Franz Werfel che è “I Quaranta Giorni del Mussa Dagh”, su un episodio avvenuto durante il genocidio del popolo armeno del 1915.

Contrasto che è stato descritto in modo altrettanto magistrale in altri due film, “Vodka Lemon”, del giovane regista residente in Svizzera Hiner Saleem, che mi aveva profondamente commosso. Film povero, ambientato nella dimenticata Armenia ex-sovietica, d’inverno, in i protagonisti sono tre. Il primo è la neve che cancella tutto. L’altro è la miseria dignitosa e rassegnata di questa gente costretta a vendere tutto per vivere, ma ancora capace di aiutarsi reciprocamente, di amare e forse anche sognare. L’ultimo è l’attesa. L’attesa di una lettera, un aiuto da parte dei parenti più fortunati che sono riusciti ad emigrare in occidente.

Lo stesso tema, l’attesa, è protagonista del film “Da Quando Otar è partito”, ambientato in Georgia, della regista belga Julie Bertuccelli. L’ho visto una sera per caso, su ARTE, canale culturale franco–tedesco. Un’altra scena di questa tragedia. Nonna, figlia e nipote vivono a Tbilisi, in Georgia, aspettando sempre notizie di Otar, il figlio che è andato in Francia. Non se ne sa più niente, così la nonna decide di vendere tutto per comprare i biglietti e andare a Parigi.

Non è solo la storia ad essere bella, quanto le figure di queste tre donne. La nonna soprattutto. Sono povere, ma hanno visto giorni migliori, parlano perfettamente il francese, sono educate, colte, consce di vivere in un paese allo sfascio.

Vivono di nostalgia, nostalgia di tempi migliori che forse molto migliori non sono mai stati, nostalgia del figlio partito per la Francia, di cui non si hanno più notizie. Un giorno la nonna decide di vendere tutti i suoi libri, la sua unica ricchezza, per pagarsi il biglietto aereo, poi va su una ruota panoramica a fumarsi una sigaretta, e infine va all’ufficio postale a spedire una lettera al figlio. In questa scena è resa benissimo l’indolenza generale, la rassegnazione totale. La nonna supera tutte le difficoltà burocratiche e riesce a partire con figlia e nipote. A Parigi con grande fatica riesce a trovare la casa dove stava il figlio – altra bellissima scena con questa povera donna anziana e affaticata che bussa a tutte le porte di un grande palazzo senza ascensore – e finalmente trova un vicino che lo conosceva e le dice che è morto. Lei incassa il colpo con grande dignità, ma si vede che le è crollato il mondo addosso.

Poi si vede questa vecchietta, capelli bianchi, quasi gobba, che usa l’ombrello al posto del bastone, tutta triste, sola su una panchina della periferia di Parigi. Tornata al misero albergo dove alloggiano dice alla figlia e alla nipote che ha trovato la casa di Otar. A Parigi anche in famiglia le piace parlare il suo bel francese, chiaro, elegante, perfetto. Figlia e nipote preoccupatissime, perché loro hanno sempre saputo. E allora lei, con aria quasi birichina, dice, sono sicura che in America se la caverà benissimo, come sempre, del resto è un paese straordinario l’America, di sogno, farà fortuna.

L’attesa, dicevo, protagonista di questi film. L’attesa spasmodica di un aiuto da parte dei parenti emigrati. L’illusione che chiunque riesca a partire possa trovare fortuna in occidente. Le visite agli uffici postali, l’attesa dei postini. E’ quest’attesa che riesce ad impedire di cadere nella disperazione, che fa sopportare le privazioni più dure, subire le umiliazioni più brucianti.

Noi qui in occidente non ci rendiamo conto di tutto questo, non capiamo il carico di aspettative che grava su ogni immigrato. Spesso per noi sono solo clandestini, extracomunitari, immigrati.

E’ lo stesso conflitto che hanno vissuto i nostri immigrati dal sud, e che probabilmente vivono tutti gli immigrati dal sud del mondo. Ma chi ha ragione? E’ giusto sacrificare tutti i valori e tutte le tradizioni di secoli, lo spirito di solidarietà, lo stile di vita di un popolo, in nome dell’efficientismo e del profitto ad ogni costo?

Sono queste le domande che sembra porsi la protagonista al termine del suo viaggio. E anche noi semplici spettatori. Domande senza risposta naturalmente, ma sapere che un problema esiste è il primo, piccolo passo, verso la sua soluzione. Ignorarne l’esistenza è permettergli di ingrandirsi.

I film:

DA QUANDO OTAR È PARTITO di Julie Bertuccelli (2002 F) 90'

VODKA LEMON di Hiner Saleem (2003 Armenia) 90'

LE VOYAGE EN ARMENIE di Robert Guédiguian (2006 Armenia) 125’

Cristina Cattaneo

Cristina Cattaneo
Società