IL SUCCESSO ITALIANO A BERLINO. CESARE DEVE MORIRE (ORSO D'ORO 2012). 12.2.29.12

Intervista ai fratelli Taviani, vincitori (ultima vittoria italiana nel 1991!)

Che tenerezza, vederli a ottanta e ottantadue anni, ancora insieme e così geniali da meritare- sebbene le critiche feroci e malevole dei media tedeschi- l'Orso d'oro 2012 per il miglior film in concorso dal titolo "Cesare deve morire" ambientato nel carcere di massima sicurezza Rebibbia!.

Paolo e Vittorio Taviani con L'Orso d'oro per il migliore film ricevuto al Festival di Berlino premia una voglia di sperimentare e un'umanità di contenuti che sono proprie della nostra cultura. Non è da tutti a quell'età pianificare un film all'interno di un carcere di massima sicurezza come Rebibbia, prenderne alcuni suoi detenuti e renderli protagonisti di una storia tanto classica (il Giulio Cesare di William Shakespeare) quanto moderna nella sua rappresentazione, dove la prigione diventa anfiteatro, una cella il set delle prove e ogni parola, dialogo o riflessione del copione il momento principale delle vite quotidiane di un gruppo di persone in cui l'essere qualcun altro, "interpretare" un personaggio, è l'unico modo di vivere da uomini liberi. La bellezza è che i due registi così famosi e "dimenticati" in Italia dimostrano ancora che quello che conta è la "passione" per il cinema e non altro. Di fatto, nel loro straordinario film che ha commosso la giuria del Berlinale, è che essi non giudicano i membri del proprio cast, non li assolvono dai loro peccati (a inizio film una didascalia sul viso di ogni detenuto indica la ragione e il tempo della condanna da scontare), ma gli danno quantomeno la possibilità di riflettere sulle proprie responsabilità, sugli ideali che dovrebbero essere fari nelle vite di ognuno di noi e al senso di sacrificio. Sono questi infatti i temi portanti del testo di Shakespeare, un'opera che anche nella sua più ridotta delle trasposizioni ti mescola ancora il sangue con le emozioni fino a farti soffrire con gli interpreti. I due fratelli di San Miniato non si accontentano di seguire la sceneggiatura, ma scelgono di rendere epico il tutto con tagli di montaggio improvvisi, primi piani carichi di tensione ed un bianco e nero che suggerisce quell'idea di immutabilità della storia che è tanto quella dell'Antica Roma che dei carcerati chiamati a rievocarla per l'occasione.

Le reazioni

In pochi si aspettavano un Orso d'oro ai Taviani, ma non per la qualità del film, sui cui concordavano quasi tutti (sono stati tanti gli applausi in sala dopo la proiezione per la stampa al Berlinal Palast, riportano gli inviati dei vari giornali italiani), ma per quel suo essere catalogabile come "docu-fiction", genere normalmente disdegnato dai festival più duri e puri. Lo Spiegel ha parlato dell'assegnazione dell'Orso d'oro a Cesare deve morire come di "una scelta conservativa in una competizione piena di film giovani, impegnati e politici". Non potrebbe essere più fuori strada. Ben venga il cinema dei Taviani, potente tanto nelle immagini che nei contenuti. Tutto il resto sono speculazioni che sanno più da tifo da stadio che da giudizi veramente critici.

I Taviani sono stati grandi e rimangono tali.

Scheda del film:Cesare deve morire

Lingua originale italiano

Paese Italia

Anno 2012

Durata 76 min

Colore colore/bn

Audio

Genere drammatico, docu-fiction

Regia Paolo e Vittorio Taviani

Sceneggiatura Paolo e Vittorio Taviani

Casa di produzione Kaos Cinematografica, Rai Cinema

Distribuzione (Italia) Sacher Distribuzione

Montaggio Roberto Perpignani

Musiche Giuliano Taviani, Carmelo Travia

Interpreti e personaggi

Cosimo Rega: Cassio

Salvatore Striano: Bruto

Giovanni Arcuri: Cesare

Antonio Frasca: Marcantonio

J. Dario Bonetti: Decio

Vincenzo Gallo: Lucio

Premi

Orso d'Oro 2012

Cesare deve morire è un film del 2012 diretto da Paolo e Vittorio Taviani: amanti di Shakespeare.

La pellicola, girata in uno stile docu-fiction, narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia. Ha vinto l'Orso d'oro di Berlino 2012, riconoscimento che mancava all'Italia dal 1991quando il premio venne vinto da La casa del sorriso di Marco Ferreri. I due fratelli registi hanno dichiarato che uno dei motivi per cui hanno girato questo film è l'aver sentito la traduzione di Shakespeare in napoletano, in siciliano e in pugliese (vi immaginate i bergamaschi???). Il film è stato mostrato l'11 febbraio 2012 alla Berlinale e il 18 febbraio ha vinto l'Orso d'oro come miglior film al festival del cinema di Berlino. Dopo la presentazione alla Berlinale, il film verrà distribuito nelle sale cinematografiche il 2 marzo 2012 a cura della Sacher Distribuzione.

Fin dall'inizio i Taviani comunicano allo spettatore le pene da scontare di tutti i loro interpreti, la maggiore parte sono condanne per associazione mafiosa e in parecchi casi si parla di ergastolo. L'utilizzo del carcere come location per tutto il film non fa che sottolineare le loro pene. Quegli ideali di libertà e giustizia invocati da Bruto sono gli stessi per cui loro, ormai, per quanto si possano battere, non potranno mai più realizzare.

La storia, anzi l'antefatto

Nel teatro all'interno del carcere romano di Rebibbia si conclude la rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Sei mesi prima: il direttore del carcere espone il progetto teatrale dell'anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l'assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il "Giulio Cesare" shakesperiano prende corpo.

I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato a chi non ha mai messo piede in un carcere come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto. Quando poi si pensa a una fusione di fiction e documentario la mente va al piuttosto recente e sicuramente riuscito film di Davide Ferrario Tutta colpa di Giuda. I Taviani scelgono la strada del work in progress utilizzando coraggiosamente l'ormai antinaturalistico (e televisivamente poco gradito) bianco e nero. L'originalità della loro ricerca sta nella cifra quasi pirandelliana con la quale cercano la verità nella finzione. Questi uomini che mettono la loro faccia e anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo) in pubblico si ritrovano, inizialmente in modo inconsapevole, a cercare e infine a trovare se stessi nelle parole del poeta divenute loro più vicine grazie all'uso dell'espressione dialettale. Frasi scritte centinaia di anni fa incidono sul presente nel modo che Jan Kott attribuiva loro nel saggio del 1964 dal titolo "Shakespeare nostro contemporaneo". Ogni detenuto 'sente' e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo.

DOMANDE & RISPOSTE

- Voi considerate Shakespeare come uno dei vostri principali riferimenti. Perché?

Paolo Taviani: Diciamo scherzosamente che Shakespeare è stato per noi un padre, un fratello e un figlio. Quando eravamo giovani, era un mito: abbiamo letto le sue opere, percepito la sua grandezza e abbiamo utilizzato nel nostro lavoro gli strumenti che ci ha dato. Ma la sua opera era così accessibile che ci siamo sempre sentiti molto vicini a lui, come un grande fratello geniale. Perché non bisogna mai smettere di ripeterlo: è sempre importante riscoprire Shakespeare. Ora che abbiamo una certa età, abbiamo deciso che potevamo cambiare Shakespeare un po', decostruirlo per riassemblarlo in altro modo. E lo abbiamo fatto per il cinema, che è un mondo piuttosto lontano da quello di Shakespeare. Abbiamo anche pensato che fosse una buona idea montare questa pièce teatrale in carcere.

- Perché avete scelto proprio il Giulio Cesare?

Vittorio Taviani: È cominciato tutto per caso. Un nostro amico ci aveva raccontato che aveva pianto a una pièce teatrale, cosa che gli capitava di rado, e che questa pièce era rappresentata in carcere. Ci siamo andati. Eravamo in una sezione di alta sicurezza con dei criminali mafiosi che recitavano L'inferno di Dante. Loro stessi erano nell'inferno della prigione e si identificavano totalmente con i personaggi. Tutti sanno che cosa significa la prigione e i film americani ne danno una certa immagine. Ma quando entri in un carcere e cominci a lavorare con i detenuti, crei una complicità, una prossimità, cerchi di comprenderli. Siamo quasi diventati amici con loro, ma a un certo punto qualcuno ci ha detto: "Sono dei criminali, fate attenzione!". Si può comunque provare amicizia per loro perché soffrono per quello che hanno fatto. Ci siamo allora chiesti che cosa potevamo fare per loro, come mostrare la loro realtà. E abbiamo pensato che il Giulio Cesare potesse essere una buona scelta. Tutti conoscono la storia di Bruto e ci chiedevamo come sarebbe stato il testo nel dialetto napoletano degli "uomini d'onore". Erano al contempo nel loro mondo e in quello di Shakespeare. La pièce parla di potere, di tradimento, di assassinio, del capo. Ci siamo detti che forse potevamo riuscire a includere le loro esperienze, le loro personalità e la loro realtà nella pièce. Perché le loro vite sono drammatiche e le si poteva collegare al destino di Bruto, per esempio. Potevano facilmente entrare nei panni dei personaggi. Con questo film, abbiamo voluto mostrare la vita, i traumi che questi detenuti hanno vissuto, la violenza, la sofferenza, il fallimento, il dolore. Perché la prigione è un'esperienza terribile.

- Come si è svolto il casting?

Paolo Taviani: Quando abbiamo incontrato questi attori, erano al contempo detenuti e attori. Fabio Cavalli ci ha aiutato molto poiché è un regista di teatro che ha dedicato parte della sua vita al teatro in carcere. Ci ha dato la possibilità di incontrare i detenuti. Poi, ne abbiamo scelti alcuni. Durante le audizioni e le prove, hanno dato il loro vero nome, non pseudonimi, hanno pianto, si sono arrabbiati, e sapevano che tutto questo sarebbe diventato un film che sarebbe andato nelle sale italiane. Questo ci ha sorpreso molto, così come il fatto che recitavano molto bene, anche se in modo un po' convenzionale. Quando l'attore dice "vado a uccidere Cesare", traspare un dolore che non è quello di un attore normale, perché richiama il proprio passato. Questi attori detenuti erano capaci di comunicare in modo molto emozionale.

- Perché avete realizzato il film in bianco e nero?

Vittorio Taviani: Oggi, ci sono talmente tante immagini a colori che danno una rappresentazione naturalista… Volevamo mostrare altro: quello che c'è nell'anima della gente. È per questo che abbiamo scelto il non realismo del bianco e nero. Per noi, è stata un'esperienza unica. Quando siamo entrati per la prima volta in prigione, era come penetrare in un mondo nuovo. La complessità del destino umano è molto misteriosa (Cfr. Cineuropa, febbraio 2012).

Maria de Falco Marotta & Team

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