A Sondrio Pupi Avati cantastorie di vita

Sala «Besta» delle grandi occasione alla Banca Popolare di Sondrio per l'atteso ritorno, dopo 7 anni, del regista Pupi Avati, presentato al folto uditorio dal Presidente Piero Melazzini. Tema della serata «La grande invenzione - Un'autobiografia», in cui l'autore bolognese si è raccontato con garbo partendo sin dalla sua più tenera infanzia. «Sono cresciuto in una famiglia speciale con un papà dal grande fascino seduttivo che apparteneva all'opulenta borghesia bolognese», esordisce Avati che si sofferma poi sulla figura di un nonno sciupafemmine e avvezzo alle corse di cavalli che lo condussero in totale rovina. Fu allora l'energica dattilografa del negozio di antiquariato a mettere gli occhi sul bel figlio del padrone. «I mei genitori si sposarono il 3 febbraio del 1938. E fu in quel preciso giorno che io fui concepito» continua l'affermato regista bolognese. Momenti drammatici poi quelli in cui la sua famiglia sfollata finì nella contadina Sasso Marconi dove gli anziani «inoculavano la paura nei bambini attraverso le loro favole antiche, un modo per dare ali all'immaginazione».

Poi Avati spinge l'acceleratore su un tema a lui caro: la scoperta della propria identità attraverso la scoperta dei propri limiti e dei propri talenti. «Da piccolo avevo un sogno: quello di diventare il più grande clarinettista jazz. E c'ero in parte riuscito entrando nella più grande band bolognese. Ma un giorno, in Germania, fui lasciato al palo da un giovanottino insignificante che mi surclassò al clarinetto facendomi nutrire a lungo d'invidia. Solo Salieri avrebbe potuto capirmi! Ero arrivato al punto di desiderare con qualsiasi mezzo di liberarmi di quel suonatore da strapazzo nutrendo l'ansia assassina che covava in me, progettando di farlo precipitare giù dal pinnacolo della Sagrada Familia a Barcellona», ricorda il relatore. Una balla condivisa con gusto dal suo antagonista, un tale Lucio Dalla, diventato poi uno dei suoi più grandi amici. Il tono del grande Pupi si fa poi struggente quando racconta di essere ormai oltre «lo scollinamento», sapendo di aver lasciato alle spalle la parte migliore di sé. Ora è tempo di ricordi. Affabulatore dal linguaggio schietto e sincero, Avati diventa così maestro di vita con le sue mille storie, e cantore dell'effimera gaiezza giovanile con quella sottile vena melanconica che mai l'abbandona, nemmeno nell'ebbrezza seduttiva di un erotismo stuzzichevole, leggero, mai prosaico. In lui si cimenta l'eterno dualismo del sacro e del profano, dell'ebbrezza del vino e del divino, nell'amarevole consapevolezza del tempo che inesorabilmente corre e tutto consuma. Nel suo vasto campionario di maschere umane c'è spazio per tutti, dall'imbelle all'eroe salvifico, ma, mai dimentico dell'antica passione per il mondo pentagrammato, Pupi ha saputo elevare al cielo le miserie, le angosce e le sconfitte di una vita, facendone storie universali in cui riconoscersi e confrontarsi, affidandole a melodie purissime come quelle di Riz Ortolani o del rimpianto amico del giorno dopo, quel Lucino che se n'è andato in punta di piedi, che fanno da dolce contrappunto alle levigate immagini di tanti suoi capolavori. La sconfinata giovinezza se n'è andata. Ma restano i ricordi e i suoi film per ripercorrere le tracce di un tempo perduto proustiano, per raccontare l'umana parabola di chi ha fatto di un sogno un'accecante realtà.

Nello Colombo

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