GIORNALISTI SOLO CON LAUREA ALMENO TRIENNALE
Riceviamo e pubblichiamo:
INDICE
1. Premessa. Mussi ritira il “Dpr Moratti/Siliquini”. Accesso agli Ordini professionali: “una materia sulla quale deve logicamente far premio il recepimento della Direttiva Comunitaria sulle qualifiche professionali superiori”.
2. Il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999 (voluta dal Governo D’Alema rispettoso della direttiva 89/48/Cee) conferisce al ministero dell’Università, di concerto con quello della Giustizia, il compito di "integrare e modificare" con regolamento gli attuali ordinamenti sull’accesso alla professioni e di raccordarli con le lauree triennali e con le lauree specialistiche biennali.
3. Il “dlgs La Loggia” 30/2006 afferma che il Governo ha mantenuto, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, i poteri di disciplinare le professioni, come riconosciuto ripetutamente dalla Corte costituzionale con le sentenze 353/2003, 319/2005, 355/2005, 405/2005, 424/2005, 40/2006 e 153/2006.
4. Gli editori rivendicano il “diritto di assumere come giornalisti tutti coloro che, a proprio discrezionale giudizio, ritengono di avviare all’attività di informazione”.
5. La professione giornalistica, come quella degli avvocati e dei medici, è nella Costituzione.
6. La direttiva 2005/36/Ce (“direttiva Zappalà”) sulle qualifiche professionali consente, infatti, agli Stati membri di delegare parte della gestione delle professioni a organismi autonomi, come gli Ordini e i Collegi professionali.
1. Premessa. Mussi ritira il “Dpr Moratti/Siliquini”. Accesso agli Ordini professionali: “una materia sulla quale deve logicamente far premio il recepimento della Direttiva Comunitaria sulle qualifiche professionali superiori”.
Il Ministro dell’Università, Fabio Mussi, su invito della Corte della Conti, ha ritirato il “DpR Moratti/Siliquini” (uno degli ultimi atti firmati dal presidente Carlo Azeglio Ciampi), che avrebbe dovuto disciplinare gli esami di Stato per l’accesso alle professioni di dottore agronomo e dottore forestale, agrotecnico e agrotecnico laureato, architetto, pianificatore paesaggista e conservatore, assistente sociale, attuario, biologo, chimico, farmacista, geologo, ingegnere, psicologo, tecnologo alimentare e veterinario, consulente del lavoro, geometra e geometra laureato, giornalista, perito agrario e perito agrario laureato, perito industriale e perito industriale laureato nonché per l’abilitazione nelle discipline statistiche. Per quanto riguarda l e professioni di consulente del lavoro, geometra e geometra laureato, giornalista, perito agrario e perito agrario laureato, perito industriale e perito industriale laureato, il Dpr prevedeva la doppia via (diploma e laurea), mentre nella versione originaria del 22 dicembre 2005 stabiliva soltanto il possesso della laurea.
Fabio Mussi, nell’audizione del 4 luglio 2006 davanti alla VII Commissione della Camera ha dichiarato: “Ci sono anche stati rilievi degli organi giurisdizionali sul decreto Moratti relativo alle abilitazioni e all’accesso agli ordini professionali: una materia sulla quale deve logicamente far premio il recepimento della Direttiva Comunitaria sulle qualifiche professionali superiori. La Corte dei Conti, visto il ritiro del decreto sulle classi di laurea, ci ha invitati al ritiro anche di questo”. La Direttiva Comunitaria sulle qualifiche professionali superiori è la numero 89/48/CEE del 21 dicembre 1988 “relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni”.
La direttiva 89/48/CEE, recepita con il Dlgs 115/1992, ha introdotto (con l’articolo 2/bis del dlgs 115/1992) la definizione di professione "regolamentata". Si definisce formazione regolamentata “qualsiasi formazione direttamente orientata all'esercizio di una determinata professione e consistente in un ciclo di studi post-secondari di durata minima di tre anni oppure di durata equivalente a tempo parziale in un'università o in un altro istituto di livello di formazione equivalente e, se del caso, nella formazione professionale, nel tirocinio o nella pratica professionale richiesti oltre il ciclo di studi post-secondari: la struttura e il livello di formazione professionale, del tirocinio o della pratica professionale devono essere stabiliti dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative dello Stato membro interessato o soggetti al controllo o all'autorizzazione dell'autorità designata a tal fine”.
La direttiva in conclusione ha fissato il principio per cui l’esercizio delle professioni presuppone il superamento di un ciclo di studi postsecondari di una durata minima di tre anni o di durata equivalente a tempo parziale, in una università o in un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione. I principi fissati dalla direttiva 89/48/CEE sono stati realizzati dalla Repubblica Italiana con la Riforma universitaria 1999/2000/2005 e con il contestuale collegamento (tramite il comma 18 dell’articolo 1 della legge 4/1999) delle lauree (triennali) e delle lauree biennali specialistiche (o magistrali) alle professioni regolamentate organizzate con l’Ordine (o con il Collegio) e con l’esame di Stato. Tra le professioni regolamentate rientra quella di giornalista (ex legge n. 69/1963, sentenze nn. 11 e 98/1968; 2/1971; 71/1991; 505/1995 e 38/1997 della Corte Costituzionale) alla quale si accede tramite esame di Stato al pari delle altre.
La Repubblica Italiana ha recepito in maniera inadeguata, discriminatoria e parziale la direttiva n. 89/48/CEE, non includendo (al pari delle altre) la professione giornalistica nell’Allegato A del Dlgs n. 115/1992, pur in presenza dell’allora Diploma triennale universitario (o laurea breve) in Giornalismo (decreto 31 ottobre 1991 noto come “riforma Salvini”). La Repubblica Italiana, pur avendone la facoltà in base all’articolo 11 (punto 1a) del Dlgs n. 115/1992, non ha modificato o integrato (“con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”) detto Allegato A, “tenuto conto delle disposizioni vigenti o sopravvenute”, abrogando i commi 4, 5, 6 e 7 dell’articolo 33 della legge n. 69/1963, i quali non stabiliscono alcun percorso formativo universitario minimo per chi intende accedere alla professione giornalistica.
Solo nel 2003, con il dlgs 277, la Repubblica italiana ha compiuto un atto di riparazione parziale, modificando la tabella delle professioni (allegato C) inclusa nel dlgs 319/1994 (che ingloba la direttiva 92/51/CEE). Oggi, infatti, la professione di giornalista rientra tra quelle caratterizzate dal possesso del diploma (e non dalla laurea) riconosciute come tali dal dlgs 2 maggio 1994 n. 319, che ha dato “attuazione alla direttiva 92/51/CEE relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE”. Il dlgs 8 luglio 2003 n. 277 ha dato, invece, attuazione della direttiva 2001/19/CE, che modifica le direttive del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali. L’allegato II (di cui all'art. 2, comma 1, lettera l) del dlgs 277/2003 cita espressamente la professione di giornalista come vigilata dal Ministero della Giustizia. L’allegato II del dlgs 277/2003 ha anche sostituito, come riferito, l’allegato C del dlgs 319/1994. I dlgs 277/2003 e 319/1994 in sostanza dicono, con l’allegato II (ex allegato C), che la professione giornalistica (italiana), organizzata (ex legge 69/1963) con l’Ordine e l’Albo (in base all’art. 2229 Cc) e costituzionalmente legittima (sentenze 11 e 98/1968, 2/1971, 71/1991, 505/1995 e 38/1997 della Consulta), ha oggi sì il riconoscimento dell’Unione europea, ma a un livello inferiore rispetto a quelle comprese nell’allegato A del Dlgs 115/1992 caratterizzate dalla laurea. Ora Mussi intende correggere questa stortura con una norma regolamentare semplice in base alla quale i praticanti giornalisti all’atto della iscrizione nel Registro dovranno possedere una laurea triennale.
La sentenza della quarta sezione della Corte di giustizia europea del 10 maggio 2001 - (nella causa C-285/00 contro la Repubblica francese, che non aveva adottato la normativa europea per il riconoscimento della professione di psicologo) - afferma che “la direttiva 89/48/CEE va applicata alle professioni regolamentate, cioè a quelle per le quali l’accesso o l’esercizio sono subordinati, direttamente o indirettamente, mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma universitario della durata minima di tre anni”. L’Europa, quindi, vuole che i professionisti, compresi i giornalisti italiani organizzati con l’Ordine, abbiano almeno una laurea triennale.
“La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte occasione di precisare che la norma dell’art. 33 Cost. reca in sé un principio di professionalità specifica. Essa, cioè, richiede che l’esercizio di attività professionali rivolte al pubblico avvenga in base a conoscenze sufficientemente approfondite e ad un correlato sistema di controlli preventivi e successivi di tali conoscenze, per tutelare l’affidamento della collettività in ordine alle capacità di professionisti le cui prestazioni incidono in modo particolare su valori fondamentali della persona: salute, sicurezza, diritti di difesa, etc. (C.Cost., 23 dicembre 1993, n. 456; 26 gennaio 1990, n. 29)” (parere n. 448/2001 della Sezione Seconda del Consiglio di Stato emesso nell’adunanza 13 marzo 2002).
Sono mutati i requisiti culturali per l’esercizio delle professioni nell’ambito dei Paesi Ue e, quindi, gli aspiranti giornalisti professionisti italiani non possono essere discriminati (con violazione dell’art. 3 Cost.) rispetto agli altri aspiranti professionisti italiani e a quelli europei sotto il profilo della preparazione universitaria minima di tre anni. “Il titolo di studio precede la maturazione professionale” (Corte Cost., 27 luglio 1995, n. 412, a proposito della professione di psicologo).
2. Il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999 (voluta dal Governo D’Alema rispettoso della direttiva 89/48/Cee) conferisce al ministero dell’Università, di concerto con quello della Giustizia, il compito di "integrare e modificare" con regolamento gli attuali ordinamenti sull’accesso alla professioni e di raccordarli con le lauree triennali e con le lauree specialistiche biennali.
Il Dlgs n. 300/1999 affida al Ministero della Giustizia la vigilanza sugli Ordini professionali e al Ministero dell’Università la "missione" di formare i nuovi professionisti. Il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999 (voluta dal Governo D’Alema rispettoso della direttiva 89/48/Cee) conferisce al ministero dell’Università, di concerto con quello della Giustizia, il compito di "integrare e modificare" con regolamento gli attuali ordinamenti sull’accesso alla professioni e di raccordarli con le lauree triennali e con le lauree specialistiche biennali. Il regolamento (Dpr n. 328/2001) disciplina la maggioranza delle professioni intellettuali, ma trascura quelle dei giornalisti e dei consulenti del lavoro.
La base legislativa del regolamento risiede appunto nell’art. 1, comma 18, della legge n. 4 del 1999, ai sensi del quale “Con uno o più regolamenti adottati, a norma dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, sentiti gli organi direttivi degli ordini professionali, con esclusivo riferimento alle attività professionali per il cui esercizio la normativa vigente già prevede l’obbligo di superamento di un esame di Stato, è modificata e integrata la disciplina del relativo ordinamento, dei connessi albi, ordini o collegi, nonché dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove, in conformità ai seguenti criteri direttivi:
a) determinazione dell’ambito consentito di attività professionale ai titolari di diploma universitario e ai possessori dei titoli istituiti in applicazione dell’articolo 17, comma 95, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni;
b) eventuale istituzione di apposite sezioni degli albi, ordini o collegi in relazione agli ambiti di cui alla lettera a), indicando i necessari raccordi con la più generale organizzazione dei predetti albi, ordini o collegi;
c) coerenza dei requisiti di ammissione e delle prove degli esami di Stato con quanto disposto ai sensi della lettera a)”.
Con riferimento all’ambito della potestà regolamentare dei Ministeri dell’Università e della Giustizia, si ritiene, - come ha più volte osservato l’Ufficio legislativo del Ministero dell’Università -, che la disposizione dell’art. 1, comma 18, della legge n. 4 del 1999, non debba essere intesa con riferimento alle sole professioni per le quali è già richiesto il diploma di laurea dalle disposizioni vigenti. La predetta norma, infatti, attribuisce la potestà regolamentare con riferimento a tutte le professioni “per il cui esercizio la normativa vigente già prevede l’obbligo del superamento di un esame di Stato”; l’oggetto della norma di delegificazione è pertanto costituito dalla disciplina delle professioni per le quali è previsto l’esame di Stato, mentre le disposizioni contenute nelle lett. a), b) e c) costituiscono principi e criteri direttivi per l’esercizio della potestà regolamentare stessa. Tale interpretazione della norma in questione è del resto confermata dal parere facoltativo reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della sezione seconda il 13 marzo 2002, n. 448/2001, proprio con riferimento alla possibilità di includere la professione di giornalista nella citata disciplina regolamentare; in tale parere si afferma la natura di esame di Stato della prova di idoneità prevista per l’accesso alla professione di giornalista e si conclude per l’insussistenza di motivi ostativi alla riforma dell’ordinamento professionale dei giornalisti ai sensi dell’art. 1, comma 18, della legge n. 4 del 1999. Una pronuncia, questa, che correggeva la miopia della “Commissioni Rossi”, che aveva escluso la professione di giornalista dal Dpr 328/2001. Va detto anche che dal combinato disposto degli artt. 33, quinto comma, e 117, terzo e sesto comma, della Costituzione, discende la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di esami di Stato per l’abilitazione alle professioni, e la connessa potestà regolamentare..
3. Il “dlgs La Loggia” afferma che il Governo ha mantenuto, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, i poteri di disciplinare le professioni, come riconosciuto ripetutamente dalla Corte costituzionale con le sentenze 353/2003, 319/2005, 355/2005, 405/2005, 424/2005, 40/2006 e 153/2006.
Questo contesto è stato rafforzato dal “dlgs La Loggia” 30/2006 il quale “individua i principi fondamentali in materia di professioni, di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che si desumono dalle leggi vigenti ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131, e successive modificazioni”.
Il comma 4 dell’articolo 1 del dlgs dispone testualmente che non rientrano nell’ambito di applicazione del decreto “la formazione professionale universitaria; la disciplina dell’esame di stato previsto per l’esercizio delle professioni intellettuali, nonché i Titoli, compreso il tirocinio, e le abilitazioni richiesti per l’esercizio professionale; l’ordinamento e l’organizzazione degli ordini e dei collegi professionali; gli albi e i registri; gli elenchi o i ruoli nazionali previsti a tutela dell’affidamento del pubblico; la rilevanza civile e penale dei Titoli professionali e il riconoscimento e l’equipollenza, ai fini dell’accesso alle professioni di quelli conseguiti all’estero”. L’Ufficio legislativo del Ministero dell’Università a ragione “ritiene di poter trarre il definitivo riconoscimento che la disciplina dell’esame di Stato richiesto per le professioni intellettuali e dei relativi requisiti di ammissione, compresi i Titoli di studio, rientra nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato”. Le materie, di cui parla il comma 4 dell’articolo 1 del dlgs, sono tutte disciplinate dagli articoli 33 e 35 della Costituzione, dal dlgs 300/1999, dall’articolo 2229 del Cc, dal Codice penale e dalle varie leggi delle professioni intellettuali, insomma da norme che conferiscono allo Stato una particolare capacità esclusiva di azione.
In sostanza il “dlgs La Loggia” afferma che il Governo ha mantenuto, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, i poteri di disciplinare le professioni, come riconosciuto ripetutamente, dopo l’entrata in vigore nel 2001 del nuovo Titolo V della Costituzione, dalla Corte costituzionale con le sentenze 353/2003, 319/2005, 355/2005, 405/2005, 424/2005, 40/2006 e 153/2006. Va detto che l’articolo 33 (quinto comma) della Costituzione conferisce il potere esclusivo allo Stato di legiferare in tema di “esame di Stato” per l’accesso alle professioni intellettuali: “....Innanzitutto dobbiamo leggere la Costituzione nel suo complesso, dove c'è ancora la norma che dice che per l'esercizio dell'attività professionale occorre l'esame di Stato (art. 33 Cost.): "E' prescritto un esame di Stato... per l'abilitazione all'esercizio professionale". Quindi tutto ciò che attiene allo status del professionista e delle libere professioni è riconducibile all’articolo 33 della Costituzione, il quale parla di esame di Stato... una volta recuperato l'art. 33 che in effetti vuol dire che lo status delle professioni continua a rimanere nelle mani dello Stato, la devoluzione della materia "professione" alle Regioni può avere il significato di affidare alle Regioni la disciplina delle specificità delle professioni nelle realtà locali” (intervento conclusivo del prof. Vincenzo Caianiello-presidente emerito della Corte costituzionale, ”L’inserimento delle professioni nel titolo V della Costituzione”, in Atti del Convegno nazionale “Quale federalismo per le professioni” del 18 marzo 2002 in Codroipo-Ud, promosso dal Cup del Friuli Venezia Giulia). Vincenzo Caianiello, con lungimiranza, ha anticipato le sette sentenze della Corte costituzionale, che dal 2003 al 2006 oggi hanno affermato, con grande coerenza, la competenza esclusiva dello Stato sulle professioni intellettuali.
4. Gli editori rivendicano il “diritto di assumere come giornalisti tutti coloro che, a proprio discrezionale giudizio, ritengono di avviare all’attività di informazione”.
Gli editori organizzati dalla Fieg negano l’esistenza di una professione di giornalista e non accettano il collegamento dell’esame di Stato dei giornalisti alle lauree universitarie, perché ciò intaccherebbe “il diritto alla libertà di organizzazione delle imprese editoriali” (art. 41 Cost.) e nel contempo limiterebbe “il diritto costituzionale di tutti i cittadini ad accedere, indipendentemente dal titolo di studio posseduto, alla professione giornalistica” (avv. Giancarlo Zingoni, vicedirettore Fieg, convegno di Verona 31 maggio 2002). Gli editori rivendicano il “diritto di assumere come giornalisti tutti coloro che, a proprio discrezionale giudizio, ritengono di avviare all’attività di informazione”, dimenticando che nell’ultimo decennio i laureati praticanti sono circa il 75% di quelli che hanno sostenuto l’esame di Stato. Gli editori vogliono “fare” i giornalisti come se nulla fosse accaduto rispetto al Regio decreto (Rd) n. 384/1928 e alla stessa legge n. 69/1963, che davano e danno soltanto agli editori stessi il potere di “creare” i praticanti giornalisti. Eppure con il Rd n. 2291/1929 il monopolio degli editori di “fare” i giornalisti” era stato spezzato: quest’ultimo Rd prevedeva la nascita di una scuola professionale per giornalisti sostitutiva del praticantato tradizionale. La scuola – che, aperta a Roma, durò 4 anni dal 1930 al 1933 – ospitava per sei mesi anche gli studenti universitari, che frequentavano il corso di laurea in Scienze politiche a indirizzo giornalistico dell’Università di Perugia: costoro, conseguita la laurea, avevano la facoltà di iscriversi nell’elenco professionisti dell’Albo.
L’impostazione degli editori trova, comunque, una barriera insuperabile in alcune sentenze della Corte costituzionale (11/68; 2/1971; 71/1991, 505/1995 e 38/1997). “Rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario – si legge nella sentenza 38/1997 della Corte costituzionale- determinare le professioni intellettuali per l'esercizio dle quali è opportuna l'istituzione di ordini o collegi e la necessaria iscrizione in appositi albi o elenchi ( art. 2229 cod. civ.)”. Non solo. L’articolo 41 della Costituzione, nel proclamare che "l’iniziativa economica privata è libera", afferma che essa "non può svolgersi .....in modo da recare danno....alla... dignità umana". La posizione degli editori offende la dignità dei giornalisti italiani (ai quali la Fieg nega assurdamente, - in violazione degli articoli 2, 3, 4, 34 e 35 della Costituzione -, il diritto all’istruzione universitaria) e nei fatti punta a sconfessare il principio elaborato dall’ordinamento giuridico comunitario (con la direttiva 89/48/Cee) secondo il quale i professionisti “regolamentati” debbano avere una formazione universitaria minima di 3 anni. Questa direttiva fa da sfondo al Dpr n. 328/2001, che collega (in base all’articolo 1, comma 18, della legge n. 4/1999) l’esame di stato delle singole professioni intellettuali alle lauree della riforma universitaria. Il “nuovo” Dpr 328, che scriverà il ministro Mussi, sanerà una discrasia tra Ordine dei giornalisti e normativa comunitaria in tema di accesso, mandando in soffitta le restrizioni attuali. Oggi, come riferito, sono gli editori che decidono chi entra nella professione giornalistica come praticante, prescindendo dal titolo di studio. La normativa professionale del 1963 (legge 69) ferisce i principi costituzionali della dignità della persona e dell’uguaglianza, quando assegna agli editori il potere esclusivo di manipolare, con scelte incontrollabili, il diritto costituzionale al lavoro professionale dei giornalisti. Con il passaggio dell’accesso all’Università, viene superato un sistema medioevale di selezione paternalistica e per giunta fortemente antidemocratico. L’Università, invece, aprendo le porte a tutti, è la via maestra della formazione dei “nuovi” giornalisti.
La posizione degli editori va combattuta in maniera radicale con un forte impianto giuridico: sul piano della Costituzione (artt. 2, 3, 21, 33 e 41), delle sentenze della Corte costituzionale (11/1968; 2/1971; 71/1971; 389/1989; 505/1995 e 38/1997); della direttiva comunitaria 89/48/Ce (recepita nel dlgs n. 115/1992); della sentenza della quarta sezione della Corte di giustizia europea del 10 maggio 2001 (causa C-285/00 contro la Repubblica francese); del dlgs 300/1999 (art. 50); delle leggi (4/1999, art. 1, comma 18); del parere del Consiglio di Stato 448/2001.
La finalità della legge 4/1999 (art. 1, comma 18) è quella di adeguare i contenuti dell’attività professionale e del relativo esame di Stato all’evoluzione normativa dell’ordinamento degli studi universitari, avviata dall’art.17, comma 95, dalla legge n. 127/1997, al quale, appunto, la legge n. 4/1999 ha apportato modificazioni.
Con specifico riferimento, poi, alla professione giornalistica la Corte costituzionale ebbe a chiarire (sentenze 11/1968 e 38/1997) che l’Ordine professionale dei giornalisti “ha il compito di salvaguardare erga omnes e nell’interesse della collettività la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica dei propri iscritti; il predetto Ordine non si pone pertanto in contrasto con i principi di libera manifestazione del pensiero, chiunque potendo scrivere per e su pubblicazioni di natura giornalistica, senza avere il titolo di giornalista”. “Con ciò la Corte ha ribadito la distinzione tra giornalista munito di una specifica e verificata capacità di informazione e coloro che sono legittimati a scrivere sugli organi di informazione senza avere quella specifica capacità debitamente verificata e dichiarata” (parere II sezione Consiglio di Stato n. 448/2001). In breve l’Ordine dei Giornalisti è l’ente che organizza i cittadini i quali manifestano il pensiero per professione.
Sempre a proposito della professione giornalistica, la stessa Corte costituzionale precisò che “l’Ordine professionale dei giornalisti è (al pari degli altri ordini e Collegi professionali), ente pubblico non economico che emette provvedimenti costitutivi del particolare status professionale di giornalista, al fine di perseguire fini di interesse generale, che superano di gran lunga la tutela sindacale dei diritti della categoria nel rapporto di lavoro subordinato con l’impresa giornalistica” [C. Cost., 8 febbraio 1991, n. 71; che richiamò la precedente sentenza n. 11 del 1968].
“Non è dubitabile che l’attività giornalistica costituisca “esercizio professionale” come previsto dall’art. 33, comma 5, Cost. Essa, infatti, anche se svolta nella forma di lavoro dipendente, rientra nella previsione delle “professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”, di cui all’art. 2229 cod. civ. Tale professione è infatti subordinata all’iscrizione nell’albo dei giornalisti istituito, come detto, dalla legge n. 69/1963” (parere II sezione Consiglio di Stato n. 448/2001).
“La natura professionale dell’attività giornalistica trova, d’altronde, conforto dal combinato dispositivo dall’art. 1, comma 3, e dall’art. 2 del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115 (Attuazione della direttiva n. 89/48/CEE relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni) e nel decreto MURST del 28 novembre 2000.
“La prima fonte ha fissato il principio per cui l’esercizio delle professioni presuppone il superamento di un ciclo di studi postsecondari di una durata minima di tre anni o di durata equivalente a tempo parziale, in una università o in un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione.
“La seconda, emanata in attuazione dell’art. 4, comma 2, del D.M. n. 509 del 3 novembre 1999 sull’autonomia didattica degli atenei, nel determinare le classi delle lauree specialistiche (il diploma di laurea di una volta) ha individuato all’allegato 13 la classe 13/S, intitolata “editoria, comunicazione multimediale e giornalismo”, indicandone le relative materie d’esame (“attività formative”).
“L’attività giornalistica si configura, dunque, vieppiù oggi come professione in relazione all’aumentato bagaglio culturale specifico per il suo espletamento: bagaglio in relazione al quale appare obsoleto – e dunque suscettibile di revisione normativa secondo l’intento legislativo della legge n. 4/1999 – il contenuto delle prove d’idoneità come oggi configurato dall’art. 32 della L. n. 69/1963 e dall’art. 44 del DPR n. 115/1965. Infatti, mutati i requisiti culturali per l’esercizio di una professione, l’accertamento dell’idoneità professionale non può prescindere da essi, tenuto conto che “il titolo di studio precede la maturazione professionale” [C. Cost., 27 luglio 1995, n. 412, a proposito della professione di psicologico].
“In tale mutato contesto dell’ordinamento universitario la riforma dell’esame per giornalista appare oltretutto quantomeno opportuna, in quanto risponderebbe alla finalità di adeguamento perseguite dalla legge n. 4/1999, di cui si è fatto cenno all’inizio.
“D’altra parte, nella giurisprudenza costituzionale non si è mai dubitato che anche quello di giornalista, al pari di altre professioni (come ad es. gli avvocati, gli ingegneri, i geometri, etc.) costituisce un ordinamento speciale, con le conseguenti caratteristiche comuni, tra cui quella dell’accesso mediante selezione rigorosa ed oggettiva [C. Cost., 14 dicembre 1995, n. 505, relativa al procedimento penale dei giornalisti)”. (parere II sezione Consiglio di Stato n. 448/2001)
5. La professione giornalistica, come quella degli avvocati e dei medici, è nella Costituzione.
L’Antitrust, sbagliando, ha affermato che soltanto la professione degli avvocati e quella dei medici sono nella Costituzione (con riferimento agli articoli 24 e 32, che parlano del diritto di difesa e del diritto alla salute). Anche la professione di giornalista è nella Costituzione. Il secondo comma dell’articolo 21 della Costituzione afferma che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. La stampa è fatta, alimentata, progettata e creata dai giornalisti professionisti. “L'esperienza dimostra – ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 11/1968 - che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana dei professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali”. La Costituzione e la Corte costituzionale disegnano, quindi, una professione giornalistica come professione della libertà ancorata alla carta fondamentale della Repubblica. “Quella libertà che - come ha scritto Mario Borsa - prima di essere un diritto è un dovere”. Il nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a un percorso formativo universitario (come impongono la direttiva comunitaria n. 89/48/CEE e il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999), a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha riconosciuto “il rilievo costituzionale della libertà di cronaca (comprensiva della acquisizione delle notizie) e della libertà di informazione quale risvolto passivo della manifestazione del pensiero, nonché il ruolo svolto dalla stampa come strumento essenziale di quelle libertà, che è, a sua volta, cardine del regime di democrazia garantito dalla Costituzione”.
Il secondo comma dell’articolo 21 va incrociato con il quinto comma dell’articolo 33 della Costituzione: “È prescritto un esame di Stato ...per l'abilitazione all'esercizio professionale”. Lo Stato, quindi, deve garantire i cittadini sulla preparazione dei giornalisti “all’esercizio professionale”. Su questa base il Parlamento ha stabilito (con la legge n. 69/1963) che esiste una professione giornalistica, che è stata poi organizzata, come prescrive l’articolo 2229 del Codice civile, con l’Ordine (giudice disciplinare e giudice delle iscrizioni) e l’Albo. Il vincolo italiano dell’esame di Stato per accedere all’esercizio delle professioni intellettuali è un’anomalia internazionale assorbita, però, dal dicembre 1988 nella direttiva 89/48/CE recepita nel dlgs n. 115/1992. Questo dlgs all’articolo 8 prevede una “prova attitudinale” per l’esercizio di una professionale in ogni Paese comunitario. La “prova attitudinale” è in Italia l’esame di Stato di cui all’articolo 33, V comma, della Costituzione.
6. La direttiva 2005/36/Ce (“direttiva Zappalà”) sulle qualifiche professionali (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 255/22 del 30 settembre 2005) consente, infatti, agli Stati membri di delegare parte della gestione delle professioni a organismi autonomi, come gli Ordini e i Collegi professionali.
Frattanto il sistema ordinistico italiano esce rafforzato dal varo di una nuova direttiva comunitaria. La direttiva 2005/36/Ce (“direttiva Zappalà”) sulle qualifiche professionali (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 255/22 del 30 settembre 2005) consente, infatti, agli Stati membri di delegare parte della gestione delle professioni a organismi autonomi, come gli Ordini e i Collegi professionali. Ora, gli Stati avranno due anni di tempo, sino a settembre 2007, per adeguarsi. La normativa riguarda sia il lavoro subordinato che autonomo,
La direttiva “Zappalà” riconosce e definisce la specificità delle professioni liberali. La specificità si concretizza nella personalità, nella responsabilità individuale e nell'indipendenza di chi svolge una professione liberale. Il professionista svolge prestazioni di natura intellettuale (distinte da quelle esecutive), nell'interesse del cliente e della collettività.
Le professioni liberali, proprio perché perseguono l'interesse generale, possono essere esonerate dalla disciplina tipica di chi pratica il commercio e l'industria, come la libera concorrenza, purché ciò avvenga nei limiti di quanto è strettamente necessario a tali obiettivi. In questo quadro, gli Stati Ue potranno prevedere regole che pongono limiti all'esercizio della professione, stabiliti per legge ma anche attraverso codici di autoregolamentazione degli organismi professionali.
La direttiva consente la valorizzazione degli Ordini (o delle associazioni laddove esse siano chiamate a svolgere funzioni analoghe dagli ordinamenti nazionali). Infatti, gli Stati possono delegare questi organismi a svolgere competenze che la direttiva lascia alla competenza nazionale. Tra queste: il ricevimento e la valutazione della dichiarazione preventiva in occasione del primo spostamento del professionista che intende esercitare in libera prestazione dei servizi; la verifica, in occasione della prima prestazione di servizi delle qualifiche professionali aventi impatto sulla salute e la sicurezza che non siano disciplinate dalla sezione specifica della direttiva; lo scambio d'informazioni nell'ambito della cooperazione amministrativa; la conferma dell'autenticità dei documenti forniti dal prestatore di servizi; l'esame della richiesta di autorizzazione per l'esercizio della professione.
In realtà la direttiva non fa che prendere atto della situazione esistente nella maggior parte degli Stati membri, ove i poteri pubblici delegano parte della gestione delle professioni a organismi autonomi. Tuttavia, la direttiva non prevede alcun obbligo di riconoscimento delle associazioni se non per quelle britanniche e irlandesi tassativamente elencate. La professione esercitata dagli iscritti è assimilata alle professioni regolamentate e le associazioni sono ora sottoposte agli obblighi in materia di riconoscimento e iscrizione. In questo modo le associazioni britanniche e irlandesi non potranno più rifiutare l'iscrizione ai cittadini di altri Paesi Ue, obiettando che la professione può essere esercitata da un cittadino di un altro Paese Ue senza riconoscimento perché non regolamentata. La legittimazione degli organismi rappresentativi delle professioni non ha rilievo solo a livello nazionale ma anche europeo.
Franco Abruzzo