LA SPERANZA? DAI PRIMORDI DEL CRISTIANESIMO È UNA VIRTÙ TEOLOGALE (SPES SALVI DI BENEDETTO XVI).(2)

Bene ha fatto Benedetto XVI a richiamare nella sua seconda enciclica la speranza ad un’umanità che con i tempi che corrono ne ha ben poca. Il documento Spe salvi lungo 77 pagine, con una introduzione e suddivisa in paragrafi, si presenta come un continuum che prende inizio dal concetto di speranza e fede, per toccare il tema della vita eterna e del rapporto fede-ragione, fino alla trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno. Spe salvi è stata commentata da tanti. A me interessa puntare l’obiettivo sulla speranza e- di conseguenza- “Dare a Cesare quello che è di Cesare” e cioè ristabilire un minimo di verità sull’illuminismo e il marxismo.

Cos’è la speranza?

La speranza è lo stato d'animo di chi è fiducioso negli avvenimenti futuri o già accaduti di cui non conosce i contorni precisi e le esatte possibilità di riuscita. La speranza, in psicologia, è "uno stato d’animo di attesa fiduciosa nel compimento imminente o futuro di un evento o nel raggiungimento di uno scopo prefissato". Secondo il cristianesimo rappresenta una delle tre virtù teologali, insieme a fede e carità, definite da San Paolo apostolo nella Prima Lettera ai Corinzi (Cap. 13). Nell'articolo 2090 del Catechismo della Chiesa Cattolica la speranza è definita come "l'attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio" e anche come "il timore di offendere l'amore di Dio e di provocare il castigo". Nello stesso articolo sono definiti come "peccati contro la speranza" la disperazione (che equivale alla cessazione della fiducia nella onnipotenza di Dio) e la presunzione (con la quale si presume di potersi salvare senza Dio, o, viceversa, senza una personale conversione).Ne consegue che per il cristiano la speranza equivale alla certezza della divina Misericordia che si orienta verso il peccatore convertito. Nel Novecento teologico la parola "speranza" evoca la riflessione di Jurgen Moltmann: riprendendo in un discorso di fede le riflessioni del marxista Ernst Bloch sul "principio speranza", Moltmann pone in primo piano l'escatologia cristiana, cuore della fede in Gesù Cristo e cioè la promessa di un riscatto per i poveri, per chi subisce ingiustizie e persecuzioni.

Qualche notazione “teologica” sulla speranza

Ricordo che negli Anni Settanta la “speranza” andava proprio forte. La Teologia della speranza di J. Moltmann inaugura la serie di quelle che sono state chiamate, spesso provocatoriamente, «teologie dei genitivi» (della liberazione, della rivoluzione, delle donne, del Dio crocifisso) e ne condivide l’intenzione: non si tratta di sviluppare la riflessione su un elemento specifico della fede cristiana, ma di pensare quest’ultima, nel suo insieme, a partire da un punto prospettico, tale da esprimere la centralità del messaggio evangelico in un determinato contesto storico. L’idea centrale è che «l’escatologia non dovrebbe costituire la fine, ma il principio», in grado di orientare al futuro l’intera riflessione teologica. Il nuovo di Dio non è riconducibile alle potenzialità emancipatrici dell’umanità, ma nemmeno deve essere pensato prescindendo da esse. Naturalmente la riflessione moltmanniana va inserita nel clima ottimistico dei primi anni Sessanta del XX secolo, caratterizzati dalla politica kennediana, dal dialogo Est-Ovest, dal concilio Vaticano II (1962-1965). Essa è anche la critica di un’euforia politico-tecnica, a partire dal tema teologico dell’avvento del regno di Dio. La centralità della dimensione escatologica era già stata sottolineata, nella teologia del Novecento, soprattutto dal primo Barth e poi da R. Bultmann. In quest’ultimo, in particolare, è tuttavia clamorosamente evidente il rischio di dissolvere la storia concreta, fatta di corpi e di eventi, nella «storicità» dell’hic et nunc della «decisione» individuale che avrebbe portata escatologica. Questa è anche la critica fondamentale di Käsemann all’interpretazione bultmanniana del messaggio paolino della giustificazione. Giustificazione del peccatore significa, secondo Käsemann, che Dio sconfigge le potenze demoniache che incatenano la storia e gli esseri umani, instaurando la propria signoria, cioè lo spazio storico-cosmico della salvezza. La «speranza» di Moltmann riprende in prospettiva sistematica questa scoperta esegetica, filtrandola attraverso le categorie blochiane e la spinta utopica del neomarxismo.

Moltmann è un protestante riformato, ma il suo interesse per una prospettiva confessionale è assai scarso, anche se, su un tema come questo, la matrice evangelica è chiaramente avvertibile( Cfr.: Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana (1964), Queriniana, Brescia 1970 (20027).

L’attesa di futuro dell’uomo

La speranza cristiana è una virtù soprannaturale, perciò, suscitata. Nel trattato De

virtutibus della teologia dogmatica e della teologia morale, è tra le virtù

teologali, che hanno per oggetto Dio. La speranza, come la fede della quale si

alimenta e la carità che sollecita, è un’ usuale relazione di comunione

con Dio. Si differenzia dalle virtù naturali, dette cardinali, che sono disposizioni

acquisite e si esercitano nella relazione di società con gli altri uomini.

Tuttavia, le virtù soprannaturali sono date all’uomo già costituito nella sua natura

umana e, pertanto, sono perfettive dell’ordine naturale, così come la grazia è

perfettiva della natura. Dall’uomo, dunque, dalle attese iscritte nella sua natura è necessario muovere per cogliere, innanzitutto, la naturale vocazione dell’uomo alla speranza, che nasce in lui con la vita. La teologia deve cercare di spiegare

come la vita cristiana non si sovrapponga alla vita naturale ma si inserisca

profondamente nell’esistenza dell’uomo(Cfr. J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo, Queriniana, Brescia 1972, pp. 7-9). Di qui la sua convinzione che, “essendo la

speranza un atteggiamento primordiale dell’esistenza umana”, sia necessario, “prima

di tutto, analizzare le infrastrutture antropologiche che costituiscono l’apertura

dell’uomo alla speranza cristiana”. Nell’ uomo vi è un’attitudine fiduciosa dello spirito verso il futuro.

Nasce con lui e lo abita, con l’insistenza stessa dell’incertezza che l’accompagna, una

nostalgia di futuro che si esprime come tensione dello spirito di aprire varchi di fiducia

nell’imprevedibilità di ciò che sarà. È un atteggiamento dell’animo, una forza

spirituale, uno slancio vitale che accarezza il sogno di continuare nel tempo, di bucare

il manto di silenzio che veste il domani e, possibilmente, sfuggire all’agguato della

morte. Sembra propria dell’uomo, strutturale alla sua condizione di incompiutezza,

l’attesa del futuro come possibilità di compimento, di perfezionamento del suo

percorso esistenziale. La vita stessa si rivela come dinamismo di quello che verrà dopo, tensione ad andare oltre, a superare, a trascendere...

Questa tensione percorre la trama stessa della nostra coscienza: la presenza di sé a

se stessi, sapere di essere, è un dato assolutamente originale dell’esistenza umana.

Con gli altri nel mondo: la speranza oltre le speranze

L’esistenza dell’uomo non è che una relazione con la terra che lo ha generato, con il

mondo che lo accoglie. Il mondo, a sua volta, è lo scenario che distrugge e, insieme,

alimenta la sua quotidiana fatica.

Con la sua presenza attiva nel mondo, l’uomo sviluppa le potenzialità del suo essere:

agendo, realizza l’aspirazione ad essere se stesso e, anche, si fa operaio nel grande

cantiere del mondo.

Questa presenza attiva è anche produttiva di novità: è un’opera di coltivazione e di

crescita, una cultura dello spirito e una cultura del mondo. La creatività che presiede

alle attività culturali ha le potenzialità stesse della speranza, limitata nei fatti e

illimitata nell’ispirazione, finita e mai definita, compiuta e sempre ansiosa di

compiersi.

La speranza dell’uomo è oltre le sue speranze: per lui ogni traguardo viene

superato nel momento stesso in cui è stato raggiunto”. L’aspirazione a realizzare se stessi può essere intesa come tendenza alla felicità. Nel saggio Della speranza, Rosmini sostiene che questa tendenza è propria di ogni uomo, è “fonte di tutta l’attività umana”, “dimostra l’uguaglianza degli uomini”, è il massimo dei diritti e tutti “hanno egual diritto a soddisfarla”. Ma solo Dio, attraverso la religione, può soddisfare pienamente questa aspirazione e riempire il vuoto dell’animo umano. Senza l’approdo religioso, la speranza dell’uomo rimane “ingannevole” Sicché, la relazione dell’uomo

con il mondo si svolge e permane sotto il segno dell’incompiutezza e della relatività.

Però l’esistenza dell’uomo non si esaurisce nell’individualità. Oltre alla relazione con il mondo, egli stabilisce relazioni con gli altri e si costituisce in società. Anzi, sviluppa con gli altri la sua presenza operativa nel mondo, come presenza corale. Così, la dimensione comunitaria si rivela iscritta nella stessa struttura personale dell’uomo, nello statuto relazionale della sua natura: come persona, evoca il noi prima dell’io.

In quanto soggetto relazionale, l’uomo instaura due tipi di rapporti: con le cose e con

le persone. Data la radicale irriducibilità delle persone a cose, esse rientrano in un

rapporto di fine, mentre le cose si riducono ad un rapporto di mezzo.

A questi due rapporti corrispondono due vincoli regolativi: il vincolo di proprietà, per

cui l’uomo unisce a sé le cose, le possiede e ne fa uso; il vincolo di società, col quale

l’uomo unisce a sé le persone, non per usarle ma per condividere il “bene” che deriva

dall’uso delle cose.

La teologia degli anni del Concilio guarda all’uomo e al mondo non tanto per quello che sono o sono stati, quanto per quello che sono chiamati ad essere, in rapporto alle loro possibilità di futuro: in questo, sollecitata dall’intera cultura contemporanea, tutta calata sulle categorie della progettualità e del possibile.

Per molto tempo – ha notato Moltmann – l’escatologia ha inteso le “cose ultime”, delle

quali fornisce la dottrina, come eventi che avrebbero investito il mondo, la storia e

l’uomo alla fine del tempo. Ma il fatto di rinviare questi eventi finali all’ultimo giorno “li

privava del loro significato di orientamento, di incoraggiamento e di istanza critica nei

confronti dei giorni che si vivono qui sulla terra, prima della fine, nella storia. Perciò

queste dottrine sulle cose ultime costituivano gli sterili capitoli finali della dogmatica

cristiana; erano come un’appendice disorganica divenuta apocrifa e irrilevante”( J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, p.9.).

L’esito di questa impostazione era che la fede cristiana eliminava dalla propria vita

“quella speranza futura che ne costituisce il nerbo”, trasferendo il futuro oltre la

storia, nell’aldilà. Riproponendosi come “dottrina della speranza cristiana”,

l’escatologia comprende non soltanto “la cosa sperata” ma anche “l’atto dello

sperare”. Il cristianesimo stesso è tutto escatologico: “è speranza, è orientamento e

movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del

presente”(Cf: J. Moltmann, Teologia della speranza).

La speranza che cura il mondo

La svolta antropologica della teologia, piegando il sapere della fede sulla condizione

dell’uomo, ha incalzato il cristianesimo a vivere nella storia degli uomini il mistero di

Dio che assume la carne del mondo e a farne paradigma della presenza cristiana. In

questa ritrovata prospettiva, “l’intelligenza della fede appare come l’intelligenza non

della semplice affermazione – quasi una recitazione – di verità, ma di un impegno, di

un atteggiamento che prende tutto l’uomo, di una presa di posizione davanti alla

vita”( G. Gutierrez, Teologia della liberazione,Queriniana, Brescia 19732, p. 16.)

Nella stessa prospettiva si pone padre Alfaro. “La teologia – così scrive – non può

limitarsi ad una riflessione puramente teorica, deve tracciare, finalmente, la strada

della prassi dove ogni uomo effettivamente decide il significato della sua esistenza.

Perciò, avverte il bisogno di chiudere le sue riflessioni sulla teologia della speranza

“con un capitolo sull’impegno della speranza cristiana per la liberazione dell’uomo nel

mondo, come compimento che anticipa la sua definitiva liberazione”( J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo).

Se la presenza attiva dell’uomo nel mondo, attraverso il lavoro, si configura come

opera di coltivazione e di trasformazione della natura, il cristiano è chiamato a

condividere questa quotidiana laboriosità di tutti. Ma, dalla rivelazione biblica egli

ricava la figura teologica del mondo quale creato, universo di vita germinale, orto (nel

significato del verbo latino oriri) che l’uomo è chiamato a custodire, a coltivare, a far

fiorire: in una parola, a curare. La speranza di cura nasce dalla concezione del mondo

non come già costruito e definito, ma edificio da costruire e perfezionare. La cultura è opera di coltivazione della natura e, perciò, di costruzione della storia, di

edificazione del mondo. Tutte le attività lavorative sono culturali perché, in senso

oggettivo, producono beni e accrescono il patrimonio di pensiero e di azione

dell’umanità; ma anche perché, in senso soggettivo, coltivano e perfezionano l’uomo,

artefice di cultura: edificando, egli si edifica.

GIOVANNI PAOLO I e Giovanni Paolo II

I papi che hanno preceduto Benedetto XVI hanno parlato spesso della speranza. Giovanni Paolo I nella UDIENZA GENERALE(mercoledì 20 settembre 1978) diceva che la speranza è seconda tra le sette « lampade della santificazione » , virtù, obbligatoria per ogni cristiano. Chi la vive viaggia in un clima di fiducia e di abbandono, dicendo con il salmista: « Signore, tu sei la mia roccia, il mio scudo, la mia fortezza, il mio rifugio, la mia lampada, il mio pastore, la mia salvezza. Anche se si accampasse contro di me un esercito, non temerà il mio cuore; e se si leva contro di me la battaglia, anche allora io sono fiducioso ». Giovanni Paolo II , invece successivamente ha spiegato che: la speranza nel greco elpis–elpizo (speranza-sperare) ha un significato debole, anche se vario: speranza, congettura, previsione. Il fondamento della speranza dell’uomo greco è tutta chiusa nella valutazione del soggetto che spera. Un fondamento debole. Non così la concezione cristiana della speranza. Nella sua prima lettera ai Tessalonicesi – forse lo scritto più antico del Nuovo Testamento – Paolo dichiara di essere «continuamente memore davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno della fede, della vostra fatica della carità e della vostra pazienza della speranza del Signore nostro Gesù Cristo» (1,3). Collocata dopo la fede e la carità, la speranza è da Paolo subito precisata con due tratti. Il primo è la “pazienza” (upomoné), cioè la forza di rimanere fermi qualsiasi avversità si attraversi e di saper attendere, anche a lungo. Senza questa pazienza la speranza cristiana non regge. Cadrebbe nel rischio della rassegnazione, oppure nel rischio di rifugiarsi in Dio disimpegnandosi dal mondo. Il secondo tratto è che la speranza del cristiano trova il suo fondamento in Gesù Cristo. La speranza è una certezza che si fonda sulla promessa fatta da una Persona di cui ti fidi totalmente.

Lettera da Taizé: 2003/3

Frere Roger e i suoi monaci sono ancora nel cuore di molti giovani. Per tale motivo, presento anche una delle sue famose lettere: quella sulla speranza.

La speranza

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

In un tempo in cui spesso si fatica a trovare delle ragioni per sperare, coloro che mettono la propria fiducia nel Dio della Bibbia hanno più che mai il dovere di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (1 Pietro 3,15). Spetta a loro cogliere ciò che la speranza della fede contiene di specifico, per poter viverlo.

Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Nella Lettera 2003, frère Roger lo ricorda: «[La sorgente della speranza] è in Dio, che non può che amare e che instancabilmente ci cerca».

Nelle Scritture ebraiche, questa Sorgente misteriosa della vita che noi chiamiamo Dio si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed e emet (per es. Esodo 34,6; Salmi 25,10; 40,11-12; 85,11). Generalmente, si traducono con «amore» e «fedeltà». Dapprima ci dicono che Dio è bontà e benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi, e in secondo luogo, che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà - se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione - per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Ciò inizia già con la storia di Abramo: «Ti benedirò, disse Dio ad Abramo. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3).

Una promessa è una realtà dinamica che opera delle possibilità nuove nella vita umana. Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica in una relazione con Dio che mi parla qui e ora, che mi chiama a fare delle scelte concrete nella mia vita. I semi del futuro si trovano in una relazione presente con Dio.

Questo radicamento nel presente diventa ancora più forte con la venuta di Gesù Cristo. In lui, dice san Paolo, tutte le promesse di Dio sono già una realtà (2 Corinzi 1,20). Certo, ciò non si riferisce unicamente a un uomo che è vissuto in Palestina 2000 anni fa. Per i cristiani, Gesù è il Risorto che è con noi nel nostro oggi. «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo» (Matteo 28,20).

Un altro testo di san Paolo è ancora più chiaro. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5,5). Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Come vivere della speranza cristiana?

La speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già presente oggi, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli è offerta, Dio gli disse: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? … Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura… Voi mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,11; Marco 16,15; Atti 1,8).

Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio. Scrivendo ai Romani, san Paolo evoca le sofferenze della creazione in attesa, paragonandole alle doglie del parto. Poi continua: «Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8,18-23). La nostra fede non ci fa dei privilegiati fuori dal mondo, noi «gemiamo» con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» (1 Giovanni 2,8).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.

E adesso viene il “Brutto”

Ho letto da qualche parte che la persona che non è capace di esprimere le sue critiche, ciò che pensa, non è veramente libera. Io credo fermamente di esserlo, pur rispettando le regole della società in cui vivo e- soprattutto- la mia fede in Gesù.

Quindi, fuori dai denti, mi è spiaciuto che Benedetto XVI in Spe salvi abbia liquidato sprezzantemente l’illuminismo e il marxismo. Scherziamo? Sia il primo che il secondo, tolti gli eccessi(e nel cristianesimo quanti ce ne sono stati??? Ne cito solo uno: 15 milioni di indios sterminati con la spada e con la croce, in soli vent’anni di "evangelizzazione" : 1560-1580 ) hanno contribuito alla liberazione dell’umanità dai pesanti gioghi della Minorità( lo dice Kant) cioè a saper scegliere il bene dal male senza che qualcuno lo imboccasse per forza. Come è successo nei secoli bui e come succede- purtroppo adesso in certi stati islamici e dittatoriali. L’opzione migliore è presentare quel famoso brano di E. Kant, affinché rinfreschi la “memoria” di chi l’ha persa . Eccolo:

[A 481] Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?( ( I. Kant, Beantwortung der Frage: Was is Aufklaerung? in "Berlinische Monatsschrift", I-V, 1784, pp. 481-94.)

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo.

Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida [A 482] (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e fra questi tutto il gentil sesso( Ah, Kant! Non sai quanta strada hanno fatto le donne. Possiamo dire che ora succede quasi il contrario??? Ovviamente non per tutte) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.

E' dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla mi[A 483]norità, che per lui è diventata come una seconda natura. E' giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità. Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi, non farebbe che un salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo allenato a camminare in libertà. Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro.

Che invece un pubblico [Publikum] si rischiari da se, è cosa più possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché, perfino fra i tutori ufficiali della grande massa, ci sarà sempre qualche libero pensatore che, liberatosi dal giogo della minorità, diffonderà lo spirito di una stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano 5 a pensare da sé. E il particolare sta in ciò: che il pubblico, il quale in un primo tempo è stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a [A 484]rimanervi quando sia a ciò istigato da quei suoi tutori incapaci a loro volta di un compiuto rischiaramento; perciò, seminare pregiudizi è tanto nocivo: perché essi si ritorcono contro chi vi crede e chi vi ha creduto. Per questa ragione, un pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse attraverso una rivoluzione potrà determinarsi l'affrancamento da un dispotismo personale e da un'oppressione assetata di guadagno o di potere, ma non avverrà mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno, al pari dei vecchi, da dande 6 per la grande folla di coloro che non pensano.

A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L'ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L'intendente di finanza: non ragionate, pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui c'è restrizione alla libertà dappertutto….

Ho posto il punto fondamentale del rischiaramento, cioè dall'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso, specialmente nelle cose di religione: riguardo alle arti e alle scienze [Künste und Wissenschaftlische], infatti, i nostri signori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi. Inoltre la minorità in cose di religione, fra tutte le forme di minorità, è la più dannosa ed anche la più umiliante….

Le tre idee fondamentali dell’Illuminismo

Di un autore contemporaneo è quello che segue e che è tratto da: Tzvetan Todorov, Lo spirito dell'illuminismo , Garzanti, Milano, 2007, Le forme , pag. 128:

Tre sono le idee alla base del progetto, arricchito anche dalle loro innumerevoli conseguenze: l'autonomia, la finalità umana delle nostre azioni e in ultimo l'universalità. Cerchiamo di spiegarci meglio.

Il primo aspetto essenziale di questo movimento consiste nel privilegiare ciò che ciascuno sceglie e decide in autonomia, a detrimento di quanto ci viene imposto da un'autorità esterna. Tale preferenza comporta due aspetti, l'uno critico e l'altro costruttivo: bisogna sottrarsi a ogni forma di tutela imposta agli uomini dall'esterno e lasciarsi guidare dalle leggi, norme e regole volute dagli stessi individui ai quali esse si rivolgono. Emancipazione e autonomia sono i termini che indicano le due fasi, altrettanto indispensabili, di un medesimo processo. Per potervisi dedicare bisogna disporre di una completa libertà di analizzare, discutere, criticare, dubitare: non esistono più dogmi o istituzioni intoccabili. Una conseguenza indiretta, ma decisiva, di questa scelta è il vincolo imposto alle caratteristiche di ogni forma di autorità: deve essere della stessa natura degli uomini, vale a dire naturale e non soprannaturale. E in questo senso che l'illuminismo dà vita a un mondo «disincantato», che obbedisce da un capo all'altro alle stesse leggi fisiche o, per quanto riguarda le società umane, rivela gli stessi meccanismi di comportamento.

La tutela sotto la quale vivevano gli uomini prima dell'illuminismo era innanzitutto di natura religiosa; la sua origine, perciò, era al tempo stesso anteriore alla società di allora (in tal caso si parla di «eteronomia») e soprannaturale. Le critiche più numerose saranno rivolte alla religione, in modo che l'umanità possa assumere le redini del proprio destino. Si tratta comunque di una critica mirata: viene rifiutata la sottomissione della società o dell'individuo a precetti la cui sola legittimità deriva dal fatto che la tradizione li attribuisce alle divinità o agli antenati; non deve essere più l'autorità del passato a orientare la vita degli uomini, ma il progetto che essi hanno sul loro avvenire. In compenso, non si fa parola dell'esperienza religiosa in quanto tale, né dell'idea di trascendenza, né dell'una o dell'altra dottrina morale sviluppata da una specifica religione; la critica riguarda la struttura della società, non il contenuto delle confessioni. La religione esce dallo stato senza per questo abbandonare l'individuo. La corrente principale dell'illuminismo non s'ispira all'ateismo, ma alla religione naturale, al deismo, o a una delle loro numerose varianti. L'osservazione e la descrizione delle confessioni professate nel mondo intero, alle quali si dedicano gli illuministi, hanno lo scopo non di rifiutare le religioni, ma di condurre a un atteggiamento di tolleranza e alla difesa della libertà di coscienza.

Dopo essersi liberati dall'antico giogo, gli uomini stabiliranno leggi e norme nuove con l'aiuto di mezzi semplicemente umani: non c'è più spazio qui per la magia, né per la rivelazione. Alla certezza della Luce discesa dall'alto si sostituirà la pluralità delle luci che si diffondono dall'uno all'altro. La prima autonomia a essere conquistata è quella della conoscenza. Essa prende le mosse dal principio che nessuna automa, a prescindere dalla solidità e dal prestigio di cui possa godere, è al riparo dalle critiche. La conoscenza ha solo due fonti, la ragione e l'esperienza, entrambe alla portata di tutti. La ragione è valorizzata come strumento di conoscenza, non come motore dei comportamenti umani, si oppone alla fede, non alle passioni. Esse, al contrario, sono a loro volta libere dai vincoli.

In quanto al marxismo è impossibile non ricordare che l’umanità( non tutta) ha preso coscienza contro il modo di produzione capitalistico basato sulla produzione di valori di scambio attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro dei proletari; sulla distribuzione attraverso il mercato per la realizzazione del plusvalore; sulla divisione della società in classi secondo la loro collocazione economica, che è contro le falsificazioni storiche e le degenerazioni teoriche dei principi del materialismo storico e dialettico e della critica marxista della economia politica, dallo stalinismo al maoismo, fino a tutte le revisioni possibili del socialismo scientifico. Come si comprende molto bene che la logica sindacale, proprio perché basata sulla contrattazione fra capitale e lavoro, vive unicamente sulla continuità della divisione in classi della società (capitalisti e finanzieri / operai e disoccupati) e dello sfruttamento del lavoro salariato. Inoltre, il marxismo è una dottrina filosofico- politica elaborata a partire dagli scritti di Karl Marx e strettamente intrecciata alle realizzazioni pratiche compiute in suo nome, a cominciare dai movimenti politici a essi ispirati, dalle rivoluzioni socialiste e dagli stati che nacquero in seguito a quelle rivoluzioni. E neanche si può ignorare che la Teologia della Liberazione, che Benedetto XVI ha combattuto prima di essere eletto, continua viva, così come persistono ancora le disuguaglianze dell’America Latina che l’hanno generata. L’attualità di tale teologia d’ispirazione marxista, che ha messo i poveri come la priorità della Chiesa cattolica in America Latina, viene evidenziata dai suoi rappresentanti più significativi: Leonardo Boff e mons. Pedro Casaldáliga. La Teologia della Liberazione non solo è viva, ma si è estesa in Africa e in Asia. Questa corrente, adottata dai sacerdoti dell’America Latina, ebbe il suo auge negli anni 70, specialmente nei paesi con gravi problemi di povertà o che erano sotto la dittatura o in guerra civile. Il Vaticano, preoccupato per l’inspirazione marxista del movimento, lottò fortemente contro questa tendenza attraverso la Congregazione della Dottrina della Fede, guidata dal Papa attuale. Casaldaliga afferma che l’opzione della Chiesa per i poveri non perde la sua attualità in un’America Latina che ha ancora 205 milioni di sventurati: "Credo fermamente che la Teologia della Liberazione continua ad essere viva in molte menti, testi e in molte comunità. Sono convinto che si sta rinnovando con nuovi apporti. Adesso, oltre ai poveri, la Chiesa ha fatto propria anche la causa del negro, dell’indio, della donna". (da: IL DIALOGO. maggio 2007)

Maria de Falco Marotta

Maria de Falco Marotta
Società