IL NOSTRO BEL PAESE (ORIZZONTI, EVENTO SPECIALE, VENEZIA 63)

Col putiferio che è successo per via della finanziaria varata dal governo Prodi, parlare entusiasticamente dell’Italia, lo possono fare solamente i turisti. Infatti, pare che L’Italia con le sue città d'arte, mare, cultura, gastronomia mantiene ancora il suo fascino sugli europei d'Oltralpe. Si può, però, parlare dell’Italia anche in un altro modo, come l’ha fatto quel giovane e grintoso regista DANIELE VICARI che nel documentario

"IL MIO PAESE" , compie un viaggio nell’Italia industriale, dal Sud al Nord, e rivela quanto inadeguato sia attualmente il potenziale industriale tricolore, rispetto alle potenti sfide che ci arrivano da tutto il mondo.

L’imput l’ha avuto dal viaggio attraverso l’Italia del dopoguerra filmato nel 1960 dal documentarista Joris Ivens su commissione del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Il documento di Ivens, intitolato L’Italia non è un paese povero(ma lo diventerà con le botte in testa della Finanziaria) era uno spaccato di vita del nostro paese durante gli anni dello sviluppo industriale, censurato dalla Rai nei suoi momenti più toccanti e depurato così della sua autentica drammaticità, che riemerge nel film di Vicari, il quale sceglie di inserire frammenti del vecchio documentario in bianco e nero nelle sue colorate riprese, realizzate oltre quarant’anni più tardi.

Il documentario Il mio Paese( Orizzonti, evento speciale)

Tra il 2005 e il 2006 Daniele Vicari ha ripercorso l'Italia in senso inverso. Il suo viaggio: la Sicilia industriale di Gela e Termini Imerese, Melfi, i laboratori dell'Enea di Roma, dove si fa ricerca sulle energie alternative, Prato alle prese con la complessa dinamica dell'immigrazione cinese e Porto Marghera. Un film suscitato dal documentario di Joris Ivens, ma anche da quel Viaggio in Italia di Rossellini, Un film di cui c'era bisogno. Non c'è desolazione nel viaggio di Vicari, ma voglia di rinascita. Ogni episodio, ogni tappa si chiude con i propositi per un futuro migliore, perché dopotutto noi italiani siamo il popolo dell'ingegno, di chi non si da mai per vinto, ma cerca di cavarsela sempre in qualche modo.

Le immagini delle fabbriche dimesse, dei lavoratori che si recano agli uffici di collocamento a cinquantuno anni sono sempre seguite da una nuova visione, positiva, del tutto confortante( la donna che lavora in fabbrica, per esempio).

Il regista Daniele Vicari

Daniele Vicari è autore di cortometraggi e documentari, tra i quali Uomini e lupi (Premio Sacher), Bajram, Partigiani e Non mi basta mai. L’esordio alla regia di lungometraggi a soggetto con Velocità massima, presentato alla 59° Mostra del Cinema di Venezia, gli è valso il David di Donatello 2003 come miglior regista esordiente. Nel 2005 L’orizzonte degli eventi, la sua ultima opera cinematografica, è stato presentato a Cannes, nell’ambito de “La semine de la critique”.

Filmografia:

1997 Partigiani

2002 Velocità massima

2005 L’orizzonte degli eventi

DOMANDE & RISPOSTE

Accolto e coccolato da un gruppo di giovani entusiasti nel meraviglioso “salotto” sulla terrazza dell’Excelsior , in quel Italian Live( Live in italian), dove c’era il meglio dei prodotti italiani(s.Pellegrino, Bisol, nespresso,Cantori…) e dove, indistintamente, sono stati trattati tutti da “divi” dalle premurose e gentili signorine , Daniele Vicari ha ritrovato un po’ di quella Italia che ci fa onore in quanto ad ospitalità.

Dopo il viaggio di un italiano verso la Cina(La Stella che non c’è) e gli emigranti siciliani verso l’America(Nuovomondo), si sentiva bisogno di un film che attraversasse il nostro Paese.

Mentre Joris Ivens nel suo documentario raccontava lo sforzo di industrializzazione dell’Italia che usciva dalle macerie del secondo conflitto mondiale, lei parla di

un presente segnato dalla crisi economica interna e dalla conseguente perdita di competitività internazionale. Come mai questa scelta?

L’Italia è un paese in difficoltà, che sta tuttavia cambiando pelle: assieme all’Italia del declino vi è quella della riconversione, di una nuova trasformazione. Il mio film documentario ha come punto di riferimento costante le immagini di Ivens, su cui si innesta la scoperta di un paesaggio italiano, industriale e post-industriale, di grande impatto visivo. Mostro il paese di oggi in controluce, attraverso quel modello di quarantacinque anni fa. E' un film molto personale, che cerca di raccontare una parte dell'Italia che, però, rappresenta bene il passaggio storico che sta vivendo il nostro paese.

Come si è trovato a tornare a lavorare su un documentario dopo due film di fiction?

Per me non c'è una grande differenza anche se ho lavorato in maniera nuova grazie ad un produttore (Gregorio Paonessa) che ha saputo sostenermi economicamente e stimolarmi intellettualmente. Con lui realizzerò il mio prossimo film a metà strada tra fiction e cinema della realtà dedicato ai fatti del G8 di Genova. Ci siamo impegnati molto nel lavoro di ricerca e - man mano - grazie alla dimensione produttiva cresciuta fino a raggiungere i 500.000 euro ha fatto diventare questo lavoro qualcosa di più di quello che era sulla carta. E' la prima volta che mi succede: non mi era mai capitato che il lavoro finale diventasse di più di come si era progettato.

In che rapporto sta il suo film con quello di Ivens?

Io ho rifatto il suo viaggio al contrario in un continuo rimando al lavoro di Ivens e – al tempo stesso – sviluppando un discorso completamente differente. A me non è interessato tanto raccontare la situazione dell'industria nel nostro paese, ma il suo rapporto, spesso, difficile, con la nostra società e mettendo in dubbio lo stesso modello di sviluppo italiano. Il mio paese attraverso le persone che ci guidano nei vari luoghi offre un percorso antropologico all'interno dello sviluppo italiano.

E' una specie di sequel – remake?

Già negli anni Cinquanta Cesare Zavattini voleva realizzare un viaggio cinematografico in Italia da Sud a Nord intitolato Il mio paese. Né De Sica, né Rossellini vollero accontentarlo. Quando ho visto il film di Ivens non ho potuto fare a meno di pensare che questo regista , inconsciamente, aveva risposto al desiderio di Zavattini seguendo l'ottica particolare dell'industria e di come una società trasforma sé stessa attraverso il lavoro. Come spettatore un cinema del genere 'mi manca' un po'. I documentari devono raccontare come una società ripensa se stessa e io - come nano sulle spalle dei giganti - ho voluto provarci. La presenza del film di Ivens nel mio non comporta parallelismi, ma solo un riferimento costante. Io mi sono fatto guidare e mi sono lasciato dare una prospettiva. Per questo dico che il film è molto personale. Ho voluto seguire la mia idea di uomo di oggi nell'attraversare l'Italia del ventunesimo secolo.

Dal punto di vista delle conclusioni che differenza c'è tra il suo film e quello di Ivens?

Ivens ha realizzato un film quando l'Italia era in crescita. Oggi l'Italia è un paese in difficoltà che sta ripensando se stesso. Le conclusioni sono diverse, anche se il nostro non è un paese morto, ma vive una grandissima vitalità sotto pelle. In alcune zone l'Italia sta reagendo e questa situazione sta già portando ad un nuovo tipo di crescita.

Cosa pensa del lavoro?

Il lavoro è uno dei pochi temi davvero universali perché gli esseri umani con il lavoro mutano il mondo che li circonda, mutano la propria natura, incidono nella storia.

Lei è pessimista?

No, assolutamente. La mia sensazione è che l'Italia stia reagendo molto più di quanto non sembri. Questa reazione è sana, perché passa attraverso una grande maturità e consapevolezza culturale. Oggi, a tutti i livelli, le persone sanno qual è la situazione e vogliono affrontarla: questa è la ricchezza de Il mio paese. La coscienza collettiva non si è arresa, mentre la classe dirigente purtroppo arranca ancora.

Nel suo ultimo lavoro l’impronta di Joris Ivens, con il suo “L’Italia non è un paese povero”, è chiaramente evidente. Quanto deve a questo autore?

La voglia di raccontare il mio paese ce l’ho avuta sempre dentro. Grazie ad Ivens ho preso coscienza della possibilità di fare un lavoro del genere, e ne ho mutuati gli strumenti. Quella storia raccontava di un paese che viveva una fortissima transizione: da una base prevalentemente contadina ad uno stato industriale, il che si portava appresso dei mutamenti anche antropologici. Con il suo aiuto l’impresa mi è sembrata più chiara e assai meno difficile da compiere.

Come ha sviluppato la narrazione?

Man mano che la storia procede da sud a nord, i problemi che avevo posto allo spettatore diventavano sempre più chiari, ma allo stesso tempo più complessi, perché inglobati in un meccanismo più grande. Dall’episodio di Prato, sino a Marghera, dopo aver parlato con persone che facevano i lavori più disparati – si pensi al ragazzo in cerca di siti eolici nella Basilicata! Con l’entrata di Edoardo si inizia a trovare una sintesi dell’intero problema ed cominciano ad arrivare le risposte.

E le risposte ai problemi non appaiono poi così semplici…

Già! Ivens racconta di un’Italia che fa un balzo avanti nella scala della civiltà. Ma quel modello industriale si è lentamente involuto e oggi non sta assolutamente più dietro alle sfide industriali lanciate a livello mondiale.

C’è almeno qualche spiraglio o prospettiva a livello attuale?

Purtroppo la situazione è alquanto complessa. In questo stato non possiamo affrontare il futuro. E se le cose stanno così qualcuno lo doveva raccontare. Qualche piccolo segno di rinnovamento c’è, ma lo schema è quanto mai a macchia di leopardo un po’ in tutta Italia. L’impegno dei singoli non è più sufficiente. Manca un progetto sociale globale in cui lo sforzo di tutti abbia una composizione

Cosa pensa, in realtà dell’Italia?

L’Italia è sempre stato un paese difficile da decifrare. E’ il paese dei grandi conflitti politici, sociali e culturali, delle grandi guerre, del miracolo economico, delle catastrofi ambientali e di molte altre cose scritte sui libri, visti in televisione e raccontate nei film. Il lavoro, insieme all’amore, all’amicizia ed a pochissime altre cose sono il “cemento” che tiene ancora uniti gli italiani. Ci arrabbiamo, critichiamo, soffriamo ma siamo capaci anche di grandi imprese.

E, soprattutto, non cambieremo mai il nostro Paese con nessun altro al mondo.

Maria De Falco Marotta & Team

Maria De Falco Marotta & Team
Società