Le donne in carcere, quanto rumore fanno?
La notizia della Franzoni, la mamma di Cogne che uccise e poi eliminato dalla sua coscienza il piccolo Samuele, è ora sulla bocca di tutti. Sappiamo quanto sia difficile a livello psicologico “cancellare” dalla propria mente un fatto terribile di cui siamo stati attori, però, succede- così dicono gli esperti. Di fatto l’Annamaria condannata con evidenti prove scientifiche e giuridiche, è tornata alla sua casa, per godersi l’amore mai mancatole dal marito e tutta la sua numerosa famiglia che l’ha sempre protetta. Cosa dire? Le mamme in Italia commettono a volte dei delitti incomprensibili, però la Legge difficilmente le condanna come “cattive madri”.
Vediamo un poco perché.
Parole per capire
Carcere femminile e carcere maschile
È una minoranza quella femminile nella popolazione carceraria (poco più del 4%), si tratta quindi di un problema qualitativo prima che quantitativo. Le donne pare, infatti, che abbiano maggiori problemi materiali e psicologici nella detenzione: la loro personalità e la loro sensibilità sono più complesse, soffrono per l’assenza di affettività, per la lontananza dai figli, dalla famiglia e dalla vita normale. Tendenzialmente le donne detenute hanno più sensi di colpa verso l’esterno e verso la famiglia che rimane fuori dalle loro quattro mura. Il dramma delle madri carcerate poi è uno dei problemi più gravi e non si risolve né se tengono con loro i figli né se li affidano alle cure di altri fuori dall’istituto carcerario
Il carcere, anche il migliore, è comunque un luogo di grande sofferenza; la privazione della libertà è un dramma di cui non si può facilmente capire la portata: provoca crisi d’identità, rende impotenti, umilia, indurisce gli animi e crea un forte sentimento di rabbia contro la società. Il detenuto di solito è già in un circuito di emarginazione e le restrizioni del carcere aggravano una ferita sempre aperta. Per avere notizie dal mondo esterno e dai propri familiari bisogna aspettare il colloquio, possibile magari tra una settimana, mentre le giornate scorrono tutte uguali con lentezza esasperante. Se questo è il dramma di chiunque è in carcere, per la donna esso assume risvolti strazianti per lo speciale legame che unisce una madre ai propri figli, una particolarità non da poco, che si scontra con l’inadeguatezza del sistema carcerario modellato sulle esigenze maschili. Leggi che consentirebbero di fare di più e meglio ci sono, e se ne è parlato nei capitoli precedenti, ma, come spesso succede, esse sono contenitori di buoni propositi, che si prestano a interpretazioni soggettive e si scontrano con i limiti di strutture, risorse e inghippi burocratici. Le difficoltà riguardano tanto le detenute che i detenuti, anche se per motivi diversi: se la difficoltà per il carcere maschile viene soprattutto dal sovraffollamento e dall’aggressività che questo comporta, per le detenute il vero problema è la frammentazione dell’universo carcerario femminile. Secondo una completa ricerca empirica sul carcere femminile, "Donne in carcere" (ed. Feltrinelli), datata 1992 ma ancora attuale per molti aspetti, solo una minima parte delle detenute vive nei carceri femminili esistenti in Italia, che oggi sono 8 (Trani, Pozzuoli, Arienzo - Caserta, Rebibbia - Roma, Perugia, Empoli, Pontedecimo - Genova e Giudecca - Venezia), mentre il 77% è sparso nelle sezioni distaccate. Nella maggior parte delle sezioni non ci sono zone verdi e nel 10% non esiste neppure un cortile. Come è facilmente intuibile, tale dispersione delle detenute in piccole sezioni loro destinate è uno dei principali problemi legati alle condizioni di detenzione femminile, anche se molto spesso l’esigenza della vicinanza della detenuta al proprio luogo di residenza rende l’esistenza delle sezioni un male minore. Il problema è spiegato chiaramente dagli operatori del carcere di Trapani, i quali osservano: "Si ritiene importante l’eliminazione di sezioni femminili in istituti maschili. Tali sezioni, infatti, numericamente inferiori, corrono il rischio di essere un po’ dimenticate. I piccoli numeri, per altro, non consentono la realizzazione di progetti relativi a corsi scolastici o professionali, o progetti comunque mirati a "specificità femminili". "Per così poche unità, infatti, non è possibile fare programmi significativi e se qualche iniziativa c’è, è casuale, dettata dalla buona volontà di qualcuno e spesso lontana dalla vita della donna di oggi, come l’onnipresente corso di taglio e cucito. Il lavoro, che dovrebbe essere garantito e costituire un’altra grande risorsa di recupero, è poco e di scarsa qualità. Si tratta per lo più di attività interne al carcere come la manutenzione e i servizi domestici. La mancanza di lavoro all’esterno aggrava il già difficile cammino per ottenere la concessione di misure alternative, tanto che solo una minima parte delle detenute ne usufruisce. La donna detenuta dunque, si trova a vivere in un contesto maschile, in un’istituzione fatta dagli uomini per gli uomini.
I reati delle donne
La tipologia dei reati commessi dalle donne è espressione chiara del percorso di marginalità che spesso segna le loro vite, riportandole in carcere per brevi e ripetute permanenze: la violazione della legge sulla droga e i reati contro il patrimonio costituiscono, infatti, il motivo della condanna per la stragrande maggioranza delle detenute.
È presente tra le tipologie dei reati la voce prostituzione, pur non essendo incriminabile l’esercizio della prostituzione; si tratta, infatti di reati connessi a tale condizione, come il favoreggiamento e l’induzione; solitamente ne sono incriminate le immigrate africane o dell’Europa dell’Est e dei Paesi Balcanici. La condizione di emarginazione vissuta nelle società è caratteristica comune della maggioranza della popolazione detenuta sia maschile che femminile, ma il dato che emerge in maniera forte in quest’ultimo caso è la mancanza dell’elemento "violenza", della pericolosità sociale nei reati delle donne. La scarsa propensione al comportamento criminale, infatti, ha facilitato l’approvazione del disegno di legge sulle detenute madri anche per le pressioni del Consiglio d’Europa che, in merito al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, si era espresso già da tempo in favore di misure alternative alla detenzione: "Per una coerente strategia contro il sovraffollamento delle carceri, la privazione della libertà deve essere considerata come l’estrema misura e sanzione, e deve essere messa in atto solo quando la gravità del reato rende ogni altra sanzione inadeguata"; e ancora: "Per frenare l’inflazione della popolazione carceraria è opportuno, anzi indispensabile, aumentare il numero dei reati da punire con misure diverse dalla detenzione (quali le pene pecuniarie, il risarcimento delle vittime, gli arresti domiciliari), come è opportuno, anzi indispensabile, ricorrere più frequentemente di quanto si faccia oggi alla semilibertà, al rilascio sulla parola". Esaminando nel dettaglio i reati più frequentemente commessi dalle donne, emerge come quelli contro la persona.
Le tossicodipendenti
Rilevante è quindi il problema delle tossicodipendenti, che sono la maggior parte delle detenute, le quali hanno in genere pene detentive brevi ma nella maggior parte dei casi sono recidive: ciò significa che la popolazione carceraria cambia costantemente ed è difficile programmare qualsiasi attività di recupero. L’esistenza di poche carceri penali femminili fa sì che molte detenute dopo il processo siano trasferite in penitenziari lontano dal luogo di residenza della famiglia, con gravi conseguenze sia per il figli che per loro stesse.
La donna tossicodipendente con figli, specialmente se priva di terapia sostitutiva specifica, rappresenta un rilevante quesito terapeutico, sia per quanto riguarda se stessa al momento dell’arresto (astinenza) ed il bambino, sia per ogni ipotesi di piano terapeutico personalizzato. Ancora molto rare e distribuite o disponibili all’accoglienza per la scarsezza di posti a disposizione. Una sistemazione detentiva migliore ipotizzabile, laddove non fosse possibile applicare la pena alternativa, è presso le cosiddette Custodie Attenuate: questi sono istituti o sezioni penitenziarie con norme peculiari e regime di bassa custodia che favorisce una forma migliore di trattamento della tossicodipendenza.
Le immigrate e le nomadi
Per le straniere, il secondo gruppo più numeroso tra le detenute, i già gravi problemi si moltiplicano: hanno difficoltà di lingua, vengono da situazioni di grande povertà, hanno lasciata casa anche quattro, cinque figli per i quali sono spesso l’unica fonte di sussistenza, non fruiscono di colloqui e di permessi perché la famiglia è lontana, ma miracolosamente possono poggiarsi su una risorsa insperata: la solidarietà tra detenute, inesistente invece all’interno del carcere maschile. Si è notato infatti che anche i rapporti che le detenute instaurano fra di loro esprimono un modo diverso di relazionarsi all’altro: mentre i detenuti tendono ad essere generalmente "uniti" in grandi gruppi mantenendo allo stesso tempo un forte individualismo, le donne, in carcere come fuori, non vanno tutte d’accordo tra di loro, ma tendono a creare dei piccoli gruppi, anche di due, tre persone molto unite, con dei legami molto forti. Come gli operatori di alcune carceri confermano anche i rapporti tra le detenute e le agenti di polizia sono diversi nel mondo femminile, molto spesso basati sul dialogo e sulle confidenze. Un diverso linguaggio, quindi, inteso come modo di essere.
All’interno del carcere le detenute straniere sono spesso penalizzate, soprattutto sul piano dell’affettività e dei legami con la vita prima dell’arresto. La maggioranza di queste donne ha famigliari, figli e amici nel paese d’origine e si trova all’improvviso privata di qualsiasi contatto con questa realtà. Inoltre le condizioni di vita dentro il carcere sono peggiori per questa categoria di detenute: un esempio di questa situazione è dato dalla difficoltà di comunicazione a causa della diversità di lingua. Questa diversità impedisce a volte alle detenute di fare telefonate e di avere visite durante i colloqui, perché spesso l’istituzione non è in grado di controllare le conversazioni. Solo recentemente molti istituti penitenziari ricorrono ad interpreti, anche se non sempre è facile trovare persone in grado di comprendere alcune lingue e soprattutto alcuni dialetti.
Quasi inesistenti sono, inoltre, le possibilità di migliorare la condizione di detenzione attraverso la concessione del lavoro all’esterno: maggiori che per le italiane sono, infatti, le difficoltà che le straniere possono incontrare nel prendere contatti con un datore di lavoro e nel trovare, quindi, qualche possibilità di occupazione. Per quanto riguarda le nomadi, i problemi sono altri: per ragioni culturali, infatti, queste donne appaiono poco sensibili ad accettare aiuti che potrebbero, sia pure in minima parte, modificare il loro approccio culturale ai sistemi di educazione adottati.
La maternità in carcere: una scelta difficile
Maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto fra loro e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi se non in situazioni di estremo disagio. Queste condizioni di difficoltà legate alla carcerazione si vanno a sovrapporre a quelle sociali, ambientali ed affettive già presenti e dalle quali risulta oltremodo difficile potersi staccare.
Come si può osservare, il motivo più frequente per cui le donne detenute hanno scelto di tenere accanto a sé il bambino è rappresentato dall’impossibilità di affidare esternamente il figlio a terzi (38%); il motivo successivo riguarda lo sviluppo affettivo del bambino ed il suo bisogno di avere accanto la madre (32 Non a caso il motivo che segue si riferisce alla concreta possibilità di poter affidare il proprio figlio a terzi. Come terzo motivo è stato fornito lo stesso descritto dal gruppo di donne che hanno scelto di tenere con sé il bambino, e cioè per facilitarne lo sviluppo affettivo (14%).
Non meno rilevante (12%), infine, è la mancanza di strutture idonee per il bambino all’interno dell’istituto penitenziario. La scelta della donna di poter tenere il figlio in carcere con lei appare più complessa di quanto possa sembrare ad una prima superficiale osservazione e non è riconducibile alle sole situazioni sociali e/o affettive. In realtà, in una situazione così carente di punti di riferimento affettivi non è facile per una donna scegliere se tenere con lei il figlio in carcere durante la sua detenzione o se affidarlo a terzi. Non sempre tale decisione infatti appare la scelta più idonea per lei e per il figlio. Le variabili caratteriali, relazionali e ambientali sono così numerose e complesse che la ricerca di una soluzione più idonea appare alla detenuta come una "falsa scelta". Anche un gruppo di "nidiste" del carcere di Roma sottolinea che ha avuto modo di osservare quanto sia difficile e doloroso fare questo tipo di scelta: "…se da una parte chi sbaglia è giusto che paghi, dall’altra è giusto che le colpe di queste madri ricadano sui figli? Come può essere la crescita di un bambino tra le mura di un carcere, con la sua mamma, sì, ma senza stimoli, senza un figura maschile di riferimento?", "…se mi capitasse di essere arrestata per qualche motivo preferirei gli arresti domiciliari. Ma se dovessi farmi il carcere, senz’altro vorrei con me i miei figli. Non sarà il massimo come ambiente ma la mamma è insostituibile. E più il bambino è piccolo più l’abbandono incide". Nel carcere molte volte l’affidamento a terzi sembra quasi la rinuncia ad un futuro rapporto col proprio figlio; il sistema di comunicazione presente all’interno dell’istituto penitenziario spinge la detenuta ad avere generalmente una visione negativa del mondo esterno; lei stessa tende a vedersi come debole rispetto ad un’istituzione, rispetto ad un sistema complesso con molteplici sottoinsiemi non sempre così chiaramente comprensibili e dove l’aggressività e le situazioni di violenza non sempre sono la conseguenza logica di precisi episodi.
carcere
Esistono in Italia diversi gruppi ed associazioni che da anni si occupano del problema delle madri con figli dentro ma anche fuori dal carcere, per cercare di dar loro un sostegno e aiutare i bambini ad avere una vita serena nonostante le difficoltà che la vita all’interno dell’ambiente carcerario comporta o che il distacco dalla figura materna ha creato. In diverse città esistono o sono in progetto delle case famiglia, ovvero delle strutture residenziali di tipo familiare per le detenute e i loro bambini, che consentono alle detenute che possono usufruire di misure alternative alla detenzione, di uscire dal carcere e vivere con i loro figli in un ambiente protetto ed adeguato. Il controllo relativo all’esecuzione delle misure alternative è garantito dall’Amministrazione Penitenziaria, mentre la struttura, il finanziamento e la gestione operativa sono assicurati dal Comune. Le potenzialità di queste strutture non si esauriscono nella dimensione alloggiativa. Gli obiettivi della casa famiglia, infatti, sono: aiutare la donna a ricostruire un percorso di autonomia individuale, attivare occasioni e risorse che facilitino la formazione e l’inserimento sociale e lavorativo, sostenerla nel recupero dei legami affettivi e familiari e nel rapporto con il figlio, assisterla nell’assolvere alle incombenze burocratiche legate alla sua situazione giudiziaria. Pertanto, la gestione della casa deve essere affidata a personale professionalmente esperto e con una forte motivazione individuale. Come l’intervento, anche gli spazi e gli arredi della casa famiglia devono essere pensati e realizzati per accogliere mamme con bambini, garantendo sia la necessaria privacy che adeguati spazi per il gioco e per la socializzazione, sia interni che esterni alla struttura.
Il carcere di Rebibbia - Roma
A Roma si è affrontato concretamente il problema delle madri detenute con figli che, uscite dal carcere, non hanno un posto dove andare. una casa di accoglienza (una casa famiglia) creata a Roma nel territorio della V circoscrizione (Via Nomentana), nata proprio per venire incontro a questo bisogno. Sono a disposizione, all’interno della casa, alcuni posti per area della detenzione e altri per donne non carcerate che si trovano in particolari situazioni di bisogno. La casa è stata istituita dal Comune di Roma su proposta della V circoscrizione e con i fondi offerti dalla Commissione delle Elette al Consiglio Comunale. Inizialmente la casa ha funzionato solo per l’accoglienza diurna e solo in un secondo momento si è aggiunto il pernottamento delle detenute; la casa - che è ubicata nell’ambito di un centro polivalente - accoglie detenute in permesso semestrale e si occupa dell’inserimento nel territorio circostante dei loro bambini. La casa, inoltre, può essere un punto d’appoggio anche per le donne in permesso premio che non sanno dove andare o non possono tornare nelle loro case.
Fino ad ora sono state accolte solo donne in permesso premio mentre è difficile che la Direzione femminile del carcere vi mandi detenute in attesa di giudizio perché questo esigerebbe una sorta di presidio di polizia intorno allo stabile mentre lo sforzo è quello di non farne una succursale del carcere ma una realtà diversa. La Direzione femminile del carcere invia alla casa le detenute che sono state giudicate e che usufruiscono di una misura alternativa; le donne vengono ospitate con i loro figli anche se hanno superato il terzo anno di vita.
Il carcere di San Vittore – Milano
Anche a Milano era stata prevista una struttura simile alla casa di accoglienza funzionante a Roma, e invece ci sono sei bambini rinchiusi loro malgrado nel carcere di San Vittore, che avrebbero potuto vivere con le loro mamme detenute in una nuova casa tutta per loro e che si devono accontentare di un grande stanzone blindato con giochi donati dai privati, le sbarre del carcere che fanno ombra dalle finestre e una cucina per farli sentire in famiglia.
Il Comune di Milano aveva promesso, anzi già finanziato e iscritto a bilancio, la ristrutturazione di un ex asilo in Via Zama per accogliere le mamme carcerate con i figli minori fino a tre anni. Ma all’improvviso i 1,5 milioni di euro circa previsti per le opere di riqualificazione dell’edificio sono stati accantonati: la nuova sede non si farà perché il progetto è fallito per mancanza di fondi.
Il direttore del carcere, Luigi Pagano, durante il sopralluogo dei consiglieri comunali al carcere di San Vittore, ha chiesto di prendere di petto la questione, che danneggia soprattutto bambini innocenti. L’ex asilo abbandonato visto da fuori è in ottime condizioni, e ristrutturato accoglierebbe le mamme che sono rinchiuse nelle carceri di San Vittore, Opera e Monza.
Un’Associazione che merita di essere menzionata e che opera a Milano dal 1985, è l’Associazione Gruppo Carcere Mario Cuminetti che svolge attività culturale in carcere per creare un collegamento fra carcere e città. Il Gruppo prende il nome dal suo fondatore, Mario Cuminetti, teologo, saggista e operatore culturale, impegnato per il rinnovamento della società e attento, in particolar modo, ai problemi degli emarginati.
L’Associazione si occupa da cinque anni del rapporto fra genitori detenuti e figli, formando un gruppo, "Bambini senza sbarre", che lavora su questo tema. L’intervento di questa associazione, condotta da volontari del Gruppo, professionisti nel campo psicologico, pedagogico e legale, si configura con l’obiettivo primario rappresentato dal mantenimento della relazione figlio-genitore durante la detenzione e la promozione della responsabilità genitoriale.
Il percorso di sviluppo dell’intervento di questa associazione sul tema della relazione genitori/figli ha visto diverse fasi, ognuna delle quali ha contribuito a individuare e strutturare più precisamente un’attività che ha come finalità il mantenimento del legame figlio-genitore detenuto e che oggi sta vivendo un momento di particolare vivacità.
Questo è dovuto principalmente al suo essere sempre più radicato all’interno del contesto del carcere, e quindi sul territorio, ma anche al suo essere in relazione con Relais Enfants Parents di Parigi, la Fondazione olandese Bernard van Leer e Eurochips, l’organismo di rete europea di cui oggi "Bambini senza sbarre" fa parte.
Uno degli aspetti più dolorosi dovuti alla detenzione - chi opera in carcere ne è costantemente testimone - è proprio quello della separazione dalla famiglia ma soprattutto dai figli. Per molti detenuti separarsi dai figli significa non solo una separazione ma una vera e propria sparizione, e questo è particolarmente rilevante per i detenuti padri. E non solo dal figlio, ma anche dalla rete sociale di riferimento, la scuola, i servizi sociali e tutti i soggetti coinvolti nella sua storia genitoriale. Sparizione che per il figlio significa anche perdita di punti di riferimento, di radici, di storia personale con cui fare i conti, quando non anche emarginazione e discriminazione sociale che porta spesso a ripetere lo stesso percorso di carcere "Bambini senza sbarre" opera all’interno del carcere con un’azione che da esso entra e esce continuamente: parte dal genitore detenuto per allargare il proprio intervento all’esterno ai soggetti coinvolti (famiglia, scuola, servizi) avendo al centro l’interesse del bambino, del figlio.
Pur nella consapevolezza che gli obiettivi sono ambiziosi, in sé e anche rispetto alle forze disponibili, gli operatori di "bambini senza sbarre" affermano che la loro attività, sviluppandosi, continua a precisare meglio e a confermare alcune ipotesi di lavoro da cui sono partiti.
Prima fra tutte è che il mantenimento del legame con il genitore è un diritto del figlio e un diritto-dovere del genitore. Questo significa operare nel campo dei diritti ma su un piano delicatissimo e privato come quello degli affetti. Il lavoro di "Bambini senza sbarre" è un lavoro di mediazione con l’esterno, mediazione che assume un’importanza, un ruolo e un’efficacia quando, superata la resistenza iniziale della rete esterna al carcere, essa venga accolta.
Il punto di partenza con cui viene svolta l’attività dell’associazione è la constatazione del dramma dei bambini per i quali non si può e non si deve prescindere dalla relazione con i loro genitori, sapendo che l’esperienza centrale su cui lavorare è la separazione, violenta e subita, e le difficoltà individuali successive di adattamento ad un diverso contesto affettivo.
Per le madri detenute, in particolare, la direzione di San Vittore si è resa disponibile ad agevolare gli incontri domenicali con i figli con modalità e spazi più idonei.
Il carcere della Giudecca – Venezia
Il carcere di Venezia è uno dei pochi in Italia ad essere dotato di un asilo nido che è strutturato abbastanza bene. La sezione nido di Venezia però non è funzionante come probabilmente era stato previsto quando è nata: è un reparto in cui dovrebbero alloggiare solo le mamme con i bambini, ma a causa del sovraffollamento e della struttura edilizia dell’istituto, nel "nido" vengono effettuati pure gli isolamenti giudiziari, quelli punitivi e sanitari.
E poi c’è l’arte che ora si sta occupando della tristissima situazione delle mamme in carcere, come quella di Di fatto l’informazione sulle detenute è scarsissima. La mancata attenzione è in parte giustificata dal numero esiguo delle detenute, appena 2.369 (contro 52.906 detenuti maschi) ma alla poca visibilità corrisponde una carenza di risorse e strutture specifiche.
Che cose è
Impronte Sfiorate
Per la prima volta in Italia un’artista, Paola Michela Mineo, svela il mondo della detenzione attenuata dell’ICAM, in una mostra in cui l’arte racconta la dignità della condizione di madre in un modo nuovo di concepire la rieducazione. Da venerdì 4 luglio a domenica 5 ottobre 2014 si terrà presso lo Spazio Oberdan di Milano la mostra d’arte contemporanea Impronte Sfiorate - Paola Michela Mineo e vite custodite all’I.C.A.M. a cura di Marco Testa. L’esposizione è promossa dalla Provincia di Milano e patrocinata dal Ministero della Giustizia.
La mostra Impronte Sfiorate presenta sei grandi installazioni realizzate da Paola Michela Mineo che costituiscono il risultato finale di un progetto - durato due anni - sviluppato dall’artista all’interno dell’ICAM, il primo Istituto realizzato in Europa per la custodia attenuata per madri con prole. Nato nel 2006 - in base ad un accordo tra Ministero della Giustizia, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano - con l’obiettivo di restituire un’infanzia “normale” a quei bambini con una madre detenuta, l’ICAM oggi è un modello in espansione su tutto il territorio nazionale. Paola Mineo ha lavorato in questo contesto particolare, dedicandosi alle madri detenute, coinvolgendone alcune in un’esperienza intensa, diretta, in cui l’arte – e l’interazione personale - ha impresso un cambiamento importante, quasi “determinante”, del loro status: da detenute in regime speciale a vere co-protagoniste di una performance d’arte contemporanea, lavorando su se stesse, insieme ai loro educatori, e dando vita ad un circuito virtuoso di naturale empatia.
Nella mostra Impronte Sfiorate l’opera di Paola Michela Mineo non è solo il risultato finale, quello visibile, scultoreo, ridotto a reliquia contemporanea del processo creativo che lo rappresenta. Nella mostra Impronte Sfiorate, Paola Michela Mineo si spoglia del proprio ruolo di artista e ricostruisce la memoria stessa di quel processo, restituendola attraverso i residui che l’hanno generata. Piccoli frammenti scultorei, immagini, suoni, odori, video, fotografie sono gli oggetti che compongono le sei installazioni, nello spazio Oberdan, in cui il pubblico potrà conoscere e interagire con una realtà sconosciuta e spesso dimenticata: quella detentiva. L’arte contemporanea si fa, così, medium di conoscenza e di comunicazione di una realtà sociale particolare. La percezione di un vissuto altrui, reso in una sorta di condivisione sensoriale, cresce, si dilata e muta nella coscienza degli spettatori. Vite fatte di sbagli e contraddizioni, di attese e di speranze generano sogni che spesso non coincidono con la realtà quotidiana. La condizione di prigioniero, in senso lato, spinge a considerarsi parte di quel mondo che in fondo non è poi così distante in cui è facile ritrovare la “normale” quotidianità umana.
“La cultura, spesso incrocia e ‘interseca’ la realtà e i suoi anfratti più remoti, con modalità a cui normalmente non siamo portati a pensare. – sottolineano Novo Umberto Maerna, Vice Presidente e Assessore alla Cultura della Provincia di Milano e Massimo Pagani, Assessore alla Famiglia e Politiche Sociali - Ne è la dimostrazione evidente la mostra “Impronte Sfiorate”, che presenta sei grandi installazioni realizzate da Paola Michela Mineo nell’ambito di un progetto sviluppato dall’artista all’interno dell’ICAM di Milano, il primo Istituto realizzato in Europa per la custodia attenuata per madri con prole. L’arte contemporanea – concludono Maerna e Pagani - si fa, così, strumento di conoscenza e di comunicazione di una realtà sociale particolare.”
La ricerca artistica di Paola Michela Mineo trae ispirazione dall’Arte relazionale e all’Arte-terapia, distinguendosene però nella forma e nella metodologia. L’artista da anni ha elaborato touchArt, una forma artistica con la quale indaga i meandri relazionali in cui la sua scultura, plasmata sul corpo del modello, diviene seconda pelle e al tempo stesso corazza; si fa calco, ovvero documento fisico, di un passaggio, la cui memoria assume forme che rammentano porzioni di sculture classiche, quasi fossero frammenti archeologici o impronte di un ricordo.
Informazioni utili:
Titolo: Impronte Sfiorate - Paola Michela Mineo e vite custodite all’I.C.A.M.
A cura di: Marco Testa
Artisti: Paola Michela Mineo
Luogo: Spazio Oberdan Viale Vittorio Veneto 2 Milano
Durata: 4 luglio – 5 ottobre 2014