5 06 (Aggiornamento del 6.5) UN ALATO OMAGGIO ALLA LETTURA DELLA POESIA
L'incontro con Nadia Tirelli Bonomi, la mitica dama della Cultura, l'eterea ed eterna fanciulla dell'"aer sottile", si è appena concluso, e nella "Sala degli Angeli Concertanti" di Villa Quadrio aleggia ancora la sua voce che s'insinua dolce nell'anima. Una sorta di transustanziazione della carne della parola in una deità immanente che trasfigura l'umano sentire in pura poesia. Ecco alcuni passaggi salienti del suo alato contributo alla lettura di una Poesia che corrobora, che vince, che sana, non come sanno esserlo le vane blandizie dell'effimero terreno, quanto invece la voce di una preghiera che sa di fede fanciulla, mai bigotta, che nutre l' inestinguibile sete dell'anima.
"Se il poeta, nel suo "poiein", è teso al da farsi - estremo principiante secondo un autore del '900 - il lettore mette in evidenza il già fatto, ma lo rende di nuovo in fieri. È un gioco pluriprospettico, non so se in senso nietzscheano, per la dissonanza stessa, in cui auctor e lector si dibattono, tra il desiderio di captare il mondo, sia nella sua molteplicità, sia nella sua nuda essenza, e la povertà del "raccolto", riscattabile, in parte, purché la piccolezza consentita all'uomo rispetto alla grandezza impensabile della vita sia sentita misericordiosamente e accettata con umiltà. L'umiltà è forse la sommità della nostra conoscenza. Stigma del poeta è, dunque, la necessità del "poiein" come condizione vitale: non il fare per fare, ma produrre qualcosa che prima non c'era. Accrescere, quindi, l'esistente. E il lettore continua quest'opera, con uno sguardo "caritatevole e lucente", capace di leggere in profondo lo "stato delle cose" e di interpretarlo in modo da sentirlo sempre idem et aliud: si produce, allora, un incremento del nostro conoscere, tanto che noi lettori aggiungiamo un "filo alla ragnatela della nostra vita". Tale sguardo caritatevole deve essere usato anche per autori che esprimono un giudizio duro e negativo sul mondo, come Montale, per fargli continuamente riesprimere il "suo segreto", proprio in quel suo negarsi e, insieme, nel suo affidarlo alla parola, poi alla nostra voce di "cantori"…
E' questo l'aspetto che assume il cammino degli spiriti poietici, un cammino di tanta difficoltà e di tanta energia, quanto più è vero che uno spirito "acuminato" come quello dantesco è anche uno spirito inquieto, soggetto a smarrirsi nella rete delle emozioni, nella selva selvaggia e aspra e forte, ma anche profondamente capace di ritrovare la diritta via. Del resto, l'attività più cosciente sollecitata nel fruitore dalla poesia è quella di restituire, prima di tutto, l'uomo a se stesso. E, nel restituirci a noi stessi, la poesia può dare al lector un'altra risposta: quella di far balenare una felicità primigenia, possibile non più tanto nella speranza (nel nostro mondo in cui, forse, è meno forte il richiamo della trascendenza), quanto nell'incognito della memoria, retrocedendo, con l'intuito dei poeti in un luogo senza colpa, mentre all'uomo comune mancano perfino i mezzi per rappresentarselo…
Separata dalla speranza, la sofferenza tenderebbe, infatti, a divenire assoluta, intemporale, se non trovasse nella sua nostalgia di felicità, nella indistinta memoria, quella consolazione che la speranza avrebbe consentito di trovare nelle immagini dell'avvenire, purché avessero resistito nella mente dell'uomo moderno, ormai (posso dirlo') privo della forza mitopoietica. Ma, ancora, la consolazione che proviene dalla memoria e quella che proviene dalla speranza sono due opposte consolazioni, ab imis, per così dire, et a supernis, chiusa l'una nella continuità della sofferenza, sollevata dal rimpianto l'altra, per cui il dolore è transitorio nei suoi netti confini, nel suo chiaro profilo…
Momento poetico e momento religioso si unificano più nell'illuminazione e nella rivelazione che nella regolare e dogmatica certezza del comportamento spirituale. In questo, come in altri rapporti la poesia agisce secondo la sua necessaria dinamica che è quella di distruggere la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito. Dello spirito, della vita, la poesia è d'altronde depositarla in comune con la religione, anche se non possiede, come questa, l'investitura per dirigerlo. Esperienza religiosa ed esperienza poetica sembrano poi divergere e, talvolta, ricomporsi perché non sono prevedibili i luoghi dove la poesia trova le sue risorse di lettura dell'uomo, e neppure quelli in cui lo spirito religioso riconferma la presenza e il segno del divino. Il senso meraviglioso e sofferente della vita è, forse, il fondamento comune, e comune è anche il misterioso senso complementare della morte...
L'essere della poesia è il fare, nel senso del "poiein": come proiezione di questo corollario, se ne potrebbe portare un altro che investe di riflesso colui che, appunto, è in quanto fa: il poeta forse non usufruisce della sua poesia, per regalare questa funzione al lettore, che ha l'alto compito di rinnovare continuamente l'ontologia della parola…
Una caratteristica, molto amata della Poesia, appare, oggi, forse non più quella di colei che ha detto ma di colei che interroga, lasciando "sospesa" all'infinto la risposta del fruitore…
C'è una profonda medietà, una reciprocità di cui la poesia ha sempre vissuto. Esiste nel presente e, credo, esisterà nel futuro. Per quale arbitraria illazione l'epoca presente e più ancora l'epoca futura dovrebbero essere prive - non importa se per incapacità o per rinunzia - della loro poesia? Trovo assurdo immaginare lo spazio della poesia come uno spazio riservato, che andrebbe sempre più restringendosi fino all'abolizione, sotto l'invadenza delle scienze dell'uomo o della natura. Lo spazio della poesia non è delimitabile, è per sua natura impalpabile e s'insinua dovunque, fin dentro l'episteme originaria delle scienze ancor dette sperimentali. Dunque, la parola della poesia non è - perché immobile o inattiva si annullerebbe - e non ha - perché non circoscrive e non protegge il suo avere. Solo nell'essere avuta (haberi) acquista insieme essenza e potenza. Essa è esposta così a tutte le incognite e a tutte le feconde avventure dell'interpretazione, purché non se ne travisi la filologia. Il lettore, quindi, crocianamente artifex additus artifici, ridona continuamente vita alla poesia, o, ancora, secondo Jauss e Gadamer, interpreta come ermeneuta proprio il testo, mentre si pone tra l'auctor - ìs qui auget veritatem - e l'opera, in cui il "Logos" si è incarnato, recuperando, semanticamente, la ricchezza di "logos", verbum, parola…
Una parola quella poetica che inizia vivere quando è pronunciata, diceva la Dickinson. E non sia questo il suo morire, ma sia affidata alla voce, altra e alta, del lector. Questo è il miracolo della parola poetica. Quando noi usiamo la parola per definire qualcosa, quando arriviamo a denotare, ecco che la parola è finita, è morta. La parola poetica inizia a vivere quando è pronunciata dal poeta e cantata dal fruitore. È sempre al principio. E questa la parola che risorge, ma risorge dalla silva, dal magma. La parola risorge ma non è mai pura e non è mai destinata. È quell'essere all'origine che è una pullulante possibilità. La parola è anàstasis, risorge, ma pure anastasìa, rovina, ciò che insorge e sovverte, scalza, sovverte, anàstasis, anastasìa. Lui risorge ma risorgendo sovverte, scalza, butta per aria le pietre, è rovina di quel sepolcro. Anàstasis, anastasìa, così è la parola: insorge e sovverte, in quell'animato grembo (in lei era la vita) dove nascita e morte s'affrontano forse solo per confondersi, o ancora, ""nell'unico presente, perenne nascita e rovina", anastasìa…
Eppure questo è il mistero della parola, della parola poetica capace di incarnare la luce fino a crocifiggerla, in modo che sappia rivelare la nostra angustia: la luce, anàstasis, volontà disperata di resurrezione, non dimentica mai, anzi è sempre rivelazione della nostra angustia. Tenere in uno e fare simbolo di queste contraddizioni è il miracolo che la parola poetica cerca continuamente di ripresentare, questa è la sua vocazione nel donarsi al lector.
Questa è la parola di una vita che è destinata a morte, contraddicendola sempre: contraddice il nostro essere semplicemente e naturalmente destinati a morire…
Logos, collidere, raccogliere, tenere insieme tutti questi segni: questa è la forza della poesia per il lector, is qui legit. Raccogliere proprio simbolicamente la complessità di questi segni e rendersela pateticamente percepibile nel senso pieno del termine, cioè sentire, avvertire il sapore e il sapere della vita. La filosofia, forse, non riesce a fare sentire, sinesteticamente, i sapori dell'intera vita; i poeti, forse, lo sanno fare".
Alta filosofia o semplicemente "Poesia" in questi tralci di vite che svettano sul poggio, stralci di vita vissuta in comunione con gli spiriti eletti che lasciano un segno, pegno d'immortalità futura.
Nello Colombo