I RACCONTI DI CRISTINA: VACANZE IN MONTAGNA

So di essere una persona fortunata. Non tutti se ne possono andare in vacanza in montagna. Anzi non tutti possono andare in vacanza. Se vivessi solo di pensione minima nella periferia milanese la mia vacanza sarebbe una sosta in un fresco centro commerciale. Invece io me ne sono andata in montagna. Non oso dire “la mia montagna”, anche se ci vado da una vita, da quando i ricordi si confondono con la leggenda.

In effetti a chi appartiene la montagna? E perché dovrebbe appartenere a qualcuno?

No, le montagne sono lì e ti guardano, mentre noi passiamo loro rimangono, imperturbabili.

Forse però non è vero che sono così imperturbabili.

A volte penso anzi che certe montagne della Valmalenco debbano essere molto, molto arrabbiate. Fino a che punto, mi sono chiesta osservando lo scempio compiuto per ricavare il pregiato serpentino da esibire nelle nostre case, fino a che punto la montagna sopporterà di essere tagliata, mozzata, mutilata, affettata come un prosciutto e scavata come formaggio coi buchi? Non è giusto, penso, osservando tutte le ferite inferte a quelle povere rocce con esplosivi ed enormi mezzi meccanici. Un vero e proprio ecomostro, indistruttibile purtroppo. La pietra in quella zona è sempre stata raccolta, ma pezzo per pezzo, con sudore, fatica, rischi e sacrifici. Le sottili lastre di ardesia sono state utilizzate da sempre per i tetti delle case e delle baite, ma venivano lavorate una per una e la zona delle cave, chiamata Piödée era un luogo speciale, con tutte quelle casupole che in realtà erano l’ingresso di gallerie dove si cavava e lavorava la pietra, che sembravano fragili come casette di carta. E un po’ lo erano. Ci passava un sentiero, che scendeva da Primolo e ricordo che mio papà ripeteva sempre che si doveva stare molto attenti quando si passava di lì, perché c’erano tutte gallerie lì sotto, e ne parlava con molto rispetto perché, diceva, purtroppo spesso capita che qualche operaio vi rimanga intrappolato e sono molti quelli che hanno perso la vita.

Adesso è andato tutto in malora, quella zona così interessante di cui si diceva volessero fare un museo è solo un ammasso di pietre, una discarica pericolosa.

Sto proprio diventando vecchia, penso andando in macchina verso Chiareggio, punto di partenza per le escursioni più belle, se comincio a ricordare e rimpiangere il passato e criticare il presente. Ma proprio in quel momento mi devo fermare e far manovra per lasciar passare un ingombrante gippone guidato evidentemente da qualcuno un po’ imbranato e che non sa che si dovrebbe dare la precedenza a chi sale.

Mi sembra davvero di parlare come mio padre che con la sua gloriosa 600 arrivava dappertutto, senza nemmeno avere le marce ridotte. Per lui era importante “guadagnare quota” così poteva raggiungere più in fretta siti sopra i 2500 metri di altezza dove raccoglieva qualche minerale e faticare un po’ meno quando tornava con il sacco pieno di sassi sulle spalle.

E la 600 andava benissimo sulle strade strette come quella di Chiareggio. Invece adesso, tutti questi SUV, anzi SUUUV, visto che è una sigla in inglese (Stupid Ugly Unfriendly Useless Vehicle) che consumano e inquinano come quattro utilitarie messe insieme, sono grossi come dei pulmini e sono spesso guidate da qualcuno che telefona. Spesso hanno i vetri oscurati, neanche fossero mafiosi. Ci manca solo un mitra sul retro per completare l’immagine inquietante. Non per niente una mia allieva, un giorno in cui avevo fatto notare il disagio che causano questi Stupid Unfriendly Vehicles in città, mi aveva detto: ma mio padre ha due rottweiler, dove li mette?

Dimenticano questi signori senza fantasia che le nostre sono montagne italiane, che le nostre strade di montagna sono ricavate spesso sul tracciato di antiche mulattiere che erano già lì molto, molto tempo prima che fosse scoperta l’America. Dimenticano che in America hanno costruito prima le macchine e poi le strade a misura di automobile, non di uomo o di mulo.

Mi consolo vedendo che il mezzo di trasporto preferito dalla gente del posto è l’Ape, triciclo erede del motocarro, che in casa nostra, non so perché veniva chiamato cacametro. Invece del mitra sul retro di questi simpatici veicoli c’è sempre un cane di razza locale, perfettamente a suo agio, dall’espressione beata, senza collare né guinzaglio perché educato, ubbidiente ed autonomo. Quando non c’è il cane questi veicoli trasportano di tutto, dalla legna al letame, dal fieno al formaggio. Si vedono dappertutto, nei garage accanto a vetture luccicanti o davanti alle baite e ai rifugi, e ci si chiede come possano arrivare fin lì. Ma arrivano. E non costringono a fare fastidiose manovre quando si incrociano.

Per fortuna a un certo punto le strade “carrozzabili” finiscono e noi ritorniamo ad essere solo esseri umani, che fanno fatica a camminare ma che si salutano se incontrano un loro simile, perché non c’è da litigare per la precedenza o per un sorpaso, che hanno il tempo di osservare i fiori sul sentiero e il panorama che ci circonda,e il paesaggio cambia sorprendentemente ad ogni passo. Non ci sono più differenze di ceto e di censo, lo straniero ritorna ad essere ospite. Come quei due turisti svizzeri che venivano da Poschiavo con la loro mountain bike che si sono fermati a bere del latte all’inizio della Val Poschiavina, o come quelle signore a Mosella che venivano dal Maloja e avrebbero poi raggiunto Poschiavo il giorno dopo. Come quel signore tedesco che abbiamo trovato all’Alpe Fora dopo un paio d’ore di cammino senza incontrare nessuno su un sentiero tanto pittoresco quanto faticoso. Il piacere di incontrare una persona cui si dà naturalmente fiducia.

Si parla volentieri con gli estranei là dove non si arriva coi mezzi meccanici. Con il pastore che ci ha venduto la ricotta fresca e sorridendo ci ha indicato la strada giusta per tornare. O il gestore del rifugio che ci ha parlato degli stambecchi, dei camosci e delle cornacchie che vengono a mangiare il pane che lascia apposta per loro.

Si trova sempre un rassicurante luogo comune che non sia la politica o il pettegolezzo di cui cominciare a parlare con queste persone, dai bei tempi andati al clima, dai funghi ai mirtilli, poi però la conversazione può continuare e prendere delle pieghe interessanti, anche se io non parlo dialetto e sono “forestiera”. Ma non poi troppo perché si scopre sempre qualche conoscenza in comune o addirittura si riconoscono vecchi amici.

E come stridono i segni di troppa modernità! Quando raggiungiamo per caso l’arrivo di una pista da sci, che non abbiamo mai visto senza neve, il posto è bellissimo, ma le piste sono delle vere e proprie cicatrici sulla montagna, gli impianti non sono certo degli ornamenti.

No forse non sono come mio papà. Lui aveva più fiducia nel progresso, lui aveva salutato le nuove strade, le dighe, gli impianti di risalita, tutte le migliorie con fiducia, perché riconosceva che avrebbero migliorato la vita della gente del posto, da sempre sacrificata. Ma noi sappiamo che il progresso è andato oltre. In mezzo secolo i segni lasciati dall’uomo sulle montagne si sono moltiplicati e non sono più rifugi, sentieri, piccole croci, tracce, indizi, segni da interpretare, come quelli incisi su un masso rettangolare all’Alpe fora, proprio dove fanno ancora il formaggio. Quando le hanno fatte queste incisioni, perché, chi? Certo un significato devono averlo, soprattutto in un luogo così, da cui si ha una vista circolare (a 360°) sulla valle e sulle montagne circostanti. Eppure sono lì, davanti ad una baita, e non disturbano nessuno. Parlano col loro silenzio.

Mi hanno ricordato altri monumenti preistorici, come i menhir in Bretagna, i dolmen in Irlanda, le pietre di Stonehenge. In Irlanda ricordo di aver chiesto a un turista americano se sapesse dove fosse un dolmen segnalato in una guida. Mah, mi ha risposto, in quel giardino ce n’è uno, ma è così vecchio, non particolarmente bello, tutto ricoperto di muschi....

Cristina Cattaneo Guicciardi

Cristina Cattaneo Guicciardi
Società