I racconti di Cristina: Non è poi così lontana Samarcanda…

Racconto in tre puntate (di seguito)

Non è poi così lontana Samarcanda - 1
Ho comprato un povero quaderno con carta grigiastra, copertina
inconsistente di un verde sbiadito dal sole. L’ho comprato su
una bancarella in una strada di Bukhara, che lo esponeva insieme
a due saponette, qualche paio di calze, alcuni pacchetti di
sigarette e altre misere cose.

Già l’anno scorso in Russia avevamo notato la costante carenza
di carta. Qui è peggio. A Nukus, desolata “capitale” della
“Repubblica Autonoma del Karakalpakstan”, per intenderci la
regione del lago d’Aral, la carta igienica dello squallido
albergo è quasi come la carta vetrata che usano i falegnami.

Fosse solo quello. Ho comprato un piattino come ricordo e il
ragazzo che me l’ha venduto l’ha avvolto in un bel pezzetto di
tela bianca. Non ho visto un solo giornale e nemmeno un
giornalaio da quando sono qui. Né in russo né in uzbeko, niente.
Stasera, vigilia della festa nazionale, 14° anniversario
dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, alla televisione si
vedono solo i due canali uzbeki, con l’onnipresente dittatore
Karimov che inaugura stazioni fantasma, scintillanti palazzi
vuoti, enormi teatri, anch’essi vuoti.

Noi sappiamo che sono vuoti perché quando lui e la sua cricca si
muovono tutta la città è bloccata. Ad ogni incrocio poliziotti
come formiche – ma inoperose – fermano tutte le macchine e
vietano di percorrere le strade volute. Due o tre camion messi
di traverso – sono tutti viali molto larghi –ne bloccano
l’ingresso. L’idea è geniale perché, quando a qualche
raccomandato viene concesso di passare, il camion fa marcia
indietro e libera per un momento la carreggiata. Il nostro
autista all’arrivo a Samarcanda ha dovuto mostrare i documenti,
dire da dove venivamo e dove eravamo diretti. Solo dopo una
telefonata di controllo all’albergo abbiamo potuto proseguire.


Di posti di blocco ne abbiamo incontrati tanti. Addirittura,
mentre ci stavamo dirigendo verso quello che una volta era il
lago d’Aral e che adesso è quasi un deserto con barconi
abbandonati nella sabbia e la disperazione rassegnata negli
occhi dei pochi abitanti rimasti, uno zelante poliziotto ha
voluto vedere tutti i nostri passaporti e non riuscendo a
leggere i caratteri latini ha preteso che Zita – la nostra guida
– li ricopiasse in cirillico, uno per uno. Forse non era
obbligato, ma lì sono così rari i passanti che non si è lasciato
sfuggire una così ghiotta occasione di distrazione.

Il lago d’Aral fino a pochi decenni fa era il mare uzbeko,
Moinak, dove ci siamo fermati, un’amena località di
villeggiatura, con impianti per la conservazione del pesce e
persino un cinema -teatro.

Poi, forse anche per cause naturali, ma soprattutto a causa del
selvaggio sfruttamento della regione con la monocultura
intensiva del cotone e l’uso scriteriato di pesticidi, concimi
chimici ed anticrittogamici, il lago ha cominciato a ritirarsi
ad un ritmo impressionante, lasciando il posto ad un deserto
“bianco”, micidiale miscuglio di sale ed agenti chimici.

In questo villaggio, dove rimangono ancora vecchi cartelli
arrugginiti che mostravano con orgoglio l’appartenenza
all’impero sovietico, siamo andati in pellegrinaggio al povero,
disperato “museo” che testimonia del degrado attuale e del
passato benessere della regione. Abbiamo chiesto chi fossero
tutti quei bambini ritratti in un enorme poster. Sono i bambini
della zona curati da “Medici Senza Frontiere” a causa della loro
salute a rischio. Situazione “precancerosa” viene definite.
Veleni nella terra e nell’acqua. Genitori alcolizzati. Adesso i
bambini sono in vacanza. Ne incontriamo un gruppetto intorno
alle barche abbandonate nel deserto.

Sembra una scena dal “Signore delle Mosche” di Golding.

C’è il capo, il sottocapo, il piccolino, il buono e il meno
buono, i piccoli e i più grandicelli. Tutti maschi. Tutti
vogliono guardare dal binocolo di Nando, Tutti vogliono mettersi
in posa per una foto e vederla sul piccolo schermo
dell’apparecchio digitale. Mi dicono i loro nomi. Ripassiamo i
numeri in inglese e in russo. Ridiamo insieme. Uno è
particolarmente interessato, vuole sapere più parole in inglese
e in italiano. Chiede, vuole sapere, sorride fiducioso. Che
futuro avrà questo ragazzino? Il più grande non è così
intelligente, lo vedo a rischio. Ma suo è il sorriso che ci
commuove di più quando distribuiamo le automobiline e le piccole
motociclette che abbiamo portato apposta per loro. Non è bello
infatti offrire soldi a bambini, meglio un piccolo dono.

La visita al cimitero delle barche e a quel piccolo mondo si è
conclusa. Ci aspettano duecento chilometri di strada sconnessa,
con troppe buche, attraverso un paesaggio piatto, cosparso da
ciuffi di un rosa intenso.

Sembra infatti che il tamerice sia l’unica pianta che prospera
in quel terreno sabbioso e salato. Non lo sapevo, ma in altre
zone del mondo è considerata una pianta infestante perché
succhia litri e litri d’acqua al giorno, proprio come il cotone.
Peccato perché è un arbusto molto bello, fiorito anche in
agosto, che rende la steppa desertica una macchia costellata di
cespugli di un rosa intenso.

Per fortuna gli alberghi delle tappe successive non saranno
squallidi come quello di Nukus, probabilmente costruito in epoca
sovietica con profusione di marmi ed ampie stanze, ma che da
allora non è stato più pulito e riparato. Certamente i
caravanserragli della via della seta erano più accoglienti e i
viaggiatori più interessanti dei pochi ubriachi presenti.
Inutile entrare qui in descrizioni dettagliate, accontentiamoci
di dire che mio papà, usando un eufemismo, l’avrebbe definito
“délabré”.

Ma,” non si può sempre perdere”, dice il solito proverbio
cinese, ed ecco che dopo tutte queste deprimenti esperienze
l’indomani abbiamo la piacevole sorpresa di visitare uno
splendido museo storico, etnografico, ma soprattutto di arte
moderna. A Nukus, mi si chiederà, come mai?

Per una di quelle felici ma rare coincidenze a Nukus fin dagli
anni della guerra era arrivato uno studioso russo che si era
letteralmente innamorato della zona, per la sua storia, per i
suoi siti archeologici, per la sua gente, e che decise di
stabilircisi e incoraggiare gli artisti locali. Non solo loro.


Erano infatti momenti molto bui per l’umanità, guerre,
persecuzioni, miseria. In quelle zone dimenticate c’erano anche
artisti che noi, per usare un altro eufemismo, diremmo “mandati
al confino”, solo perché la loro arte era considerata
“degenerata” dai vertici del partito.

Ebbene questo generoso “mecenate” – che non era però ricco di
suo – riuscì a proteggere questi artisti, nutrirli di pane e
colori e salvarne le opere e forse anche la vita. Grazie a lui
in questa remota località dell’Asia Centrale c’è quella che
viene considerata, anche a detta di illustri critici, una delle
più preziose collezioni d’arte moderna.


L’Uzbekistan non è certo una meta abituale di vacanza. Non ci
sono villaggi turistici in cui isolarsi dalla realtà locale.
L’incontro con la popolazione e la sua cultura sono, allora,
inevitabili, per chi ci va. In molti, forse, abbiamo qualche
difficoltà persino a localizzare il paese sulla carta
geografica. Non ci sono nemmeno voli diretti dall’Italia;
bisogna, per forza, passare per la Turchia. Solo il nome di
Samarcanda evoca qualcosa, ma solo una canzone. Difficile è
capire come tanta lontananza possa giustificare un viaggio così
impegnativo.

Cristina, in questi suoi resoconti, ci racconta, invece, come la
nostra storia e la nostra cultura, siano passati anche di lì,
nel loro lungo processo di formazione e che Samarcanda non è poi
così lontana come sembra

Non è poi così lontana Samarcanda - 2

Zita –la nostra guida - ha rappresentato per noi la salvezza. Ci
è apparsa come una visione, salvifica appunto, alla dogana
dell’aeroporto di Tashkent. Dovrebbero andare più spesso in
paesi del terzo mondo quei nostri concittadini che sono contro
l’Unione Europea, quelli che danno per acquisiti valori come la
cortesia e l’efficienza dei funzionari pubblici, il numero al
banco del supermercato, il rispetto dello straniero e del
turista. Che bello passare senza fare un attimo di coda
all’arrivo a Londra, Parigi, o in qualsiasi città dell’U.E.
mostrando solo la copertina del passaporto. In quegli aeroporti
il nostro passaporto ci garantisce persino la precedenza su
coloro che hanno il passaporto svizzero!

Provino a fare due ore di coda in piedi, spintonati da omoni e
donnoni che si fanno avanti a colpi di borse, pance e
quant’altro, che non rispettano certo la “distanza
discrezionale” dei nostri uffici postali. Se poi la fila si fa
dalle tre e mezzo alle sei della mattina dopo un volo di cinque
ore, naturalmente insonne, superarla è una vera ordalia.
Finalmente arrivati al colloquio col poliziotto questi ti chiede
in russo “Otkudà?” (Da dove?) E’ stato uno dei miei momenti di
gloria. Fierissima ho risposto “Schvizaria” e siamo passati. Una
nostra giovane compagna di viaggio è stata bloccata per ben
dieci minuti per non aver risposto a tempo e a tono a quella
domanda.

Verso le cinque – l’aereo era atterrato alle tre e mezzo – sento
un giovanotto dietro di me che dice in inglese: “ La prima
impressione non si scorda mai”. Io, che aspettavo solo di
chiacchierare con qualcuno per ingannare il tempo, ne ho
approfittato subito per intavolare una ricca conversazione.
Abbiamo fatto in tempo a raccontarci le nostre vite. Era uno
studente kazako che studia a Mosca. L’amico che era con lui, già
laureato in economia, tornava invece a Bukhara. Mi ha anche
offerto un passaggio. Stava completando un master, conosceva
russo, inglese e tedesco. Mosca sembra ancora lo sbocco naturale
per chi vuole continuare i propri studi, ma soprattutto trovare
un’attività. Un po’ come gli irredentisti di Sarajevo che
andavano a studiare a Praga o Vienna. Grazie a questi due
giovani intelligenti il tempo è passato più veloce, abbiamo
cominciato a vedere le prime luci dell’alba e finalmente abbiamo
intravisto l’esterno dell’aeroporto.

D’un tratto sentiamo una voce femminile, ma fortissima,
esclamare in perfetto italiano: “Lo sapevo, i miei turisti
europei sono sempre gli ultimi!” Poi si rivolge in russo ai
doganieri, che d’un colpo perdono la loro arroganza, come dei
bambini con la maestra severa, inserendo qua e là qualche
espressione in italiano “Vaffanc.., questo è cretinismo!” ed
eccoci fuori. Da allora per quindici giorni sarà il nostro
angelo custode, il nostro nume tutelare. Bacchetterà camerieri e
poliziotti, cuochi e autisti. Ci sorprenderà con le sue
barzellette su Berlusconi – sono arrivate fino là – e le sue
esibizioni estemporanee - danze, canzoni, discorsi ufficiali –
con le sue toilettes vistose un po’ fuori moda, ma soprattutto
con la sua energia e l’instancabile parlantina. Mai un segno di
stanchezza, mai un cedimento.

Non molto alta, ma molto robusta, più vicina ai sessanta che ai
cinquanta, Zita ha quella sicurezza che solo le donne che sono
state molto ammirate e corteggiate riescono ad avere. E’ armena.
Suo nonno era arrivato a Tashkent ai primi del novecento. Aveva
parecchi negozi di mobili. L’Asia Centrale era abbastanza
lontana dalla Turchia per non essere sfiorata dal genocidio del
1915. Zita non ne parla mai. Pensare positivo è il suo motto.


Nel 1937 però il nonno viene dichiarato “nemico dell’Unione
Sovietica”, prelevato e ucciso. La famiglia non saprà mai dove.
Solo cinquant’anni più tardi verrà riabilitato, con documento
ufficiale. Ma il papà e la mamma di Zita sono persone speciali,
grande saggezza antica, grande apertura – tante le lingue che
parlano, ma proprio tante, russo, georgiano, turco, greco,
francese naturalmente, e poi persiano e anche arabo - parenti e
amici in tutto il mondo, grande amore e senso della famiglia, ma
soprattutto tanta voglia di lavorare. E’ fiera Zita della loro
ricchezza, che a noi non sembra tanto speciale, ma che in un
paese così povero doveva saltare agli occhi.

Ci racconta Zita di come il padre lavorasse di notte perché i
suoi bambini avessero le scarpe più belle, che confezionava lui
stesso con le proprie mani, il piatto sempre pieno, la casa
sempre aperta per gli ospiti e gli amici.

Gli armeni sono come gli ebrei. Popolo senza patria, o meglio
con una patria inconsistente. Hanno però una lingua con un
antichissimo alfabeto, una religione, cultura e tradizioni cui
non rinunceranno mai. L’Armenia faceva infatti parte dell’Impero
Ottomano. Erano cristiani in ambiente musulmano, e come altri
gruppi di religioni diverse avevano un loro statuto, diritti e
doveri.

Prima di essere travolto dalla follia nazionalistica (1915
genocidio degli armeni) l’impero ottomano era sempre stato molto
tollerante con le minoranze. Elias Canetti – ebreo - ricorda con
piacere la sua infanzia multilingue in Bulgaria. Gli armeni,
così come gli ebrei, erano commercianti, apotecari, medici,
impiegati. Conoscevano molte lingue ed erano i funzionari ideali
in uno stato così vasto e multietnico. Ancora oggi sono presenti
un po’ ovunque, dall’Asia all’America.

La piccola Armenia attuale, ex repubblica socialista sovietica,
poverissima e dimenticata, senza sbocco sul mare, racchiusa fra
Azerbaijan, Iran, Georgia e Turchia, rappresenta ben poco lo
spirito della sua gente. Difficile riprendersi da una
distruzione di così vaste dimensioni.

Ma torniamo alla nostra Zita. Quante cose ci racconterà. Di come
i Tagiki siano i discendenti di quei soldati di Alessandro
Magno, magari feriti, che erano stati mandati in convalescenza
sulle montagne e lì rimasero. Si riconoscono dal “naso greco”.
Sembra che ancora adesso siano bravissimi medici. Molti dei più
stimati medici sovietici erano tagiki. E’ importante Alessandro
Magno in Uzbekistan. Molte le leggende che Zita ci ha raccontato
ma anche i reperti archeologici che ci ha mostrato e che
testimoniano la sua presenza qui. Dolcissima la storia d’amore
di Alessandro con la bella Roxana, figlia di un nobile bactriano
sconfitto dallo stesso Alessandro. Sembra che il nome Roxana
stia a significare “la bella dell’Oxus” (Oxus è il nome antico
del fiume Amu Daria, che nasce nel Pamir e sbocca nel lago
d’Aral, fonte di vita per tutto il paese).

Rimpiange l’Unione Sovietica Zita, pur non essendo mai stata
comunista. Ne rimpiange l’organizzazione, la tranquillità (per
chi non si occupava di politica), il lavoro e la scuola per
tutti. Adesso invece non è più così, scuole e musei non più
gratuiti, lavoro non assicurato, droga anche lì

Non solo. Gli abitanti di origine europea si trovano a vivere in
Uzbekistan una situazione anomala e imprevista. Sono diventati
infatti minoranza, loro abituati ad essere considerati classe
superiore, hanno dovuto scambiare i ruoli. Non importa se sono
più colti, parlano più lingue, hanno maggiore esperienza. Erano
gli occupanti in una semicolonia russa – così veniva infatti
chiamato il Turkestan – fin dal secolo scorso. Adesso sono
ospiti.

Con il comunismo le popolazioni si sono mescolate e infatti si
vedono persone bellissime, il russo era diventato la prima
lingua, erano tutti compagni. In realtà i problemi non erano
dimenticati ed ora in tutti i paesi dell’ex Turkestan
(Turkmenistan, Kazakistan, Kirgizistan, Tagikistan e Uzbekistan)
si assiste alla rinascita di forti nazionalismi, che a noi
sembrano anacronistici, ma che forse sono un passo inevitabile
verso l’autodeterminazione. Peccato che il momento storico non
sia dei più favorevoli.

Ecco allora che piccoli dittatori, ma loro si considerano
grandi, prendono in mano questi paesi con grande prepotenza e
arroganza e fanno tutto quello che hanno sempre fatto i
dittatori. Si fanno erigere monumenti, mausolei, scrivono frasi
storiche e memorabili dappertutto, anche nei musei, ma
soprattutto si arricchiscono e appaiono troppo spesso in
televisione.

Così è in Uzbekistan, dove l’ex compagno di Putin, Ismail
Karimov, fa il bello e il cattivo tempo, cercando di
barcamenarsi fra Usa e Russia e i loro fortissimi interessi.
L’Uzbekistan infatti galleggia su un mare di gas, bramato da
tutti.

Quante volte sentiremo Zita ripetere la sua frase preferita
“Questo è cretinismo!” . Almeno tutte le volte che pigri
poliziotti ci fermeranno negli innumerevoli posti di blocco,
magari all’imbocco del ponte di barche sull’Amu Daria, sulla
strada da Nukus a Khiva, dove non vorrebbero lasciarci passare.
Chissà perché ci fermano. Ho dovuto girarmi e guardare altrove
per non far vedere che ridevo dopo aver colto le parole “aereo”
“partire” “stasera” e visto la sua espressione assolutamente
tranquilla mentre le pronunciava. . Il mio russo infatti grazie
a lei progredisce sensibilmente.

Per lei sono tutti amici o meglio ancora “nipoti”. Ovunque si
vada tutti la salutano e l’abbracciano, la chiamano zia Zita e
lei si rivolge a loro con una parola uzbeka che vuol dire “Vita
mia”. Ha quell’autorevolezza che mi renderebbe facilissima la
vita a scuola. Confesso di invidiargliela non poco.

Ha anche lei le sue debolezze naturalmente. Come quando ha
voluto distribuire personalmente i piccoli giocattoli che
avevamo portato per i bambini poveri. Io so a chi darli, ha
detto, e giustamente l’abbiamo lasciata fare. E’ la sua gente,
che rivedrà spesso, magari già la prossima settimana, perché
toglierle questo piccolo piacere.

Ha una vita difficile alle spalle. Ha sempre lavorato. Parla
forse un po’ troppo ma è generosissima. Ci ha adottato, come il
barcaiolo che traghetta i passeggeri dall’altra parte del fiume.
Ci ha dato sicurezza, con i suoi saggi consigli. Chi sapeva
infatti che un ottimo rimedio contro la diarrea è un bicchierino
di vodka pieno di sale?

Dice di non credere, ma si rivolge con estremo rispetto a tutti
i “servitori di culto” che incontriamo nelle moschee, ci regala
gli insegnamenti dei grandi saggi, mistici e studiosi come
Avicenna e Ulug Beg, il principe astronomo nipote di Tamerlano.
Cerca di aiutare tutti in modo equo, dai piccoli commercianti ai
musicisti russi che sembravano usciti direttamente da una
commedia di Cechov.

E’ infatti riuscita ad organizzare un concerto in una vecchia
chiesa sconsacrata costruita per gli ufficiali russi di stanza a
Samarcanda alla fine dell’ottocento. Il pianoforte a coda un po’
scordato, le cantanti con vecchi vestiti assolutamente fuori
moda ma rigorosamente lunghi, il flautista con una pancia troppo
prominente. Ma la musica è bella, la nostalgia tanta, la
rivoluzione dimenticata. Non lo stile però. Chi infatti accoglie
gli spettatori con un fresco bicchiere di vino bianco? A Mosca,
a Mosca, a Mosca, sembrano voler dire le tre musiciste, proprio
come le Tre Sorelle di Cechov. Invece, adesso che la guarnigione
russa si è spostata, rimarranno sempre a Samarcanda, prigioniere
della loro nostalgia e della loro povertà, alla mercé di quei
pochi turisti che la brave Zite riusciranno a portare ad
assistere alle loro patetiche esibizioni.

Non è poi così lontana Samarcanda – 3

Il vero viaggio comincia a Khiva. Il viaggio da turista intendo,
cappellino per il sole, abbigliamento comodo, marsupio per non
farsi scippare niente, macchine fotografiche, monumenti da
visitare e torri da scalare. Esclamazioni di meraviglia, ah, che
bello, guarda, facciamo una foto. L’espressione divertita e
anche un po’ impietosita dei locali che vivono lì la loro vita.
Gli inutili souvenir da comprare. Che bello questo, l’ho pagato
pochissimo. Davvero, ma dove, dove l’hai preso. A pensarci bene
i turisti sembrano tutti un po’ stupidi. Meglio fare un veloce
cambio di consonante ed ecco che diventano “stupiti”, ecco, così
va meglio.

Anch’io naturalmente ho fatto la turista. Senza ritegno e senza
alcun pudore, la macchina fotografica sempre in mano, perché
adesso con gli apparecchi digitali si può anche esagerare. Una
nostra compagna di viaggio ha persino fotografato un cesso. A
futura memoria. Cessi uzbeki e cessi svizzeri, trovate le
differenze.

Non essendo una professionista le mie immagini sono imperfette,
storte, sfocate, gli oggetti irriconoscibili, ma fra tanti
scatti qualcuna si salva. Riguardandole a volte si riesce a
rivivere le emozioni provate in quei momenti, si ricordano gli
sguardi e i sorrisi delle persone incontrate, frammenti di vite
ormai lontane ma in quell’attimo così vicine. Ho fotografato di
tutto, dal fiore di cotone al tamerice nella sabbia, dalla
bambina con gli occhi azzurri al ragazzino che mi ha
probabilmente salvato la vita quando, precedendomi nella scalata
di un minareto, ha fatto appena in tempo a dirmi “Watch your
head” (Attenta alla testa) perché io potessi chinarmi e non
sbattere contro la bassissima architrave della porticina
d’uscita. Furbi quei ragazzi, perché hanno notato che i turisti
vagano sempre con la testa per aria e non vedono scalini,
muretti, buche e altre pericolose insidie di cui è costellato il
percorso.

Quante fotografie! Le splendide facciate delle moschee e delle
madrasse, con le loro decorazioni di ceramica azzurra. Azzurro
il cielo, sempre, azzurre le decorazioni. Mai uguali però, si
potrebbe stare ore a contemplarle, a notarne i dettagli, le
differenze, le simbologie, i richiami ad altre religioni.

Il colpo d’occhio all’arrivo a Khiva. Ho cercato di fotografare,
ma il cuore ricorda meglio la poesia di quell’immagine. La
cittadella sembra un grande castello di sabbia rosata. Uno di
quelli belli, con torri rotonde e merli e muri obliqui, di
quelli fatti con l’aiuto di un grande, magari il papà.

La piazza così ampia, tanti fiori e una grande vasca che
riflette il cielo, e, oltre la porta della cittadella, ecco che
si intravede quella grande torre a tronco di cono, un minareto
incompiuto, rivestita di piastrelline azzurre– il mio colore
preferito – in tutte le sfumature, che cambiano a seconda della
luce. L’ho fotografata di notte, sembra dorata.

E poi i particolari delle decorazioni sui muri, sulle porte, sui
soffitti. La stella di Davide accanto alla svastica, antico
simbolo che rappresenta il sole e il passaggio delle quattro
stagioni, e poi fiori e uccelli stilizzati. Sono presenti anche
gli uccelli veri, upupe, pavoni, cicogne di cui abbiamo visto
però solo i nidi.

Anche nella bandiera uzbeka c’è un uccello, il Simurgh, il
simbolo sufico per eccellenza. Il Simurgh rappresenta la meta
finale, che gli uccelli guidati dall’upupa dovranno trovare al
termine di un lungo e faticoso viaggio, attraverso sette valli.
Da tanti che erano partiti arriveranno al termine solo in 30
(Simurgh significa infatti trenta uccelli) e sarà una sorpresa.


Come si può intuire in un viaggio così il turista non può però
limitarsi a guardare e fare fotografie. Si rende conto che sta
camminando su antiche strade ancora molto simili a quelle che
erano secoli e secoli fa. Deve, vuole capire di più.

C’è un grande manifesto nella piazza della cittadella di Khiva.
“Silk Road Project”. “Progetto per la Via della Seta”,
patrocinato dall’Unesco. Khiva fa parte del patrimonio
dell’umanità. Noi europei sappiamo poco di queste zone,
conosciamo poco queste civiltà. Siamo troppo eurocentrici. Forse
dovremmo fare un piccolo sforzo e ricordare per esempio Marco
Polo, il Viaggiatore per eccellenza e lo spirito con cui
viaggiava. O fare un salto indietro di altri millecinquecento
anni e ripercorrere il cammino di Alessandro Magno. Qualche anno
fa un archeologo inglese, Michael Wood, l’ha fatto. Tutto. Ne ha
realizzato un interessante servizio per la BBC.

Forse dovremmo documentarci anche sull’avanzata araba verso
oriente. Chi c’era prima, com’è stato dopo.

Quante cose scopriremmo! Per esempio che lungo la via della seta
c’era ricchezza, cultura e tolleranza. Poco si addicono gli
scontri armati ai commerci. Scopriremmo che si parlavano tante
lingue e che c’era una grande libertà religiosa. Qui trovavano
rifugio i perseguitati delle altre religioni e convivevano
pacificamente. Dai cristiani nestoriani agli ebrei karaiti, dai
sufi islamici ai manichei e ai buddisti, dai seguaci di
Zoroastro ai cultori dello sciamanesimo. Ciò dava luogo anche ad
interessanti fenomeni di sincretismo. Ancora oggi il turista
profano avverte che qui l’islam è ben diverso da quello
praticato nei paesi arabi.

Cos’avevano in comune tutte queste religioni? Probabilmente un
misticismo di fondo. I mistici di tutte le religioni sono
infatti molto simili.

Khiva, Bukara, Samarcanda, Shakrisabz (la città di Tamerlano).
Quante fotografie! Moschee e madrasse, madrasse e moschee. Ci
sono due architetture tipiche per le moschee, quelle come la
moschea azzurra di Istambul, cupola in mezzo, quattro minareti
agli angoli esterni, che si ispirano a Santa Sofia, e quelle che
seguono il modello di Medina, un grande chiostro con cortile al
centro. Qui sono così. Ci sono alcune eccezioni, come una
piccola moschea a Bukhara sorta sul sito di un antico tempio
zoroastriano, con un portale le cui colonne laterali ricordano
non a caso il dorso di due libri.

Altri monumenti sorprendono il turista curioso, come i mausolei
a San Daniele e a San Giobbe. Ancora sincretismo, l’antico
testamento che rimane in ambiente islamico. Oppure il piccolo
mausoleo di Ismail Samanid, piccola costruzione cubica, le cui
uniche decorazioni sono i giochi geometrici ottenuti con i
piccoli mattoni. Risultato: un gioiello cesellato. Anche lì
riferimenti al culto di Zoroastro, le dodici finestrelle che
rappresentano i dodici mesi. Non dimentichiamo che i seguaci di
Zoroastro, persiani, erano anche i più grandi astronomi
dell’antichità. In queste zone così ricche di gas naturale essi
erigevano templi là dove c’erano dei fuochi alimentati dal gas
sotterraneo. Avevano appunto il culto del fuoco. Ho scoperto che
anche gli arcangeli sono figure di “origine persiana” che sono
passati poi all’ebraismo e all’islam.

Ancora fotografie alle moschee estive, di solito all’interno di
corti, alte, con tre lati chiusi e uno aperto rivolto a nord, e
uno splendido soffitto di legno lavorato sostenuto da una
colonna centrale in legno. La lavorazione del legno è tipica di
Khiva, abbiamo visto e fotografato i laboratori dove i bambini
vanno ad imparare il mestiere, l’arte. Sorridono, si lasciano
fotografare. Ci mostrano gli oggetti che creano.

Anche la tessitura di tappeti di seta ospita giovani che
lavorano e ci sorridono. Tingono la seta con colori naturali in
grandi pentoloni, le matasse di filato sono poi appese ai muri
ad asciugare. Sembra di fare un salto nel tempo. I tappeti sono
bellissimi. Il laboratorio dove si producono gli strumenti
musicali si trova anch’esso, come i precedenti, in un’antica
madrassa, scuola coranica. Un musicista cieco comincia a suonare
e i pochi presenti improvvisano per noi uno spettacolo di danza
e musica, cui si aggiunge la nostra Zita.

Khiva era una città universitaria, con moltissime madrasse, dove
si insegnavano le arti liberali del Trivio (Grammatica,
dialettica e retorica) e del Quadrivio (Astronomia, matematica,
geografia e musica). Anche l’università di Bologna è cominciata
così.

A Bukhara ci sono davvero i tappeti. Belli con i tipici disegni
geometrici. Non costano molto. Troppo pochi i turisti in questa
città. Hanno forse paura? Paura di essere rapiti e venduti
proprio qui in questi androni, nel più ricco mercato di schiavi
fino al secolo scorso? O paura di essere rinchiusi nella
tremenda prigione della fortezza insieme a ratti e insetti
malefici, su un letto di putrido liquame? O di avere la testa
mozzata, proprio qui, davanti alla fortezza, per un capriccio
del crudele emiro, come capitò ai due ufficiali inglesi intorno
al 1840? O di essere aggrediti dal temibile “verme di Bukhara”,
micidiale parassita che viveva proprio in queste belle vasche in
cui si conservava l’acqua? Ma Bukhara è bellissima, nonostante
il suo sinistro passato. Bisogna vederla.

Abbiamo scattato fotografie nei cimiteri, luoghi sacri per
eccellenza, dove ci siamo soffermati a riflettere all’ombra di
alberi di giuggiole. Le ho anche comprate le giuggiole, al
grande mercato coperto di Tashkent, dove erano esposte in mezzo
a un trionfo di frutta secca, spezie, pesce e carni affumicate.
Somigliano un po’ ai datteri.

Gli ultimi giorni non passano in fretta, rotolano. Le emozioni e
le sensazioni si sommano. Clic, clic, sempre più fotografie da
scattare, quasi a fermare il tempo. Vedere, vedere tutto quello
che si può. La città di Tamerlano, da cui si intravedono le
montagne probabilmente del Pamir! Altro nome leggendario. Forse
ancora più importante di Tamerlano è stato il nipote, Ulug Beg,
grande astronomo, così illuminato che voleva insegnare
l’astronomia anche alle ragazze. Come tante persone illuminate
con idee in anticipo sui propri tempi fu ucciso proprio da chi
gli doveva tutto, il figlio. Ma, come tutti i grandi, egli
rivivrà nei suoi studi, nelle sue opere, nel suo osservatorio.


Proprio in quella città siamo ospiti a pranzo da amici di Zita.
Si festeggia un matrimonio. Avrei voluto fotografare gli sposi,
ma ho preferito di no. Entrambi infatti hanno un’aria
tristissima. I matrimoni sono ancora combinati, nascono tanti
bambini, ma perché sono così tristi? Nessuno sembra
accorgersene. La festa è grande, musica, danze e cibo, tanto
cibo ber tutti. Vediamo la sposa inchinarsi tre volte alla nonna
dello sposo, poi ritirarsi con altre donne. Lo sposo riparte non
si sa per dove su una luccicante mercedes nera. I festeggiamenti
dureranno ancora tre giorni. Chissà.

Via di nuovo. Chilometri e chilometri in mezzo a colline
desertiche, dorate dalla luce del tardo pomeriggio. Fermo!
diciamo all’autista. Come per incanto su una collinetta d’oro
appaiono tre figure in lontananza. Si avvicinano tre macchie di
colore. Tre ragazzine, su tre minuscoli asinelli. Eccole, cosa
possiamo offrire a queste tre sorridenti e variopinte creature?
Una bottiglia d’acqua, un dolce, una mela. Ci guardano, ci
sorridono, ecco che dal nulla spunta un’altra bambina, una
pastorella bionda, anche lei coloratissima. Sistra, sistra,
(sorella) mi dicono e ridono. Ecco, a queste tre graziose kazake
ho scattato la foto più bella del viaggio. Posso considerarmi
soddisfatta.

L’ultima tappa importante è proprio Samarcanda. I monumenti di
Samarcanda, tutti ricostruiti in seguito a distruzioni e
terremoti sono troppo grandi per la mia macchina fotografica.
Non ci stanno proprio. La piazza del Registan, con le sue
splendide ceramiche azzurre, è troppo imponente e maestosa per
entrare in un piccolo obiettivo. Dovrò comprare delle cartoline,
ma non sarà la stessa cosa. Comunque non è più la stessa cosa.
Immaginiamo il viaggiatore che arriva qui dopo un’estenuante
marcia nella steppa e d’un tratto si trova in questa splendida
piazza racchiusa fra edifici colossali, cupole azzurre e
altissimi minareti. Immaginiamolo che arriva proprio mentre si
stanno svolgendo le pubbliche esecuzioni sulla piazza del
Registan, tutta coperta di sabbia per assorbire il sangue dei
condannati… Siamo davvero in un luogo reale o siamo entrati
direttamente in una favola delle Mille e Una Notte? Spiccano
sulla moschea le immagini di due tigri… Non era poi così lontana
Samarcanda.
Cristina Cattaneo

GdS 30 I 2006 - www.gazzettadisondrio.it

Cristina Cattaneo
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