I racconti di Cristina: 12 - Il Kazzese e il Luogo Comune

Dal "kappa" al "posto pubblice"

C’è uno scrittore che amo molto, ha un nome tedesco, Kurt
Vonnegut, ma è americano. Durante la guerra, giovanissimo, si
trovò ad essere prigioniero a Dresda. I prigionieri erano
alloggiati, se così si può dire, in un mattatoio, che
miracolosamente non fu troppo danneggiato dal più terribile
bombardamento alleato in Europa. Kurt Vonnegut non riuscì a
parlare di questa esperienza se non dopo molti anni e dando al
suo racconto la forma di un romanzo fantascientifico. (Il
Mattatoio Numero Cinque o La Crociata dei Bambini, di Kurt
Vonnegut. Difficile trovarlo in italiano) E’ lo scrittore più
pacifista che io conosca. Ho letto altri suoi libri ed in tutti
c’è un’esperienza violenta che segna profondamente il
protagonista. Anche leggere i suoi libri è un’ esperienza
traumatica, che ti segna. Ora in uno di questi, non mi ricordo
quale e non posso nemmeno controllare perché li ho dati tutti a
figli o amici dei figli, fa dire al protagonista: “In questo
racconto non ci sarà turpiloquio per non distrarre in alcun modo
il lettore dall’essenzialità dei fatti”. Ora leggendo scritti e
racconti di giovani e meno giovani e ascoltandoli mi imbatto
sempre più spesso in questa interiezione, K, assolutamente non
necessaria al contesto, come uno spasmo doloroso di una persona
che non riesce a controllare il proprio tic, che lo subisce suo
malgrado.

Io ho la fortuna di insegnare e vivere alcune ore della mia
giornata vicino a parecchi ragazzi, dai quattordici ai diciotto
anni. Insegno inglese, quindi prima o poi mi imbatto nel
problema della traduzione. Non la traduzione dall’italiano
all’inglese, no, quello non è un problema e non si fa nemmeno
più per vari motivi tecnici che non sto ad elencare. Intendo la
traduzione dal pensiero, che è in forma gassosa, in parole, che
sono in forma solida, indipendentemente dalla lingua parlata.
Insegno a ragazzi che frequentano una scuola commerciale, non la
sezione A di un liceo classico, e dato che siamo nella Svizzera
italiana, molti di questi ragazzi a casa parlano dialetto o
addirittura altre lingue. La lingua franca a scuola è
l’italiano, anzi no, è il Kazzese. Il kazzese è composto al
massimo da una decina di parole, forse qualcuna di più che però
non è ancora arrivata alle mie orecchie. Devo elencare? K,
vaffanc.., non rompere le p.., sei un cog… Casino è ormai
espressione da educande. L’anno scorso una povera ragazza mi ha
raccontato tutti i suoi drammi – veri, purtroppo – in una
lettera. Il problema più grosso era con la mamma. “Mia mamma non
mi caga..” Dato che l’espressione era ripetuta parecchie volte
ho capito che voleva dire “mia mamma non mi guarda, non si cura
di me”.

Ieri una ragazza ha detto a un compagno: “smettila di fighettare”.
Io, che non posso ancora essere sua nonna, ma sua zia sì, avrei
detto: “non fare lo sciocco!” Confesso che quando sento dire
quello è un “figo”, mi sento parecchio a disagio, così come non
possiedo la parola “sfiga”, che molte mie coetanee usano con
estrema disinvoltura.

Ma torniamo all’inglese. All’inizio l’inglese è facile, i
ragazzi hanno fin dalle prime lezioni delle grosse
soddisfazioni. Anche perché conoscendo un po’ di “Fuckese”
(corrispondente angloamericano del Kazzese) che hanno raccolto
qui e là, da canzoni, graffiti, film e altre produzioni
intellettuali, si sentono quasi padroni della lingua. Non si
rendono conto che come dice Michael Swan, autorevolissimo autore
di grammatiche e altri libri d’inglese per stranieri, è
“pericolosissimo” per una persona non di lingua madre usare le
parole di quattro lettere, come sono chiamate in inglese le
parolacce. Lo straniero non ha infatti sempre la sensibilità dei
registri linguistici e rischia nella migliore delle ipotesi di
fare delle magnifiche gaffes, nella peggiore di essere
addirittura offensivo. Una mia vicina di casa svizzera tedesca,
anziana, tutta distinta e piuttosto bigotta, diceva spesso
Por... Màdocina! Un giorno le ho chiesto: “ Ma lo sai Heidi, che
è una bestemmia?” “Ma davvero?” risponde “Mio marito lo diceva
sempre quando s’incalzava”.

Ricordo che per imparare un po’ di parolacce in inglese, io ho
dovuto leggere parecchi libri, dal Giovane Holden ad un paio di
opere di un certo J.P. Doneleavy. Anche l’educazione sessuale
era così che ce la facevamo, leggendo, leggendo. Così come è
stato leggendo i libri di Perry Mason che ho imparato i termini
giuridici. Ma, come ho detto, le parolacce avevano una loro
funzione ben precisa nel contesto.

In un altro importante libro, “Chiamalo Sonno” (Call it Sleep)
di uno dei tanti bravissimi scrittori di nome Roth, Henry - è il
caso di dire un nome, una garanzia - in cui si racconta
dell’infanzia a Brooklyn di un immigrato ebreo dall’Europa
centrale nel periodo fra il ’20 e il ’30, delle difficoltà di
inserimento proprio legate a quella Babele di lingue, c’è un
affresco bellissmo di una strada di Brooklyn. Questi poveri
immigrati, spesso analfabeti o comunque poco acculturati,
avevano imparato per contaminazione il linguaggio colloquiale
del vicino di bottega. Quindi quando litigavano c’era lo
spazzino italiano che diceva you stinky Jew, il tedesco che
diceva ‘fanculo, il venditore ambulante armeno che diceva
Schweinkopf, il macellaio yiddish che diceva you lousy bestia, e
via di questo passo. (Consiglio di leggere comunque il libro
perché è un altro di quei racconti che non sei più quello di
prima dopo che l’hai letto. Per i linguisti è una splendida
dimostrazione di quanto doloroso sia il passaggio da una cultura
all’altra, da una lingua all’altra soprattutto per coloro che
non hanno gli strumenti per imparare un nuovo idioma. Se
qualcuno è interessato a questo argomento ma vuole anche
rilassarsi per alcuni minuti, consiglio di ascoltare la canzone
“Yes, we have no bananas today”, dello stesso periodo e
ambiente. Un piccolo gioiello. Io ne ho trovata una versione
cantata da Lou Prima.)

A proposito di contestualizzazione. Qualche anno fa mi sono
concessa una vacanza terapeutica a Ischia. Bellissimo, mare,
pizza, fanghi. Un giorno, me ne stravo sdraiata mentre due donne
mi spalmavano addosso cazzuolate di fango caldo grigio. Le
signore si raccontavano le loro storie di dolori quotidiani,
lutti, malattie, abbandoni, povertà. Non penso che gettare tutto
il giorno cazzuolate di fango caldo grigio addosso a sofferenti
di reumatismi fosse il sogno della loro vita. Mi rimase impresso
come a commento di una storia più tragica di altre una di queste
donne disse, col suo toccante accento napoletano, “ eh, sì, sono
caazzi amaari!” Magnifico.

Tornando ai miei ragazzi. Il problema è proprio quello dei
registri. Non importa se scappa la parolaccia quando uno è
arrabbiato o capita l’incidente, quello succede. Ho sentito
persino il mio controllatissimo marito lasciarsi sfuggire un
richiamo al K di Galeazzo una volta che si era data una
martellata su un dito. Il problema è che i ragazzi ti chiedono
non proprio gentilmente, ma normalmente, cosa K vuoi?, dove K
andiamo?, come K si dice in inglese?, cosa K dobbiamo fare?
Qualche volta i ragazzi sono anche Kreativi. Un giovane
milanista dopo una skonfitta della skuadra del kuore un giorno
skrisse sul suo Kuaderno: Adesso io mi Skazzo!

Non importa se l’interlocutore è il compagno, la vecchietta
sull’autobus o il direttore. Però alcuni di questi ragazzi alla
fine di quest’anno dovranno presentarsi per un colloquio per un
posto di lavoro. Adesso non è più così facile trovar lavoro,
nemmeno nella ricca Svizzera.

Ora io chiedo è proprio necessario?

Don Milani, sempre più dimenticato, ha scritto che la differenza
tra il povero e il ricco non sta tanto nei soldi che si hanno ma
nel numero di parole che si conoscono. Essendo un’inguaribile
ottimista spero ancora che sia vero.

Certo è vero che quando dico ai miei ragazzi che “i giovani non
sanno abbastanza bene l’italiano” è un luogo comune, loro mi
guardano stupiti. Cosa K è un luogo comune? Ma un posto
pubblico, dove tutti possono andare, come una toilette o un
ristorante, mi hanno detto.

Cristina
Cattaneo

GdS 20 XI 2005 - www.gazzettadisondrio.it

Cristina Cattaneo
Società