Non tutte le prigioni hanno le sbarre
Un saggio esemplare di cinema.
THE TULSE LUPER SUITCASES(Evento speciale a Venezia 60, Le
valigie di Tulse Luper di Peter Greenaway) girato in alta
definizione è un saggio dimostrativo di cinema postmoderno, è
un’opera impegnativa, frutto di quella concezione, più volte
esposta dal regista del film che, come un quadro, sia da
rivedere. Infatti, da un lato la profonda correlazione che
presenta con altri suoi lavori ne fanno una sorta di ipertesto,
una raccolta apprezzabile nelle sue interconnessioni e allusioni
continue, dall’altra parte l’en plein di informazioni e rimandi
di ogni tipo di cui è tessuto il film è tale da porre la
pellicola come una cosa difficile e destinata a un possibile
insuccesso. Traspare, in questa complessità ricercata, voluta e
un po’ suicida, il coraggio dell’autore e dei produttori per un
progetto ambizioso ed economicamente impegnativo che non concede
ammiccamenti, strizzate d’occhio, facile linearità; persino le
parti più scandalose, morbose, invitanti, si confondono con le
altre, spiazzando di continuo lo spettatore. Questo lo si nota
anche dalle recensioni che i quotidiani hanno dedicato al film:
nessuno che abbia preso posizione. Il rischio di sottovalutare
un’opera importante o, di contro, di legittimare la colossale
bufala fa recedere anche le firme più prestigiose che si
limitano a una semplice descrizione di ciò che hanno visto senza
sbilanciarsi in giudizi di valore. Eppure sembra importante
sottolineare, adesso, una volta per tutte, che Greenaway, segue
un percorso unico, di valida rottura di un certo modo di
intendere il cinema, imbavagliato dalle sue formule, costretto
nelle regole tacitamente riconosciute come intangibili. Lo
conferma anche Tulse Luper che non tutte le prigioni sono
fisiche. Per Greenaway anche il cinema vive in un metaforico
carcere di regole convenzionali non scritte e pesanti come
sbarre d’acciaio. E, non cosa da poco, fa bene sapere che da
qualche parte nel mondo c'è ancora qualcuno che ha voglia,
tempo, possibilità (soprattutto economiche) per togliere al
cinema il bavaglio delle regole e sperimentare il linguaggio,
negli ultimi anni troppo addormentato per destare ancora
interesse, brivido, emozione.
La trama del film
Tulse Luper, scrittore, progettista, biologo e forse spia, nel
corso di oltre sessant’anni – dal 1928 al 1989 – segue un
tortuoso periplo attraverso le prigioni di mezzo mondo, dal
deserto di Moab nello Utah alle carceri di Torino, Budapest,
Mosca, Kyoto, Shangai, fino al palazzo di Xanadu del Kubla Kahn
in Manciuria. Il sottotitolo di questo gigantesco ciclo recita:
"A personal History of Uranium". 92 sono le valigie di Tulse
Luper come 92 è il numero atomico dell’uranio. Il 1928 è l’anno
in cui l’uranio fu scoperto e il 1989 l’anno della caduta del
muro di Berlino e della fine della guerra fredda, che sulla
concorrenzialità degli arsenali atomici aveva retto i propri
equilibri. L’episodio presentato a Venezia è ambientato nella
prigione della stazione centrale di Anversa nel 1938, sullo
sfondo di un regime dittatoriale (quello belga, nella finzione
del film). L’esposizione del contenuto delle valigie di Tulse
Luper innesca un folle susseguirsi di situazioni. Ci sono
studiosi eccelsi che disputano su Kafka e Beckett in teatri
vuoti, affettati soldati- dentisti che all’occasione divengono
foschi seduttori, ragazze dalla carnalità travolgente, un
capostazione fascista di nome Van Hoyten detto "Volpe rossa" che
evoca il sadismo senza limiti del Comandante kafkiano di Nella
colonia penale, pestaggi di inaudita ferocia e schizzi di sangue
sui muri, balli estatici sotto la pioggia, una speaker che
elenca stazioni immaginarie dai nomi improbabili e eccitanti in
un monologo interminabile che si trasforma in una lagna erotica…
E alla fine compare la scritta "To be continued…", a sigillo di
una parodia terribilmente seria dei sequel, prequel e
controsequel del cinema hollywoodiano.
Tulse Luper conduce la sua vita rinchiuso in 16 diverse prigioni
"per crimini reali e immaginari" - lussuria, spionaggio, furto,
assassinio, blasfemia, ambizione politica, falsa testimonianza
-. Da ogni carcere riesce idealmente a uscire attraverso 92
valigie da lui disseminate per il mondo. E così trasforma la
condizione di prigionia in arte. Il ritrovamento delle valigie -
in Colorado, Manciuria, a Torino, Budapest, Mosca, Shangai,
Kyoto, e "nei posti più insoliti e carismatici del mondo" - e
l'interpretazione degli oggetti in esse contenuti (http://petergreenaway.co.uk/suitcases.htm)
conducono lo spettatore attraverso 60 anni di storia, dalla
scoperta dell'uranio nel 1928 alla caduta del muro di Berlino
nel 1989. Molte delle scene del 2° episodio sono state girate in
Italia, soprattutto a Torino (i fascisti rinchiudono Tulse Luper
nella Mole Antonelliana), e in altre belle città
italiane(complice la grossa fetta di budget il 30%, il più alto
contributo tra i co-produttori, finanziata dalla Gam di Gherardo
Pagliei?).
DOMANDE & RISPOSTE
-
Che cosa è per lei la valigia?
E’ una metafora - letterale e culturale - della fine del XX
secolo. Come ben sappiamo, la popolazione mondiale è mobile in
Europa centrale, America, Russia, Cina e Africa per diverse
ragioni e ognuno è una personalità eclettica che raccoglie
informazioni nel mondo nell'età dell'informazione.
Le prigioni sono tante nel suo film. Hanno anche un significato
metaforico?
Forse siamo tutti prigionieri di qualcosa: l'amore, i soldi, il
sesso, la fama, le credenze religiose, il potere, l'ambizione,
l'avidità, i debiti, un lavoro, un giardino, un cane, gli orari
dei treni, un'ipoteca o anche solo il conto del droghiere. Di
conseguenza molte prigioni non hanno finestre con le sbarre o
una porta chiusa a chiave.
-
Perché l’uranio ha un ruolo centrale nel suo film?
Sono nato nel 1942, la bomba di Hiroshima e Nagasaki sarebbe
stata lanciata di lì a poco, e la mia stessa infanzia è corsa
parallela alla guerra fredda: potrei definirmi un uranium baby,
un bambino dell’era dell’uranio, elemento la cui storia parte
dagli anni 20, quando venne scoperto nel deserto del Colorado,
per arrivare al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino.
L’uranio ha segnato una sorta di polarizzazione tra mondo
orientale e occidentale ed è stato centrale nella storia del
ventesimo secolo.
-
I suoi film sono accolti sempre o con tanto entusiasmo o con
noiosa indifferenza: come mai?
Credo che quello che abbiamo visto sinora sia stato un cinema
noioso e io mi pongo proprio contro questo modo di concepirlo.
Ciò non toglie che ci siano ancora molti nostalgici che non sono
ancora pronti ad accettare un nuovo vocabolario e un nuovo
linguaggio e questo può essere uno dei tanti motivi per i quali
costoro si pongono nei confronti dei miei film in questi
termini. Il compositore americano John Cage diceva: ogni
qualvolta introduci in una qualsiasi disciplina artistica il 20%
di innovazione, fai attenzione!, perdi l’80% del tuo pubblico
che, se sei fortunato, potrai recuperare gradualmente in 15
anni. Personalmente non ho alcuna intenzione di fermarmi e di
stare a guardare o ad aspettare: andrò avanti nella mia ricerca
anche perché l’evoluzione è talmente veloce ed è talmente forte
la voglia di sperimentare che probabilmente tra 10 anni questo
mio ultimo film potrebbe essere completamente superato.
Nei suoi lavori abbondano i riferimenti alla tradizione
pittorica. Quali sono gli ultimi? Forse i colori e le luci
vermeeriane della prigione che ospita Luper nel deserto dello
Utah?
Per quelle scene c’è un lavoro particolare sulla luce che viene
rivolta letteralmente contro la parete. Io mi sono sempre
rifatto alla pittura e la mia ambizione non era quella di
diventare un regista quanto piuttosto un pittore: la pittura è
l’espressione assoluta del virtuosismo artistico. Ho lavorato
molto per diventare un pittore e anche se ho poi imboccato una
strada diversa, creando le mie immagini sullo schermo e non
sulla carta, la pittura rimane il centro del mio interesse e
delle mie azioni ed è per me un potente punto di riferimento. Ho
molto a cuore in particolare due pittori che considero in un
certo senso dei precineasti: uno è Vermeer e l’altro è
Caravaggio. Il modo in cui essi hanno catturato su tela la luce
può essere visto come un inizio del cinema: sembra quasi che le
loro immagini siano state ottenute con una sorta di primitiva
camera. Vermeer e Caravaggio furono anche, in tal senso, due
supremi maestri e due innovatori.
La scheda del film.
Titolo originale The Tulse Luper Suitcase - Part 1
Regia Peter Greenaway
Sceneggiatura Peter Greenaway
Interpreti JJ. Field, Raymond Barry, Tom Bower, Caroline
Dhavernas
Durata 125'
Montaggio Elmer Leupen
Musiche Borut Krzisnik
Scenografia Marton Agh
Fotografia Reinier Van Brummelen
Paese Gran
Bretagna/Italia/Lussemburgo/Olanda/Russia/Spagna/Ungheria
Produzione Abs Production, Delux Productions, Focusfilm Kft, Gam
Films, Kasander
Distribuzione Istituto luce e Gam Film.
Uscita: gennaio 2004
Il regista
Greenway Peter (Newport, Galles 1942) regista britannico,
pittore e illustratore, tecnico di montaggio, regista
d'avanguardia (Cortometraggi strutturalisti), esordisce nel
lungometraggio con A walk through H (1978), con il documentario
Act Of God, e The Falls, biografia di 92 persone il cui cognome
comincia per "Falls", con l’ intento di codificare il caso, ma
si rivela nel 1983 con il successivo The Draughtman's Contract,
film feroce e grottesco sui rapporti fra arte e potere. che gli
apre le porte del successo proprio a Venezia.
Filmografia
- The Draughtsman's Contract (1982, I misteri del giardino di
Compton House, premiato alla Mostra di Venezia)
- A Zed and Two Noughts (1985, (Una zeta e due zeri) Lo zoo di
Venere)
- The Belly of an Architect (1987, Il ventre dell'architetto)
- Drowning by Numbers (1988, Giochi nell'acqua)
- The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover (1989, Il cuoco, il
ladro, sua moglie e l'amante)
- Prospero's Books (1991, L'ultima tempesta, da La tempesta di
Shakespeare del 1611-12)
- The Baby of Mâcon (1993)
- The Pillow Book (1996, I racconti del cuscino)
- 8½ Women (1999, 8 donne e ½).
- THE TULSE LUPER SUITCASES(Evento speciale a Venezia 60, Le
valigie di Tulse Luper ).
Curiosità
I numeri sono la passione del regista: sottolineano ogni suo
lavoro. Ci sono i dodici disegni che scandiscono la progressione
di The Draughtsman’s Contract(1982). C’è quella sorta di tavola
numerica su cui si dispongono i fatti di Drowning by Numbers
(1988), organizzandosi in regolarità e ritorni periodici degli
elementi. E i pranzi che cadenzano The Cook, the Thief, His Wife
and Her Lover (1989. La concezione "numerica" della narrazione,
della ripetizione, dell’elencazione, si insinuano spesso nel
cuore dei meccanismi del racconto.
E nel suo ultimo film, novantadue sono le valigie appartenenti a
Tulse Luper, come novantadue i personaggi totali, novantadue
anche gli eventi maggiori della storia. Questo perché Greenaway
ha seguito le tracce dell’evoluzione dell’uranio negli ultimi
ottanta anni che ha avuto un percorso politico e psicologico
parallelo alla sua vita, il cui numero atomico nella tavola
periodica degli elementi è il novantadue.
Antonio De Falco
GdS 10 II 2004 - www.gazzettadisondrio.it