I limiti della nostra "tolleranza" verso l'Altro

di Enrico Galoppini

                    



In seguito alla situazione internazionale determinatasi a
partire dai fatti dell'11 settembre, da parte di coloro che
sostengono l'idea di uno "scontro di civiltà" - e che perciò
ritengono che la "guerra al terrorismo" andrebbe condotta anche
per profonde ragioni di carattere culturale - abbiamo ascoltato
nel corso di un anno argomentazioni che cercano una
giustificazione nel richiamo alle ragioni dell'etica e della
civiltà. In sintesi, per chi privilegia un discorso di questo
tipo, un principio di "tolleranza" sarebbe inscritto nei codici
di pensiero e di comportamento sociale dei "popoli occidentali",
contrapposti ad un resto dell'umanità ancora immerso - in vario
grado - nell'oscurità dell'"intolleranza".


Ma che cos'è oggi la "tolleranza" per i più? E' fare quello che
si vuole fintantoché non si nuoce agli altri? Questo sarebbe già
qualcosa. Oppure essa è diventata sinonimo d'indifferenza
generalizzata, per cui non siamo più in grado di raccapezzarci
sul valore semantico di un termine attorno al quale ruotano
interi dibattiti sull'idea dell'Altro? Non sarà che "si tollera"
finché l'Altro se ne sta buono, docile servitore del ruolo che
un automatismo di cui abbiamo perso il controllo (la
megamacchina descritta da Serge Latouche) decide di volta in
volta di assegnargli?


All'Altro si offrono numerose 'opzioni esistenziali': bisognoso
di "aiuti umanitari" in attesa della promozione a "consumatore";
specie in estinzione che ci dà l'opportunità, autoflagellandoci
per il male che gli abbiamo fatto, di coltivare l'odio di noi
stessi; ammiratore della nostra "civiltà" e impaziente di
conformarvisi; ieri guerrigliero romantico, oggi - quando armi
in pugno continua a reclamare dignità - "terrorista";
"combattente per la libertà" o "fanatico religioso" in guerre
sempre condotte per interessi che addirittura danneggiano la
gente della quale egli condivide origini e cultura; lavoratore
al nero non sindacalizzato e sottopagato, ma insidioso
concorrente economico di pasciuti 'disoccupati', oppure
spacciatore e delinquente, quindi capro espiatorio di quanto mai
utili sentimenti xenofobi.


E' evidente che in questo modo si prendono i classici due
piccioni con una fava, venendosi a trovare il Nemico della
"guerra al terrorismo" sia all'esterno che in casa. Ma in fondo,
l'importante è che l'Altro sia ascrivibile nel novero dei
"nostri": battendosi per una causa "giusta", servendoci
economicamente, politicamente, moralmente, ma se decide di
prendere in mano il suo destino l'Occidente "tollerante" fa di
tutto perché lo scandalo cessi.

Uscire da una visione evoluzionista dei rapporti tra culture


Detto ciò, va aggiunto che le teste d'uovo che soffiano sul
fuoco degli attriti interculturali hanno deciso di attribuire ai
popoli arabi e islamici la palma d'oro degli "intolleranti". A
chi rifiuta tale schema si presenta perciò il problema
dell'elaborazione di una robusta alternativa, senza concessioni
ad alcun buonismo di maniera, che è invece la faccia
rispettabile della "guerra di civiltà", la sua versione
digeribile per gli stomaci meno bellicosi.


Difatti, impostare un discorso sulla distensione dei rapporti
con il mondo arabo-islamico sulla logica del dono e del
contraccambio (tipico è l'esempio della logica aristotelica
giuntaci attraverso gli arabi contro, a distanza di secoli, la
laicità delle Istituzioni), a nostro avviso discende da un
intento certo apprezzabile quanto generoso, eppur tuttavia
equivoco, perché non solo essa avalla l'idea che la fiaccola
della "Civiltà" qualcuno in mano l'abbia sempre avuta (e
stavolta, manco a farlo apposta, ce l'avremmo noi), ma relega il
mondo arabo-islamico al ruolo di comprimario in un discorso
evoluzionista o 'sviluppista' al cui termine vi sarebbe non
tanto lo status quo nei rapporti tra Nazioni - che l'Altro ci fa
sapere a chiare lettere di non gradire - quanto una sorta di
utopia democratica planetaria perennemente a venire condivisa
sia dai tecnocrati 'giottini' che dalla "sinistra" [1], per il
cui perseguimento - in caso di pervicace 'recalcitranza' - si
scatenano adeguate campagne profilattiche a base di Desert storm,
Restore hope, Enduring freedom, con la copertura moralistica
della lotta all'"arretratezza socio-culturale" (condizione delle
donne, lavoro minorile, istruzione eccetera) che garantisce il
necessario consenso.


Il discorso verrebbe impostato più articolatamente se si
proponesse invece l'immagine di una secolare, regolare osmosi
tra il mondo euro-cristiano e quello arabo-islamico, dalla quale
non è realistico escludere alcun elemento della storia dei
rapporti tra questi due universi, onde non cadere nei facili
irenismi di cui abbonda il linguaggio dei politici, compresi i
più aperti al dialogo, e per togliere argomenti a chi - stimando
poco rilevante il ruolo degli interscambi - cerca di rievocare i
fasti di Lepanto affinché essi si rinnovino nel XXI secolo:
commerci, scienze, filosofia, religione, migrazioni eccetera, ma
anche guerre e schiavitù hanno certo contribuito a renderci
familiari i popoli delle sponde meridionale ed orientale del
Mediterraneo e a forgiare l'idea storica di un Mediterraneo che
travalica i meri confini geografici dei paesi che si affacciano
su quel mare, ed è per questa idea che, se si vuole costruire
un'alternativa all'omologazione del McWorld e delle "guerre
umanitarie", vale la pena di spendere qualche energia
intellettuale; anche perché se l'Altro viene percepito come
familiarmente vicino, difficilmente si digerisce a cuor leggero
l'idea che lo stiano indottrinando a suon di bombe.

La "cultura della tolleranza" tollera l'oppressione e
l'ingiustizia



In quest'anno da poco trascorso dall'11 settembre 2001 si è
sentito parlare molto del pericolo rappresentato da una chiusura
al dialogo, da una difesa integralista di posizioni dottrinali o
ideologiche da parte dei popoli musulmani.

Tutto vero, ma questa non è forse la posizione dell'AngloAmerica
e del suo alleato Israele nel loro porsi rispetto al resto dei
popoli della Terra (si pensi, prima dell'emergere dell'attuale
crisi, a come si concluse la Conferenza sul razzismo di Durban)?
E non è nella supina ed acritica accettazione della loro
intransigenza da parte delle classi dirigenti europee e
nell'esasperazione dei popoli musulmani di fronte alle continue
umiliazioni della politica del "due pesi e due misure", che va
ravvisato il maggior ostacolo all'instaurarsi di un serio
discorso sulla "tolleranza" reciproca tra Europa e Islam?


Appare perciò evidente che non vi sarà mai pace nel Mediterraneo
fintantoché non si addiverrà ad una soluzione della cosiddetta
"questione palestinese". La quale non potrà mai essere una
"spartizione", ma al contrario dovrà postulare l'indivisibilità
della Terra Santa e di Gerusalemme. E' del resto evidente che
sia da parte israeliana che angloamericana, da quando esiste
l'idea di voler costruire lo "Stato degli ebrei", non vi sia mai
stata alcuna volontà di mettere fine a questo problema, vera
fucina di destabilizzazione e discordia in tutta l'area
mediterranea.


Tutto questo c'entra eccome con la "tolleranza".

Quella tra
differenti popoli e culture non nasce per decreto, ma è figlia
della dimostrazione, nei fatti, di una sincera volontà di capire
le ragioni dell'Altro. Quando invece si predica la "tolleranza"
ma si sta con chi teorizza e pratica l'apartheid e si sposa la
causa di chi minaccia "o si è con noi o contro di noi" non si ha
alcun titolo per lamentarsi dell'"intolleranza" vera o presunta
dell'Altro.
Enrico Galoppini


GdS 18 XI 2002 -
www.gazzettadisondrio.it

Enrico Galoppini
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