Jihad negletto, musulmano perfetto



In Giordania è polemica sui libri di testo e i programmi di
studio: così come sono «non vanno bene», sostengono alcuni che
detengono il potere di modificarli. Ma in che cosa «non vanno
bene»? E a chi «non vanno bene»?


Osservando il teatro di questa polemica con gli occhiali
dell’esotismo - terra di deserti e beduini conosciuta dai più
solo per la bellissima Petra - e del «pregiudizio progressista»,
si sarebbe indotti a pensare che i libri di testo e i programmi
di studio giordani «non vanno bene» perché non tengono conto
degli ultimi sviluppi nei settori della fisica e della
tecnologia, o perché non forniscono agli studenti gli
aggiornamenti sul mondo dell’informatica che essi desiderano.
Oppure perché nelle scuole giordane non si discute né di
«diritti umani» né di «democrazia» (di cui l’Occidente
americanocentrico si presenta come l’unico depositario).


Invece il «problema» è un altro. Se si trattasse di dedicare -
come del resto sta avvenendo - maggiore attenzione alle materie
e ai temi summenzionati, il consenso sarebbe pressoché unanime
anche tra gli stessi giordani. La polemica in atto tra il
Ministero dell’educazione e dell’insegnamento giordano e una
parte dei rappresentanti al Parlamento verte piuttosto sul
delicato tema della cultura nazionale - di cui quella islamica è
parte integrante - e perciò della storia del Paese e dell’intera
Nazione araba e islamica. La scoperta fatta da alcuni
interessati «esperti» locali è che così come vengono divulgate,
alcune materie (Educazione nazionale, Educazione islamica,
Storia, Lingua araba e Lingua inglese) inducono gli studenti
giordani ad ammettere l’uso della violenza politica. Si tratta
di una «violenza» di un tipo particolare però: quella che si
estrinseca nella resistenza all’occupazione israeliana della
Palestina e al nuovo colonialismo statunitense in tutta l’area
mediorientale.


Detto questo, anche la risposta al secondo quesito iniziale è
data. A premere per modifiche sostanziali nei libri di testo e
nei programmi di studio giordani sono gli Stati Uniti ed
Israele. E il governo giordano è tenuto a recepire i «consigli».
Che il Ministro dell’Educazione, Khaled Tuqan, replichi alle
accuse provenienti da esponenti politici di differente
orientamento negando ogni pressione esterna e rifugiandosi in
«richieste d’aiuto» rivolte dalla Giordania all’Unesco già tre
anni or sono, fa parte quindi di un (mal)costume al quale i
politici italiani agli ordini di Washington e Tel Aviv ci
sottopongono da decenni.


Dopo l’11 settembre - specie di Big Bang prima del quale nulla
esisteva, una sorta di Fukuyama al contrario - il «problema» è
l’educazione islamica, che sarebbe troppo presente nelle scuole
dei Paesi arabi e a maggioranza musulmana. Di qui, ribaltando la
realtà, i fautori delle «riforme» sostengono che la resistenza
palestinese (che per loro indubbiamente è un «male»), o meglio
lo spirito che la sostiene (e lo stesso dicasi per quella
irachena), esiste a causa dell’indottrinamento religioso
islamico. Per i «riformatori» non esistono né «occupazione» né
«colonialismo». E se l’educazione islamica nelle scuole sarebbe
il brodo di coltura dell’11 settembre, a nessuno di questi acuti
e disinteressati «osservatori» che sentenziano su giornali
cosiddetti «autorevoli» è mai balenata l’idea che all’origine
della violenza praticata dagli Stati Uniti e dall’Israele
sionista possano esservi l’educazione religiosa protestante, da
un lato, e quella talmudica, dall’altro (v. l’appendice sui
palestinesi nei libri di testo israeliani). Non dico che
effettivamente vi siano sempre tali necessarie relazioni, ma se
un ragionamento lo si ritiene plausibile nell’un caso non si
capisce perché non lo si applica in altri analoghi. Un
giornalista che si azzardasse a sottoporre un rabbino alle
forche caudine delle domande di rito («Ma lei giudica musulmani
gli attentatori suicidi?»; «Lei, musulmano, si dissocia o no dal
terrorismo palestinese?») imposte preliminarmente agli ospiti
musulmani dei salotti televisivi si vedrebbe inserito d’ufficio
nell’ostracizzata categoria degli «antisemiti». Un ragionamento
che dunque dovrebbe valere per ogni situazione (ad esempio, se
l’IRA nordirlandese fa esplodere un pub frequentato da unionisti
protestanti nessuno dice che il problema sta nell’educazione
cattolica dei membri dell’IRA) viene così brandito come un
machete solo quando la violenza la esercitano i musulmani (e
comunque non tutti, perché se il golpista pakistano Musharraf o
gli Al Sabah del Kuwait ricorrono alle ‘maniere forti’ lo fanno
per comprensibile «ragion di Stato»).


Ma diamo la parola ai giordani che rigettano la teoria secondo
la quale l’educazione islamica sforna «terroristi». ‘Adnan
Hassuna, Presidente della Commissione educazione del Parlamento
giordano, sostiene che “le riforme mirano a ripulire i programmi
di studio dai concetti di jihad e di resistenza all’occupazione,
in qualsiasi forma si manifestino”. L’obiettivo, secondo il
parlamentare giordano intervistato da Aljazeera.net[1], è la
creazione di una generazione che non crede nel dovere del jihad
e della resistenza all’occupazione. Se poi si aggiunge che i
relativi provvedimenti legislativi non stanno seguendo l’iter
parlamentare si capisce che si tratta di un vero golpe imposto
all’intero popolo giordano (la cui maggioranza è d’origine
palestinese…) da una minoranza che prende ordini dall’esterno.
Anche stavolta i paragoni con il Bel Paese sorgono spontanei, e
non si venga a dire che la Giordania essendo una «creazione
degli inglesi» ciò che vi accade, per quanto grave ed umiliante
per il suo popolo possa sembrare, è in fin dei conti scontato…


L’ex Ministro dell’educazione, Ishaq al-Farhan, concorda con
‘Adnan Hassuna sul fatto che le suddette cinque materie non
abbisognano di aggiustamenti, “poiché, scaturendo dalla
specificità della nostra realtà locale, araba e islamica, esse
sono al passo dell’epoca che viviamo e si distinguono per
moderazione e salvaguardia dei valori nazionali e islamici”. Ma
il nodo della questione, come ha ricordato lo stesso al-Farhan,
è che “la questione dei metodi di educazione – di cui si vuole
il cambiamento o lo sviluppo – è uno dei termini della sovranità
su cui non è ammessa rinuncia alcuna”.


Il segretario del Partito democratico giordano dell’Unità
(opposizione di sinistra), Sa‘id Dhiyab, ha spiegato bene che
queste «riforme» sono il frutto delle pressioni americane sulla
Giordania e sugli altri Paesi arabi[2] nel quadro del ridisegno
dell’area e della realizzazione del dominio culturale sugli
arabi, aggiungendo che queste riforme arrivano in una Giordania
che firmando «accordi di pace» con Israele spinge le giovani
generazioni ad accettarli.


Queste «riforme», insomma, in Giordania non piacciono quasi a
nessuno. Se una maggior attenzione agli sviluppi tecnologici ed
un dibattito sui temi della democrazia e dei diritti umani
trovano d’accordo alcuni come Nizam ‘Assaf, Direttore del Centro
di Amman per lo studio dei Diritti umani, lo stesso ‘Assaf non
può dirsi d’accordo nella demonizzazione della “resistenza, che
Usa e Israele considerano terrorismo, mentre noi la consideriamo
un diritto legittimo necessario per la liberazione delle patrie
e dei popoli”. Una presa di posizione, questa, che inutilmente
cercheremmo tra gli attivisti per i diritti umani di casa
nostra, i quali vestono i panni ipocriti del «né né».


A questo punto qualche considerazione di carattere generale
s’impone. Che il fine ultimo della scuola moderna risieda, in
ultima analisi, nella creazione di un essere informato da un
corredo intellettuale atto a renderlo quel che si dice un
‘cittadino modello’ nell’interesse dell’ordinamento vigente, lo
aveva già spiegato Ananda K. Coomaraswamy in acute ed impietose
considerazioni svolte in L’illusione dell’alfabetismo (scritto
nel 1944 e tradotto in italiano nella raccolta Sapienza
orientale e cultura occidentale, Milano 1975). La scuola
moderna, quella dell’«istruzione obbligatoria di massa», è
quanto di più lontano da quel che una scuola dovrebbe essere: un
luogo in cui in ogni persona s’incoraggia l’attitudine a
sviluppare capacità critiche, in cui essa viene avviata alla
«coltivazione di sé»; per non parlare dello «studio», da
originaria applicazione interiore alla fonte della Conoscenza
ridotto al mero aspetto quantitativo dell’erudizione, delle
nozioni da immagazzinare in un cervello ridotto a computer, nel
quale le capacità di sintesi e di connessione con la sfera
dell’Essere finiscono per atrofizzarsi sino al punto di non
ritorno.


La concezione dell’uomo che i propugnatori della scuola moderna
hanno in vista, un ibrido tra la foca da circo e il cane di
Pavlov, non si è certo fermata alla distruzione del vero
significato dello studio, ed una volta minatane la funzione
primaria va accanendosi anche contro tutto ciò che rende l’uomo
integrato in una comunità vivente. Che, all’occorrenza, va
difesa con le unghie e coi denti. Questo, dal Marocco alle
Filippine, sono in molti a dar segno di averlo capito.


[1] Munir ‘Atiq, Polemica giordana sulla riforma dei metodi
d’insegnamento, Aljazeera.net, 3 gennaio 2004
(http://www.aljazeera.net/news/arabic/2004/1/1-3-25.htm).


[2] Per il caso kuwaitiano cfr. Ahmad Muhammad al-Fahd, Cambiate
il programma di studio di Bin Laden!, Al-Watan (Kuwait), 5
gennaio 2003
(http://www.aljazira.it/03/01/20/programmi_scuola.htm).

Appendice in


http://www.arabia.com/news/article/english/0,11827,186070,00.html


Questo articolo può essere riprodotto liberamente, su carta o in
rete, a condizione che ne venga indicata la fonte ("Italicum",
gen.-feb. 2004) e che si pubblichi anche questa precisazione.

Enrico Galoppini


GdS 20 II 2004 - www.gazzettadisondrio.it

Enrico Galoppini
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