Ancora ponti e frontiere? Ateneo Veneto, 21 ottobre 2004
"Fino alla fine del Settecento, convivevano pacificamente,
fianco a fianco, i lombardi di Bergamo, di Brescia e delle valli
montane, i tedeschi degli altipiani, i veneti, i friulani, gli
slavi del Natisone e dell'interno dell'Istria, gli istriani
della costa, i dalmati, sia quelli latini, di origine e di
elezione, delle città e delle isole, sia quelli di lingua slava
della costa e dell'interno, gli albanesi, i greci delle isole
Ionie e di varie terre costiere. La convivenza era resa
possibile da un dominio benevolo , rispettoso delle tradizioni e
dei costumi di tutti , intento a perseguire un ideale di
giustizia che, certo non sempre realizzato, restava come guida e
lume nella condotta dei governanti e come sostanza della fiducia
del rispetto"
(Marino Zorzi, Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia).
Poi, tra questi luoghi che costituiscono la geografia elementare
dell'essere nel mondo, si sono costruiti ponti e frontiere che
sono diventati poli primari del confronto dialogico e
dell'integrazione così come del conflitto e della chiusura.
Uno che ha vissuto dolorosamente al di qua e al di là della
frontiera è Predrag Matvejevic,
professore ordinario di Slavistica all'Università La Sapienza di
Roma che ha doppia cittadinanza: croata ed italiana.
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Prof., ha senso parlare ancora di frontiera oggi che l’Europa si
è allargata dall’Atlantico agli Urali?
La questione delle frontiere è antica e sempre nuova. Riemerge
in un momento decisivo della nostra storia europea, quando dieci
Paesi provenienti dall'altra Europa diventano i nuovi membri
dell'Unione. Queste frontiere devono spostarsi e nello stesso
tempo rimanere uguali a se stesse, sottoposte contemporaneamente
a un controllo costante e rigoroso, per respingere coloro la cui
presenza non è desiderata né benvenuta.
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Non le sembra un paradosso che individui fino ad ieri visti come
“stranieri” oggi possano circolare tranquillamente in quegli
stessi Paesi che li respingevano?
Le persone che hanno vissuto, ancora ieri, tra frontiere
bloccate, che dovevano superare con artifici e a volte pagando
il prezzo della umiliazione, oggi si vedono chiamate a diventare
i guardiani attenti di quelle barriere e a sorvegliarle
rigorosamente. C'è un contraddizione in questo ruolo. Non è
difficile immaginare un polacco che impedisce a un russo o a un
ucraino di passare attraverso il suo territorio. Ma come si
comporterà un ungherese quando si presentasse davanti a lui un
altro cittadino con la stessa nazionalità, che provenga dalla
minoranza ungherese della Transilvania romena? O uno sloveno
che, a una ventina di chilometri da Zagabria, debba fermare un
croato con il quale in passato aveva condiviso una sorte comune
nella ex Jugoslavia?
I vecchi particolarismi potrebbero facilmente ridisegnare le
frontiere interne dell'Europa incoraggiati da ogni tipo di
nazionalismo, di regionalismo, di localismo, e da altre tendenze
simili che si manifestano con arroganza e alle quali ogni idea
di convergenza o di sintesi rimane estranea.
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Cosa fare, allora?
Si tratta di ripensare, di fronte a queste tendenze irrazionali
verso la divisione e la separazione, ciò che si potrebbe
chiamare una nuova "architettura della frontiera" o, perché no,
una nuova etica della frontiera. La cultura avrebbe sicuramente
da dire le sue parole, se non fosse così messa ai margini nella
elaborazione del progetto europeo, chiamata in soccorso molto
raramente o solo per liberarsi la coscienza.
Non sarebbe dunque inutile lasciare libere alcune idee che
riguardano la frontiera stessa e tentare di definirla
diversamente, confrontandola con le consuetudini concrete che
conosciamo, vecchie e nuove.
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Lei dice che conviene prendere nuovamente in considerazione le
diverse nozioni di permeabilità delle frontiere, della loro
accessibilità , della loro fragilità, e di tutti gli strumenti
antichi su cui si sono modellate?
Certamente oggi alcuni termini sono da inventare o da
ridefinire, e ciascuno merita una riflessione particolare.
In questo contesto mi viene alla mente un antico esempio che già
Tacito evocava nella introduzione della sua Germania: a fianco
delle cosiddette frontiere naturali, come il Reno e il Danubio,
o come alcune catene di montagne, si crea spesso una frontiera
particolare imposta dalla paura reciproca. Mutuo metu diceva il
vecchio storico. Questo sentimento è ben noto a una buona parte
di noi, in particolare a quelli umiliati e offesi, che dovevano
viverlo in passato durante la Guerra fredda. E' inutile oggi
parlare ancora una volta delle cortine di ferro e dei muri
simili a quello di Berlino.
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Con la globalizzazione non sono cadute le frontiere, almeno
quelle ideologiche?
I processi di globalizzazione e di mondializzazione - quando non
consistono semplicemente nell'imporre un nuovo ordine mondiale
attraverso la conquista dei mercati - presuppongono un riesame
della natura stessa della frontiera. E' ben chiaro che una vera
alleanza, che viene riproposta ad ogni occasione, non può essere
immaginata con delle frontiere rigide o poco permeabili.
Il nostro pianeta si confronta, ogni giorno con più insistenza,
con le richieste che vengono da un ordine umanista, etico: la
richiesta di diminuire se non di abolire i confini tra uomini
con una ricchezza garantita e poveri, tra uomini ben nutriti e
altri affamati, tra uomini istruiti e analfabeti.
I teorici e i protagonisti della globalizzazione sembrano
dimenticare che la cultura europea aveva già conosciuto al suo
interno vari movimenti a tendenza universale o, se preferiamo,
mondialisti: il cosmopolitismo dei Lumi, l'ecumenismo in campo
religioso, l'internazionalismo in politica, compromesso poi dal
comunismo di tipo staliniano. La cultura stessa dovrebbe
ricordarlo a questi teorici, se non fosse scoraggiata come
appare. Queste tendenze, anche se ai nostri giorni sono
minimizzate, non potranno essere sostituite da una
mondializzazione a buon mercato. Nel momento in cui si crea una
nuova architettura del Vecchio continente, necessita avere
presenti le sue contraddizioni .
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E una di queste contraddizioni In Italia, come in parte
d'Europa, non è un atteggiamento, a volte, razzista? Secondo lei
c'è il rischio di una esplosione di queste tendenze?
Siamo testimoni di un grande controsenso: da una parte si parla
di globalizzazione, di mondializzazione senza chiedersi quali
sono i criteri, in quale modo sono "globalizzabili" i vari spazi
(non può esserci infatti lo stesso modo, lo stesso criterio
ovunque, così come non c'è lo stesso grado di
"globalizzabilità"), dall'altra parte c'è rifiuto per lo
scambio, si teme l'emigrazione, il razzismo, in alcuni paesi, è
evidente, permangono frammenti di destra apertamente xenofoba.
Un italiano, un francese però non vogliono più fare certi lavori
e gli emigrati sono pronti a fare qualsiasi cosa: siamo così
quasi costretti all'accoglienza. Le cifre degli economisti
indicano che l'Europa avrà bisogno di milioni di nuovi operai e
credo che non si possa evitare che il mondo del terzo millennio
sia misto, variopinto. Forse questo potrà salvare l'umanità.
Chi è
Nato a Mostar, in Bosnia-Herzegovina, da madre croata e padre
russo, Predrag Matvejevic è uno dei più noti scrittori europei
contemporanei. E' stato docente di Letteratura Francese
all'Università di Zagabria e di Letterature Comparate alla
Sorbona di Parigi. All'inizio della guerra nell'ex- Yugoslavia
ha scelto di vivere "tra asilo ed esilio", prima in Francia, dal
1991 al 1994, poi in Italia. Attualmente è professore ordinario
di Slavistica all'Università La Sapienza di Roma ed ha doppia
cittadinanza: croata ed italiana. Predrag Matvejevic è anche
Presidente del Comitato Internazionale della Fondazione
Laboratorio Mediterraneo, vice- presidente del Pen Club e
fondatore dell'associazione Sarajevo.
Tra i suoi libri, tradotti in varie lingue, i più noti in Italia
sono: Epistolario dell'altra Europa, in difesa dei diritti
dell'uomo e, in particolare, degli intellettuali dissidenti di
numerosi paesi dell'Est perseguitati dal potere (Sacharov,
Havel, Kundera, Mandelstam, Brodskij, ecc.). Per queste "lettere
aperte", scritte in nome di "un socialismo dal volto umano", in
maniera di un Gogol del ventesimo secolo, fu attaccato dalle
istituzioni ufficiali e proclamato lui stesso "dissidente".
In Italia, dove vive dal 1994, Matvejevic ha ricevuto il Premio
Malaparte (Capri), il Premio Silone (Pescina), il Premio
"Boccaccio" (Certaldo), il Premio "Obiettivo Europa" (Milano),
il Premio "Marinità" (Roma), il Premio "Fregene", il Premio
Ferronia (Roma). Tra i vari altri riconoscimenti internazionali
(come il "Prix du meilleur livre étranger", 1993 a Parigi e
"Premio Europeo" a Ginevra, 1992), il Governo Francese gli ha
consegnato la Légion d'honneur. Il Governo Italiano gli ha
concesso la cittadinanza "per meriti culturali".
Maria De Falco Marotta
GdS 30 X 2004 - www.gazzettadisondrio.it