Against Order? Against Disorder? - Michal Rovner, Padiglione israeliano, giugno 2003
Dopo ore di fila sotto un sole cocente durante la vernice
della 50.ma Biennale d’Arte di Venezia, ai Giardini, è valsa
proprio la pena di sudare e di inquietarsi per poter entrare
nel padiglione di Israele.
Certamente è stato tra i più interessanti e ed ha riscosso
grande successo presso il pubblico come presso la critica.
In linea con la tendenza dominante della 50.ma Biennale, il
padiglione israeliano ha ospitato un’esposizione monografica
di Michal Rovner che ha occupato con le sue opere sia i due
piani all’interno dell’edificio sia i suoi muri esterni, con
un’opera/percorso intitolata Against Order? Against Disorder?,
articolato in quattro tappe: Wall Text; More; Data Zone;
Time Left.
A distanza di tempo, si possono rivivere le emozioni
suscitate dai lavori dell’artista, raccontando l’impatto
visivo che si è avuto?
Forse sì, se pensiamo che ogni anno celebriamo il giorno
della memoria di quella crudele strage che fu la Shoà.
Soprattutto, se non ci limitiamo alle sole parole. L’arte è
uno strumento formidabile per mantenere presente il passato.
Nel Padiglione israeliano si entrava in pochi perché le
installazioni di Michal Rovner hanno bisogno di attenta
lettura e concentrazione totale, ma soprattutto di silenzio,
per la ragione che le sue produzioni sono inquietanti ed
ossessive , di elevato spessore artistico.
I video esprimono un’intensità efficace coinvolgente che
crea la tensione giusta per partecipare al progetto Time
Left che immerge il fruitore in uno spazio totalizzante. In
un primo momento, si resta sconcertati: ci siamo guardate in
faccia e a segni ci siamo interpellate:- Ma cosa vogliono
dire queste strisce grigie sul muro? Sembra una casacca di
ergastolani!
Poi….il tuffo al cuore, un’emozione grandissima nel rilevare
che quelle strisce erano formate da tanti “omini” in
movimento!
Tutto lo spazio circondato a 360° da segni allineati, come
scritture antiche, geroglifici, in realtà è un’interminabile
sequenza di piccole figure in fila indiana. Esseri senza
definizione, tutti uguali, asessuati, omologati, uniti in
questa immensa diaspora. Scorrono come un testo senza
soluzione di continuità, un testo che aldilà delle
intenzioni non può non rammentare la millenaria questione
ebraica.
Soprattutto la Shoà.
Il silenzio s’impone, la gente ammutolisce di fronte alla
grande capacità significativa. La riduzione dei particolari
dà all’opera una potenza grafica nella quale le immagini
sono spogliate di qualsiasi identità … così si esprime il
curatore nella presentazione in catalogo. La stessa potenza
grafica che pone l’opera al di fuori di qualsiasi rimando
temporale e spaziale. Anche la tecnica è perfetta; sappiamo
che le riprese per i video sono state effettuate in Russia,
Romania, Israele, ma nessun particolare rivela il luogo come
nessun particolare rivela il perché. Però l’immagine
d’origine è una fotografia in bianco e nero, sulla quale
l’artista è intervenuta, eliminandone i dettagli e
l’identità così che le figure sono ridotte a poco più di
sagome e lo sfondo si è dissolto in un bianco completo.
Questi “omini” senza identità sono simili alle grandi
migrazioni suicide dei lemming( grossi roditori della zona
settentrionale dell’emisfero boreale), instancabili
moltitudini si muovono inesorabili e descrivono sulle pareti
pagine da leggere come nuove realtà che l’artista ha
accuratamente selezionato. Sempre di selezione si tratta, ma
una selezione più scientifica e incontrollabile quella che
ispira la ricerca molecolare che vede il riprodursi in
capsule di Petri(scatola di vetro rotondo usata per colture
di microrganismi) di colonie mutanti o clonate di nuovi
esseri simili ai primi e già pronti per nuove migrazioni.
Data Zone esprime un’indagine che va al di là della
riproduzione molecolare, sfocia nella interiorità umana e
nei meandri oscuri della psiche.
Osservando e commuovendosi dinanzi all’arte di questa
giovane artista israeliana cui è stato concesso lo spazio
intero del Padiglione, cosa questa che succede pochissime
volte, ti vengono in mente i versi sofferti di Samuel
Beckett:- ". Sulla faccia della terra. Di quello che non è
mai stato. E se per sfortuna qualcosa rimane vai di nuovo.
Ancora per sempre. Avanti. Finché non c'è traccia. Sulla
faccia della terra. Invece di sempre allo stesso posto.
Sfiancandosi per sempre nello stesso posto. A questa o
quella traccia. E se l'occhio non potesse? Non più staccarsi
da ciò che rimane della traccia. Di quello che non è mai
stato. Veloce di' che tutto d'un tratto può e addio di' di'
addio. Soltanto alla faccia. Della sua tenace traccia."
(Samuel Beckett, Ill seen Ill said, London 1981, p. 52).
Più analiticamente, sul muro esterno:
in Wall Text gli uomini in miniatura sono stampati
sull’intonaco in più file sovrapposte e compongono una
scritta (come indica il titolo stesso) fatta di segni
incomprensibili. Mordechai Omer, (commissario e curatore del
padiglione, come pure direttore del Tel Aviv Museum of Art)
li assimila a geroglifici egiziani e ai manoscritti del Mar
Morto.
In More, vi è un circolo di piccoli uomini ammassati e visti
dall’alto. Essi ruotano ammucchiati, e, tutto d’un tratto
sciamano velocemente verso l’esterno del rettangolo
proiettivo. Poi le piccole figure confluiscono nuovamente
dai margini verso il centro e ricompongono il mucchio
rotante e informe. L’artista parla a questo proposito di
"una fatica di Sisifo nella quale le figure si disperdono
creando ordine e disordine". Intervenendo sull’immagine
video eliminando gli elementi descrittivi: gli omini,
privati delle caratteristiche individuali, vengono colti nei
movimenti grossolani e negli spostamenti collettivi,
divenendo unità semplici di una collettività mobile. La
ripetitività delle fasi di convergenza al centro, rotazione
e fuga verso l’esterno, ottenuta mediante un semplice
comando di ripetizione loop dei file che regolano
l’immagine, così come l’osservazione dall’alto di questo
brulicare e agitarsi anonimo, dà uno stordimento: t’accorgi
che c’è pietà, non disprezzo per un vano e illusorio
gesticolare, per la piccolezza della presenza umana nel
cosmo, c’è invece una commossa partecipazione al dramma
sociale dell’uomo; la ricerca di una sintesi visiva, quasi
un archetipo, del suo agire. In questo senso la Rovner
riflette più di chiunque altro sull’attrazione conflittuale
che ogni contesto sociale rappresenta per l’individuo.
In Data Zone, che è il nucleo del progetto e principale
novità nella ricerca dell’artista, in un ambiente da
laboratorio, su tavoli bianchi, sono inserite venticinque
tonde piastrine di coltura. Dentro le capsule i soliti
piccoli uomini, visti dall’alto, si muovono. Ogni piastrina
ha caratteristiche diverse: in una piccole file di uomini
procedono in percorsi sinuosi e s’intrecciano tra loro come
nelle immagini microscopiche dei batteri; in un’altra è un
caotico brulicare e un continuo mutamento dei punti di
addensamento e di rarefazione; altrove piccole file si
agitano nelle loro componenti rimanendo ferme sul posto. C’è
qui un molteplice livello di drammaticità: l’ostentato
distacco, la pretesa di oggettività è in realtà una ricerca
altrettanto affannosa dell’artista, che è parte di quell’agitarsi
dei piccoli uomini sotto-vetro. Anche lo spettatore che si
aggira per i tavoli e si piega a guardare nelle capsule di
Petri ne viene catturato. Molti hanno parlato a proposito di
quest’opera, di bio-tecnologia: sicuramente c’è pure la
bio-tecnologia, ma non è che un aspetto, forse estremo, di
questa ampia, frenetica ricerca.
Time Left conclude il percorso espositivo. In una sala
quadrata e buia, le quattro pareti sono tappezzate di
immagini proiettate: gli omini questa volta sono ripresi
frontalmente, uno accanto all’altro su un fondo bianco,
creando strisce nere orizzontali. Fermi sul posto si agitano
muovendo le braccia, le gambe, la testa e il corpo.
La precisione con cui le proiezioni coprono le quattro
pareti dalla base al soffitto e l’esattezza con cui si
congiungono agli angoli in una perfetta continuità, danno la
sensazione di una carta da parati dai motivi decorativi
mobili. Dice Mordechai Omer: Come artista israeliana che
vive in America e crea la sua arte da immagini riprese in
Russia in Israele e in altre parti del mondo, Rovner
attraversa le frontiere nazionali e crea ciò che ella chiama
"nuove realtà" da nazioni e situazioni politicamente
esplosive.
In altre parole, Michal Rovner travalica le frontiere per
creare nuove realtà per la rifondazione della storia
dell’umanità. Si parte da una riflessione sulla diaspora per
arrivare ad indagare la psiche umana. Senza riferimenti
spazio temporali.
Nel più perfetto silenzio…
Chi è
Michal Rovner è nata nel 1957 a Tel Aviv e attualmente vive
e lavora sia a New York che a Tel Aviv. Nel 2002 il Whitney
Museum di New York le ha dedicato una grande retrospettiva .
Rammentiamo altre importanti mostre personali e interventi
site- specific: al Lincoln Center Festival di New York e al
Barbican Theater di Londra (nel 2002) in collaborazione con
Philipp Glass; al Kemper Museum of Contemporary Art, Kansas
City (2001); Overhang in collaborazione con Deitch Projects,
Chase Manhattan Bank, New York (2000); Overhanging, allo
Stedelijk Museum, Amsterdam (1999); alla Tate Gallery,
Londra (1997) e partecipazioni alle collettive (recenti e
selezionate): War (What is it Good For?); Museum of
Contemporary Art, Chicago (2003); The Endurance of Art.
Westport Arts Center, Westport (2002); Exposure: Recent
Acquisitions, Tel Aviv Museum of Art (2000); Zero-G: When
Gravity Becomes Form. Whitney Museum of American Art at
Champion (1999); Apposite Opposites: Photography from the
MCA Collection, Museum of Contemporary Art, Chicago (1999);
Animal. Anima. Animus. Poori Art Museum, Finland, P.S.1, New
York (1999). In Italia ha esposto per la prima volta allo
Studio Stefania Miscetti di Roma nel 1998.
Michal Rovner si considera un'artista nomade, il cui
percorso inizia in Israele negli anni Ottanta, ma
l'affermazione sulla scena internazionale avviene nei primi
anni Novanta, dopo il trasferimento a New York, che rimane
tuttora la sua "seconda base" dopo la sua casa nel deserto
nei pressi di Tel Aviv.
Il "nomadismo", lo "spostamento" nelle zone di confine e nei
territori incerti sono i temi che affronta e che danno una
forte impronta all'immaginario visivo che crea. E' un
immaginario popolato da figure dai lineamenti spesso
irriconoscibili, ombre e sagome umane e animali, che evocano
atmosfere estremamente poetiche e drammatiche allo stesso
tempo. Queste zone di confine sono per la Rovner i luoghi
dove si è più consapevoli della fragilità dell'esistenza
umana, il tema centrale del suo lavoro, ed è per questo che
le figure appaiono prive di un'identità definita, in modo da
sembrare più universali e vicine a tutti.
Anche lei, come ebrea, celebra il Giorno della
Commemorazione dei Martiri e degli Eroi della Shoà
(Olocausto), meno di una settimana dopo la Pasqua, quando il
popolo d’Israele è in comunione con la memoria dei sei
milioni di martiri del popolo ebraico che perirono per mano
dei nazisti durante la Shoà.
Anche lei partecipa ai riti tradizionali di lutto pubblico.
In questo giorno, viene fatta suonare una sirena alle ore
10.00 e il paese osserva due minuti di silenzio,
impegnandosi “a ricordare, e a far ricordare ad altri perché
non dimentichino mai”.
Michal Rovner lo fa con le sue terribili opere.
Maria & Elisa Marotta
GdS 30 I 04 www.gazzettadisondrio.it