NAZIONE O PROVINCIA?

di Aventino Frau

La mozione unitaria del
centrosinistra sul ritiro immediato del contingente italiano
dall’Iraq ci induce ad alcune riflessioni sulla nostra
situazione nazionale.

Subito dopo il crollo delle torri, mi permisi di definire l’11
settembre come la Pearl Harbour di una anomala terza guerra
mondiale, esplosa fragorosamente e proditoriamente e, anche
questa, rivolta contro gli Stati Uniti, gigante dai piedi di
argilla, incapace – nonostante i suoi celebrati servizi segreti
– di prevedere, di sapere, di impedire.


A quella data fummo tutti americani. Anche gli avversari di Bush
videro in lui il capo di una nazione forte, unita, solidale,
ferita.

Si proclamò la guerra al terrorismo, alle centrali di tale
potere, agli Stati canaglia, ai finanziatori. Si stanò Bin Laden
in Afganistan pur senza catturarlo, si rovesciò il regime dei
talebani, si aprì a maggior margini di libertà, almeno
giuridica, un Paese condizionato da un regime religioso,
opprimente e retrogrado.

Poi venne l’Iraq, il terribile Saddam che andava colpito perché
pericoloso detentore di armi micidiali, dittatore oppressivo di
un popolo e delle sue minoranze etniche e maggioranze religiose.

La guerra lampo ebbe successo militare, anche se contestata da
più parti; la “difesa preventiva” motivò – con forte discutibile
innovazione politico-giuridica – una operazione che la dirigenza
statunitense fece senza una adeguata valutazione delle
conseguenze non militari ma politiche.

Non si è vinta la pace, ma si è abbattuto un dittatore e si è
data al popolo iracheno una libertà teorica che non sa gestire.

Le truppe angloamericane, da liberatrici sono divenute
occupanti, ma hanno impedito, per il momento, il sogno sciita di
una Repubblica islamica e teocratica (un altro Iran) e quello
dei seguaci di Osama Bin Laden di fare dell’Iraq, dopo la fine
dell’Afganistan talebano, una rinnovata centrale del terrorismo
islamico mondiale. Una valutazione su tutto questo, sulla
strategia mondiale di lungo periodo da ciò nascente, sui
pericoli che il terrorismo rappresenta per tutto il mondo, la
politica italiana l’ha fatta assai poco. Ha rincorso legittime
emozioni, i sentimenti ahimè sempre mutabili ed influenzabili
della gente, ha generalizzato episodi vergognosi ma certo
isolati, ha preferito cercare colpe e colpevoli piuttosto che
cercare ragionevoli soluzioni.

La cosa più triste è che si è trasformato un grande problema del
mondo in un fatto di politica interna, di competizione
elettorale, di polemica di basso profilo.

Non siamo teneri con molte posizioni del governo ma il vedere
tutta l’opposizione – dai cattolici post democristiani ai post
comunisti ed ai neocomunisti – unita su una mozione che copre
profonde divisioni interne è ben triste. Come può il nostro
Paese considerarsi grande, partecipare al G8, se al proprio
interno anche i problemi più gravi vengono ridotti a
speculazione elettorale e la possibilità – con il ritiro
immediato delle truppe – di assistere ad una terribile guerra
civile e religiosa, viene considerata solo al fine di cercare
responsabilità politiche, da imputare elettoralmente? Forse vale
la pena di ripensarci a fondo, di ricercare le ragioni del
nostro essere Stato perché Paese, di rappresentare meglio lo
spirito della gente dalla quale ci si distacca sempre di più.

Aventino Frau



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