L’angoscia dell'Iraq
Due anni fa fui invitato da Marco Taradash ad una trasmissione
televisiva sull’Iraq. La guerra non era ancora incominciata, ma
era già scoppiata la dura polemica tra la posizione americana e
gli interventi del Papa, che chiedeva soluzioni diverse dalla
guerra. Taradash aveva messo al centro della sala un grande
cartello con su scritto: “Siete con Bush o col Papa?”, e mi
aveva collocato tra coloro che erano col Papa. La cosa non mi
dispiacque affatto, perché se vengo messo a scegliere tra Bush e
Giovanni Paolo II non ho dubbi. Ma i problemi erano più
complessi.
Il più grosso interrogativo era quello che posi subito: “Siete
sicuri che attaccando l’Iraq non cadiamo nella trappola di Bin
Laden?”
Feci un semplice ragionamento: chi ha interesse alla
guerra di civiltà, alla spaccatura frontale tra Islam e
Occidente è il terrorismo, che diventa così il punto di
riferimento non di una minoranza, ma di una larga parte del
mondo arabo. Ricevetti dai falchi (ricordo in particolare
Giorgio Pelanda) risposte sdegnate: chi non vuole la guerra è un
pauroso che non combatte per i propri principi. A due anni di
distanza è difficile trovare qualcuno che non mi dia ragione.
Tutti ammettono che la guerra è stato un drammatico errore, e
che grazie ad essa il terrorismo è più forte e ha reclutato
falangi di nuovi seguaci.
Lo stesso dubbio mi serpeggia dentro oggi. Perché anche chi
ammette l’errore dice che ormai siamo su un binario obbligato,
che bisogna proseguire sino alla vittoria militare, che il
ritiro oggi sarebbe una vittoria storica del fondamentalismo.
Panebianco, sul Corriere, ha addirittura parlato di una nuova
Stalingrado. Anch’io per un certo tempo ho pensato che andare in
Iraq era stato uno sbaglio, andarsene sarebbe stato il secondo
errore. Mi sono convinto che le cose non stanno così.
La vittoria militare non l’avremo mai. Nella lotta al terrorismo
le armi sono spesso necessarie, ma da sole non bastano mai. Ci v
uole una politica che isoli il terrorismo, che convinca i
cittadini che i terroristi hanno torto. Sconfiggemmo le Brigate
Rosse perché gli italiani non si riconobbero in loro ma nello
Stato. I russi persero in Afghanistan perché il popolo li
considerò come invasori e si identificò con la guerriglia.
Perché in Iraq non avvenga la stessa cosa nei confronti degli
americani (e di noi) bisogna cambiare due cose: mediare tra
Israele e i palestinesi, invece che appiattirsi su Sharon;
creare una forza di intervento che sia veramente internazionale,
sotto l’ONU; con una larga partecipazione di europei e arabi.
Non sono richieste assurde. L’Occidente ha sempre difeso Israele
contro quegli arabi che volevano distruggerla, ed è un
sacrosanto dovere. Ma ha sempre cercato la pace, da Carter, a
Clinton, a Bush che due anni fa lanciò la road map. Esiste
ancora quella politica? Perché non se ne parla più?
La vera lotta al terrorismo si fa così. E’ proprio perché non
vogliamo una fuga che far ebbe un altro regalo a Bin Laden che
vogliamo cambiare. Perché se si continua così la fuga è
inevitabile, magari mascherata da ritiro graduale. Non si regge
una situazione come quella in Iraq se non si conquista il
sostegno di una larga parte della popolazione. E non è giusto
esporre le vite dei nostri soldati se non c’è una prospettiva
politica.
E’ una delle tante cose per cui vogliamo un centro destra
diverso. Più europeo e meno americano, e più sensibile al grande
messaggio del Papa contro la guerra preventiva (che è cosa molto
diversa dal pacifismo di Bertinotti). Lo chiediamo da cattolici,
da liberali, da europeisti.
PS: Messaggio a Rocco Buttiglione. Caro Rocco, non mi ricordo di
tue battaglie perché il governo italiano, di cui fai parte,
fosse più sensibile al messaggio del Papa sull’Iraq.
Mario Segni
GdS 30 X 2004 - www.gazzettadisondrio.it