PRIMA DI ISRAELE Recensione di Enrico Galoppini

Recensione di Enrico Galoppini

                    
Il libro: Piero Sella, Prima di Israele, Milano 1996


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E’ bene dirlo subito. Il libro di Piero Sella, Prima di Israele.
Palestina, nazione araba, questione ebraica (Edizioni dell’Uomo
Libero, Milano 1996) non è un libro «politicamente corretto», di
quelli cioè che forniscono una versione edulcorata della genesi
e dello sviluppo della «questione palestinese», che a prima
vista sembrerebbe scaturire unicamente da fattori specificamente
mediorientali o da vicende storiche recenti.

Con coraggio e con coerenza, l’Autore ricerca le radici del
problema: “La tempesta che si è addensata e che si sta
scaricando in questi decenni sulla testa del popolo palestinese
è in realtà solo l’ultima manifestazione della questione
ebraica” (dalla quarta di copertina).


Il Sella, indagando le vicende politiche, militari, culturali e
religiose attraverso cui si è dipanata la storia della presenza
ebraica all’interno delle differenti comunità europee, espone al
lettore la storia di una volontaria separazione e di un
conseguente rifiuto: è il fenomeno dell’«antisemitismo»,
ingiusto ma ineluttabile, le cui cause – come già illustrato nel
1894 dall’ebreo francese Bernard Lazare (cfr. L’antisemitismo.
Storia e cause, trad. it. Sodalitium, Verrua Savoia 2000) -
vengono qui ricondotte ad un pervicace ed esclusivista razzismo
talmudico etnico-religioso del quale anche i palestinesi hanno
potuto assaggiare il fanatismo e la portata distruttiva, e che
ha sempre innescato reazioni di rifiuto da parte di chi ne viene
colpito.


La responsabilità di quel che è successo e che continua ad
accadere in Palestina è addossata senza mezzi termini agli ebrei
sionisti ed ai loro accondiscendenti alleati, ovverosia alla
Gran Bretagna, che con il Mandato controllava il flusso
dell’immigrazione ebraica, e agli Stati Uniti della potente
lobby ebraica (ma anche Francia ed Urss hanno avuto le loro
responsabilità), sempre pronte ad accogliere le crescenti
richieste di un gruppo abile nel capitalizzare «incomprensibili
ingiustizie»; non, come si fa credere solitamente, al «rifiuto
arabo» o al «massimalismo» dei palestinesi, dei quali la
comunità israelita residente in Palestina da lunga data mai
avrebbe avuto motivo di lamentarsi, proprio perché palestinese
come gli altri conterranei, musulmani e cristiani.


Ma un mondo reso impotente dai sensi di colpa per le
persecuzioni subite dagli ebrei da parte della Germania
hitleriana (avallate tuttavia dal tacito assenso di mezzo mondo,
compresi Stati Uniti e Urss, paese quest’ultimo dove misure
antiebraiche erano periodicamente adottate per motivi che il
volume che recensiamo aiuta a comprendere), tenuti sempre vivi
da un’incessante propaganda a tutto campo, ha assistito da
spettatore alla tragedia di un popolo avviatasi quando un gruppo
organizzato ed influente, dall’abile mimetismo, dalle ampie
disponibilità finanziarie e dalle molteplici ramificazioni ha
individuato nella Palestina, sulla base di infondate pretese
storico-religiose (come hanno già dimostrato archeologi
israeliani), la sede di un progetto messianico fattore di
perenne e desiderata destabilizzazione regionale (vista
l’importanza economica del Vicino Oriente) e quindi mondiale.



Il libro affronta argomenti ritenuti tabù, sui quali gli
«specialisti» si guardano bene dal proferire parola, e pone
quelle elementari domande che tutti ci eravamo posti ma alle
quali finora non si era avuta risposta. Se dell’inganno
perpetrato dagli inglesi verso gli arabi in modo da incanalare
la loro lotta nazionale nell’alveo dei loro disegni e di quelli
dell’organizzazione sionistica, se dell’artificioso smembramento
della Grande Siria, e se dell’assoluta noncuranza delle
risoluzioni dell’Onu da parte dello Stato israeliano già si era
letto (malgrado, curiosamente, non si approfondisca mai sui
perché di tali incredibili avvenimenti, accontentandosi tutt’al
più di lamentarsi delle «prepotenze dei più forti»), questo
studio ci parla del Sionismo come risposta alle tendenze
disgregatrici in atto nell’ebraismo europeo della seconda metà
dell’800 in seguito alla cosiddetta «emancipazione ebraica»,
della quale l’Autore ben individua il carattere dissolvente
dell’irriducibile alterità rispetto alle popolazioni europee e
cristiane fin li' coltivata dalle comunità israelitiche, e che
percio' era avvertita come un pericolo nel generale clima di
secolarizzazione incoraggiato dalle «rivoluzioni borghesi»;
delle mene condotte per giungere al risultato che tutti abbiamo
sotto gli occhi (gli aiuti al Giappone in guerra contro la
Russia zarista, certi passaggi della Rivoluzione in Russia,
l’intervento degli Usa nella Prima Guerra Mondiale eccetera);
della presa di coscienza della dimensione di cio' che andava
profilandosi da parte del Sultano ottomano ‘Abdul-Hamîd fin dal
1882; dell’ipoteca posta con l’ambigua formula del «focolare
ebraico» (2 novembre 1917) su un territorio che all’epoca non
apparteneva ancora né agli inglesi, né agli ebrei (!); del modo
assolutamente contrario ad ogni accordo precedentemente
stipulato con cui il Mandato venne gestito dagli inglesi, e del
vero e proprio «governo ombra» insediatosi grazie alla netta
preponderanza nell’amministrazione dell’elemento ebraico su
quello palestinese, a partire dalla persona dell’Alto
Commissario Herbert Samuel (1920-25); della provocazione
crescente verso la popolazione palestinese, posta sempre di
fronte alla politica del fatto compiuto, ossia del lento
snaturamento etnico-culturale della propria terra e della sua
lenta estromissione dai gangli vitali del tessuto
socio-economico; della costante attenzione da parte britannica
nel garantire le necessarie garanzie di carattere geopolitico
(ad es. lo spodestamento degli Hashemiti dallo Hijâz e la
creazione dello Stato-cuscinetto giordano) allo sviluppo di
quello che, ad onta delle dichiarazioni di facciata, fin
dall’inizio venne concepito come lo «Stato Ebraico» (del resto
era questo il titolo della fondamentale opera di Theodor Herzl,
il quale - sia detto per inciso - nel 1901 offri' al Sultano due
milioni di sterline per l’acquisto della Palestina, vedendoseli
nobilmente rifiutare; e la retorica sull’epopea dei kibbutzim
non tragga in inganno: «socialismo» si', ma solo per loro);
dell’atteggiamento negativo assunto dalle organizzazioni
sionistiche nei confronti dell’Italia dopo il Concordato del
1929 e della reale identità di parte dell’antifascismo; del
vittimismo ebraico che ha fornito l’indispensabile base
giustificatoria di ogni vessazione ai danni dei palestinesi e
ricattatoria nei confronti di un’Europa ridotta all’immobilismo
(emblematico il recente rifiuto opposto dalle autorità
israeliane di incontrare il ‘ministro degli Esteri’ dell’UE
Solana, rimandato a casa come ospite indesiderato); della
collaborazione tra leaders nazionalisti arabi sinceramente
anticolonialisti e forze dell’Asse, mentre gli inglesi
insistevano sulla via delle false promesse ai palestinesi in
modo da accattivarsene la benevolenza in vista dell’imminente
conflagrazione bellica (è il caso del Libro Bianco del 17 maggio
1939, che prevedeva un rigido contingentamento dell’immigrazione
ebraica e l’indipendenza della Palestina dopo dieci anni,
accantonando momentaneamente l’idea della spartizione – più
corretto sarebbe dire «partizione»); del terrorismo ebraico
operato dentro e fuori i confini della Palestina (già dal 1944
contro rappresentanti inglesi e non solo; dal dicembre 1947, in
maniera sistematica, contro la popolazione civile): si rievocano
le ‘imprese’ di bande terroristiche come l’Irgun, la banda Stern
eccetera, addestrate dagli inglesi (per vedersi poi sparare
addosso!), e quelle del Mossad, i cui atti criminali perpetrati
in tutta Europa rimangono sempre impuniti (la pratica del
sequestro di persona è prassi consolidata); della consueta
enfasi posta sull’attacco congiunto arabo del maggio 1948 a
sostegno della tesi del «rifiuto arabo», un attacco che vide
20.000 arabi contro 60.000 ebrei, per giunta ben armati grazie
al canale ‘cecoslovacco’ utilizzato da Stati Uniti ed Urss dopo
l’inspiegabile armistizio del 2 giugno, accettato dagli arabi
quando andava profilandosi una vittoria schiacciante; dei danni
causati dall’infiltrazione sovietica in un mondo arabo alla
ricerca di un partner di peso, che pero' al momento della verità
ha sempre inclinato verso Israele; dell’apartheid messa in atto
nei confronti dei palestinesi sulla scorta di una ideologia
razzista già condannata dall’Onu (Risoluzione dell’Assemblea
Generale 3379 del 10 nov. 1975; cancellata il 16 dicembre 1991
dopo che l’Iraq ba‘thista, uno dei suoi promotori, era stato
messo K.O.); della propaganda a senso unico assicurata dal
controllo dei mass media (ferreo negli Stati Uniti) da parte di
esponenti della lobby sionista: propaganda che, a colpi di
«Nobel per la pace», fa indossare i panni della «colomba» a
personaggi la cui coscienza si è macchiata delle più svariate
nefandezze; dell’inesauribile espansionismo israeliano - del
resto simboleggiato nella stessa bandiera dello Stato o nelle
carte del Grande Israele effigiate sulle monete oggi in corso -
camuffato da «operazioni preventive» volte a garantire il
«diritto di esistere», i «confini sicuri» (oltretutto, non
quelli fissati a suo tempo dall’Onu) ed altre accattivanti
formule inventate dagli strateghi di marketing dell’opinione
pubblica. E si potrebbe andare avanti pagine e pagine elencando
la novità dell’opera del Sella rispetto alla versione dominante
e, quel che è più grave se non si vuol pensare che l’Università
sia un covo di pavidi, accademicamente sottoscritta tranne poche
e coraggiose eccezioni.


Si puo' quindi sintetizzare il lavoro del Sella come il
tentativo riuscito ed ampiamente documentato di dimostrare che
le radici della «questione palestinese» sono da ricercare nei
principi fondamentali di una determinata concezione del mondo
che, nell’evoluzione dei rapporti tra chi la fa propria e gli
altri, ha giustificato un’operazione di vera e propria «pulizia
etnica» messa in opera prima e dopo la guerra del 1948 spesso
addotta come puntello alla tesi del «rifiuto arabo»


Il suo limite, invece, a nostro avviso risiede nel non tenere in
debito conto il ruolo dell’imperialismo britannico prima,
statunitense poi, nell’incoraggiamento, nella genesi e nel
mantenimento di un vero e proprio corpo estraneo inserito in
un’area geopoliticamente fondamentale per la strategia
anglosassone di dominio globale. Che Israele senza il sostegno
in armi, soldi e propaganda da parte degli Usa (ai danni del
mitico contribuente americano!) non andrebbe molto avanti, è una
verità lapalissiana che Prima di Israele non evidenzia
adeguatamente. In altre parole, il libro talvolta comunica
l’impressione che l’Autore sopravvaluti la capacità dei gruppi
di pressione ebraico-sionisti di piegare chiunque ai loro
voleri, trascurando che se lo Stato d’Israele ha potuto
prosperare è solo perché ha avuto alle spalle la
benedizione-protezione delle superpotenze.


Inoltre il libro sottovaluta la forza che costruzioni simboliche
molto diffuse nella cultura statunitense hanno nella
mobilitazione delle coscienze a favore dell’impresa-Israele. Si
tratta del «cristianosionismo», un fenomeno prettamente WASP che
spiega perché molti americani stanno con Israele. Il sionismo è
difatti oggigiorno una lobby che ha i suoi più ferventi
sostenitori (anche tra i non ebrei) soprattutto fuori dal
territorio dello Stato d'Israele (la lettura di Israel Shamir,
Carri armati e ulivi della Palestina. Il fragore del silenzio,
Crt, Pistoia 2002, è particolarmente istruttiva in tal senso).



Dopo queste note critiche, un’ultima annotazione. Al tempo delle
demonizzazioni, degli «appelli alla vigilanza» (acriticamente ed
ingenuamente accettati dai più in virtù di riflessi condizionati
ed autocensure alle quali una propaganda capillare e martellante
educa fin da bambini) e al ricorso a leggi speciali
continuamente richiamate da chi ha interesse a mantenere una
spessa coltre di omertà, auspicheremmo che a questo studio
facesse seguito un serio confronto sull’unico terreno degno su
cui possono, meglio ancora devono, confrontarsi opinioni
differenti: quello della ricerca storica e non quello del
rifiuto a priori, per non parlare delle aule dei tribunali (si
pensi al caso Garaudy in Francia, filosofo già marxista tenuto
in gran conto dall’establishment culturale francese prima che
esso ne decretasse l’ostracismo: in Italia il suo I miti
fondatori della politica israeliana è stato tradotto da una casa
editrice comunista «bordighista», Graphos, ma la sinistra
ufficiale sembra ignorarlo).


Completano l’opera un’amplissima bibliografia ragionata ed una
documentata appendice cartografica e statistica curata da
Gianantonio Valli. Per chi non lo trovasse in libreria, il
volume puo' essere richiesto direttamente alle Edizioni
dell’Uomo Libero, C.P. 1658, 20123 Milano (info@uomolibero.com).


Enrico Galoppini


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GdS 8 XI 2002 - www.gazzettadisondrio.it

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