L’economia italiana fra declino e rassegnazione

di Carlo Scognamiglio Pasini

DALL'ISTAT LE
CATTIVE NOTIZIE

Il quadro dell’economia italiana presenta una raffica cattive
notizie che rendono patetici gli slogan improntati all’ottimismo
del Presidente del Consiglio, e richiederebbero invece una
analisi realistica, su cui fondare un drastico cambiamento di
rotta nella politica economica nazionale e comunitaria.
Vediamone alcune, scorrendo i dati ufficiali dell’ISTAT.

1. La crescita del PIL italiano (2003= +0,3%) è stata fra le
più basse europee,ben inferiore alla media dell’area Euro (+0,6%), ed è in rallentamento.

2.La spesa pubblica è aumentata ben al disopra dell’inflazione (+5,8% ); in queste circostanze la promessa di meno tasse per
tutti era evidentemente irrealizzabile a causa della necessità
di mantenere il deficit entro i limiti del patto di stabilità
europeo, ed infatti:

3.la pressione fiscale ha invertito il trend discendente che
aveva registrato negli anni precedenti a partire dal 2000, ed è
cresciuta nel 2003 dal 41.9 al 42.8%.

4. L’inflazione, sia pure tenendosi alle cifre ufficiali, è la
più alta fra i Paesi che hanno adottato l’Euro (2,6 contro 1,6). Questo differenziale nazionale non può che avere cause
interne: ignorarle e non occuparsene è profondamente sbagliato.

5. La produzione e le vendite al dettaglio sono in flessione;
per le esportazioni è un crollo: - 4% nel 2003, ma scendono a
precipizio nei primi mesi del 2004. Lo stesso calo colpisce i
margini delle imprese soggette alla concorrenza internazionale,
e dunque prese nella forbice costituita dalla svalutazione del
Dollaro e dalla aggressività dei produttori cinesi.

6. Le partite correnti (cioè il saldo con l’estero ) sono in
rosso (-20 miliardi di dollari), contro un saldo positivo per
l’aera Euro di 36,5 miliardi di dollari. In altre parole c’è un
deficit di risparmio che è finanziato dall’estero: un fatto che
potrebbe non essere negativo se gli investimenti fossero in
espansione, ma, date le circostanze, significa semplicemente che
uno dei punti di forza della nostra economia, il non avere debiti
con l’estero, sta lentamente svanendo di fronte a un deficit di
produzione e di risparmio.

7. Il premio per il rischio richiesto dal mercato internazionale
per l’investimento in Italia, che può essere misurato come
differenziale fra il rendimento medio delle azioni e delle
obbligazioni, è cresciuto dal 3 al 3,4%, mentre è diminuito
l’omologo dato europeo (dal 3,3 al 2,9%); il che significa che
il mercato assegna all’Italia una minore prospettiva di
crescita, o un maggior rischio, o entrambi.

Mi fermo in questo elenco deprimente, ma potrei continuare con
la discesa delle quote di mercato nel commercio internazionale,
e concludere che se – come dice il Presidente del Consiglio –
siamo diventati più ricchi, ma questo è vero per il reddito pro
capite, non certo per il potere d’acquisto, è solo perché il
numero dei morti supera quello dei nati vivi: bella
consolazione!

Questi dati indicano senza possibilità di dubbio il declino
dell’economia italiana, e il fallimento politica del governo
Berlusconi che era stato eletto su premesse del tutto opposte.


Pericoloso
prevalere della rassegnazione


Ma nessuno di noi può rallegrarsi di quanto sta accadendo: il
fatto ancora più grave rispetto a quelli che ho citato è il
senso di rassegnazione che si percepisce conversando con
operatori economici, lavoratori autonomi e dipendenti, giovani.
Il nostro Paese ha attraversato molti momenti difficili, anche
peggiori di questo: basterà ricordare il dopoguerra con il Paese
distrutto per un terzo, o alla crisi sociale ed economica degli
anni’70. Ma sempre queste fasi difficili sono state superate con
un sentimento retto dalla speranza di un futuro migliore.

Ora non più, ora prevale la rassegnazione della percezione che
ormai il declino italiano è irreversibile, che si manifesta nel
crollo delle nascite, e che deriva anche dalla convinzione
diffusissima che un eventuale cambio del governo con un ritorno
del centrosinistra condizionato da Bertinotti, Occhetto e dalla
sinistra radicale, non migliorerebbe certo la situazione. Ma non
basta dire che bisogna reagire, come chiede il Presidente della
Repubblica, il presidente eletto degli industriali, e come sa
ciascuno di noi. Occorre prima una analisi chiara e sincera
delle circostanze, senza bugie pre e post elettorali, e quindi
l’identificazione di una nuova rotta sulla quale dirigere la
prua delle nostra politica nazionale e comunitaria.


I fattori del
declino


Il declino italiano dipende da tre ordini di fattori:


A - le nuove tendenze dell’economia globale;

B - problemi comuni all’Europa continentale;

C - problemi specifici italiani.

A – Quanto ai primi, essi sono rappresentati dalla "coda" della
recessione americana post scoppio della "bolla speculativa" e
post 11 settembre. L’economia europea ha un ciclo ritardato
rispetto a quello americano, e oggi noi risentiamo ancora del
precedente ciclo statunitense. Oggi gli US sono in ripresa, ma
la ripresa si basa su un enorme aumento della spesa militare e
sulla diminuzione delle imposte personali, e ha come
corrispettivo la svalutazione del Dollaro, svalutazione che fa
perdere competitività agli europei. E’ una ripresa "elettorale",
quindi non è certo che si consolidi anche dopo le elezioni
presidenziali di novembre, e non è quindi detto che i suoi
benefici si trasferiscano anche all’Europa, soprattutto vista la
perdita di competitività delle nostre economie. Il secondo
fattore è rappresentato dalla concorrenza dei Paesi emergenti,
soprattutto dalla Cina, che producono a costi incomparabilmente
inferiori a quelli dei Paesi sviluppati, e che conquistano
mercati (tessile, macchine utensili, e così via) serviti da
settori particolarmente sensibili per l’economia italiana. Da
qui il fenomeno della delocalizzazione, cioè delle produzioni
che vengono trasferite in Paesi a basso costo del lavoro ma ad
alta produttività, Romania, Est Europeo, Cina. In sé il fenomeno
non è negativo, perché corrisponde alle prescrizioni della
teoria dei vantaggi economici comparati nota fin dai tempi di
David Riccardo, ma solo a condizione che le produzioni
delocalizzate siano sostituite con altre attività che consentano
di mantenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Sostituirsi agli imprenditori per decidere che cosa produrre e
vendere, è profondamente sbagliato, ma altrettanto lo è non
metterli in condizione di innovare perchè manca la ricerca di
base ed il credito.
B – Un secondo fattore di declino deriva da caratteristiche
delle economie Europee continentali, cioè principalmente
Francia, Germania e Italia. Il sistema del welfare in questi
Paesi è troppo costoso, e finisce con il determinare un carico
fiscale superiore di circa il 50% (prelievo fiscale e
contributivo: I, F, D = 45%; US = 30%). Ciò determina costi più
alti e rendimenti più bassi per i capitali, che ovviamente
preferiscono finanziare le imprese del sistema americano.
Nessuno pensa di dovere abbassare il livello di protezione
sociale di cui godono gli europei, ma bisogna assolutamente
trovare il modo di renderlo meno costoso. I Paesi europei,
inoltre, singolarmente considerati sono troppo piccoli per
sostenere grandi programmi di ricerca che producono innovazione,
si pensi ad internet, o al progetto genoma, per non parlare
delle spese militari e spaziali. Bisogna unire le risorse per
lanciare grandi progetti europei. Il nostro partito propone un
grande progetto per l’energia, ma se ciò fosse poi accettato,
occorrerebbe che l’Italia fosse sufficientemente autorevole per
massimizzare i benefici in termini di capitale umano e di
risultati innovativi che ne deriverebbero: Ma oggi l’Italia,
anche per errori politici, sta visibilmente perdendo prestigio,
come dimostra la sistematica esclusione dal "direttorio" dei
grandi. Conseguentemente occorre riaggiustare la nostra politica
estera non in senso meno atlantico, ma certamente di maggiore
consapevolezza del nostro ruolo in e per l’Europa. Avere
inseguito Aznar, insomma, è stato un errore, e comincia a
costarci caro.
C – Il terzo fattore è legato alle specificità nazionali
italiane, che consistono innanzitutto nell’avere un sistema
industriale basato sulla grande prevalenza delle piccole e medie
imprese. Il sistema della "banca universale" penalizza le
piccole e medie imprese: di qui la nostra proposta di
ricostituire il sistema del mediocredito, e di promuovere
un’agenzia di rating per le piccole e medie imprese, che sono
ignorate dal sistema internazionale, e che potrebbero così
collaborare assai meglio almeno con le nostre grandi banche
nazionali.


Occorre una
leadership capace


Queste, assieme ad un piano mirato di risparmi che offra
concretamente la possibilità di ridurre le imposte, e di
sostenere il potere d’acquisto dei ceti medi, definiscono una
parte di un piano d’azione che può rovesciare la tendenza al
declino della nostra economia. Ma la prima fra tutte le
condizioni necessarie è che il Paese disponga di una leadership
capace e affidabile, cioè diversa da quella che ha sin qui
condotto così male i compiti che il voto popolare gli aveva
affidato.
Carlo Scognamiglio Pasini

GdS 10 IV 2004 -
www.gazzettadisondrio.it

Carlo Scognamiglio Pasini
Politica