CHECCHE' NE DICA GASPARRI

di Aventino Frau

Il fronte del no nei confronti
della legge Gasparri giunta alle battute conclusive del suo
tormentato iter parlamentare con l’approvazione in via
definitiva per l’ultima lettura al Senato, è vario ed
articolato.

Vi sono stati dei no pregiudiziali e aprioristici solamente
perché il provvedimento era stato proposto dal Governo, vi sono
stati dei no di chi vede nell’evoluzione tecnologica prevista
dal transito verso il sistema digitale un ulteriore strumento
del capitalismo imperante che in questo modo controllerà ancora
maggiormente le coscienze e le volontà, vi sono dei no da parte
di chi vede Berlusconi come un imprenditore nemico e quindi un
concorrente pericoloso da circoscrivere e da limitare per non
essere battuti nel campo del libero mercato.

Chi nutre una profonda convinzione negli ideali liberali ha nel
corso della sua vita politica interiorizzato il motto di Einaudi
"conoscere per deliberare", chi ha seguito i lavori
parlamentari, studiato il provvedimento proposto dal Governo;
chi ha cercato di formare una propria opinione risultante da un
giudizio quanto più obiettivo possibile e da un convincimento
scevro da qualsiasi influenza partigiana ma cercando di capire
se questo provvedimento andasse nella direzione dell’interesse
del Paese e se in questa ottica avesse quelle caratteristiche di
legge erga omnes capace di maturare conseguenze virtuose per
tutti i soggetti che ne fossero stati interessati, non può dirsi
soddisfatto.

Se da una parte infatti, nel percorso tracciato dall’evoluzione
tecnologica e dalla convergenza dei mezzi di comunicazione, il
transito verso il sistema digitale rappresenta una grande
risorsa ed una opportunità di crescita e di modernizzazione del
Paese, non c’è dubbio che l'averlo fatto con questa legge, non è
certo il modo migliore.

Se, come diceva Lord Acton, "un potere assoluto corrompe
assolutamente" e se è vero, per dirla alla Auriol che "là dove
c’è il potere c’è la responsabilità", in questo caso, risulta in
modo palese che siamo di fronte ad una forzatura intrinseca del
normale processo decisionale.

Il Presidente del Consiglio, maggiore editore italiano, nonché
leader di quella maggioranza parlamentare che ha nominato i
presidenti di Camera e Senato che a sua volta hanno nominato i
consiglieri d’amministrazione della Rai, si trova nella
singolare posizione di rappresentare tutte le parti in commedia.
In questo caso uno dei principi cardine di una democrazia, il
pluralismo dell’informazione e dei mezzi di comunicazione, non
può essere ricondotto ad un semplice pluralismo interno ai mezzi
stessi, perché in un sistema governato da una cornice di
garanzie a tutela delle libertà individuali il pluralismo
interno non può che essere una conseguenza di un pluralismo
esterno, ovvero di una pluralità di editori. Se è vero poi che
ogni editore rappresenta una sua visione parziale della realtà è
anche vero che dalla composizione di molte visioni parziali
diverse si può compiere un’azione di sintesi verso un pluralismo
quanto meno accettabile.

Ora si può senza dubbio affermare che, se il principio
ispiratore di questa legge può essere senz’altro condiviso, non
può essere condiviso invece il percorso attraverso il quale si
vuole giungere a transitare l’attuale sistema della
comunicazione verso il nuovo mondo del digitale.

E’ indubbio che farlo in questo modo, senza che vi sia stata
ancora la privatizzazione della Rai, (per la quale noi
liberaldemocratici ci battiamo chiedendo anche che venga
rispettato il referendum in materia votato dagli italiani), con
il principale e diciamo unico concorrente privato che può godere
di un ben maggiore margine di manovra nel campo della raccolta
pubblicitaria e senza neanche un embrione di un altro polo
alternativo, si determina una situazione di squilibrio a
vantaggio di un gruppo aziendale poiché tutto il mercato del
settore ne verrebbe pregiudizievolmente condizionato già
dall’inizio. Normalmente per creare condizioni di concorrenza là
dove non ci sono, occorre adottare delle misure asimmetriche,
ovvero dare degli handicap a chi è troppo forte affinché i neo
entranti nel mercato abbiano la possibilità di diventare
competitivi. Ebbene nulla di questo è previsto dal disegno di
legge Gasparri. Se uno degli assiomi di una visione
liberaldemocratica è quello di garantire a tutti pari condizioni
di partenza in un quadro di regole certe e condivise da tutti i
protagonisti, è chiaro che questa legge non va certo in quella
direzione.

Un punto risulta poi particolarmente inquietante. Il Parlamento
ed il Paese stanno ancora aspettando il varo di un provvedimento
da tutti auspicato e definito necessario, ovvero quello sul
conflitto d’interesse, peraltro formalmente promesso dal
Presidente del Consiglio. Allora bisogna chiedersi che senso ha
varare la legge Gasparri senza aver prima definito i confini
dell’interesse pubblico e privato di chi ricopre responsabilità
istituzionali ed ha rilevanti interessi proprio nel mondo
dell’informazione. Il nostro convincimento riguarda anche la
necessità di far crescere il sistema e transitarlo verso la
rivoluzione digitale solamente dopo che nel nostro ordinamento
vengano definiti una serie di pesi e contrappesi utili a evitare
situazioni di palese squilibrio a favore di chi può contare su
un indubbio preesistente vantaggio di strumenti e mezzi per
operare a discapito di una discussione libera e democratica.

Ecco perché il nostro giudizio negativo è meditato, non frutto
di un atteggiamento visceralmente pregiudiziale ma proveniente
dall’intimo convincimento che, come scriveva Orazio, vi sono dei
limiti al di là e al di qua dei quali non è comunque lecito
andare.

Le correzioni apportate dopo il riesame richiesto dal Presidente
della Repubblica rischiano di essere un lifting certo
migliorativo ma ininfluente sull'impianto generale del sistema.

Checchè ne dica il Ministro Gasparri.
Aventino Frau


GdS 10 V 2004 -
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