INQUIETUDINI ENERGETICHE 1)
1) Tra sconfessioni
ecologiste, pragmatismo anglosassone e balbettii
nostrani
Certo non l’avevano pensato gli ecologisti, ma il protocollo di
Kyoto, consegnandoci la fotografia inquietante di un mondo in
via di profonda modificazione per effetto delle emissioni
climalteranti, ci ha imposto di tornare a riflettere
sull’abbandono del nucleare.
Gas serra e polveri sottili, residui ineludibili di qualsiasi
processo di combustione utilizzato per generare energia e
calore, sono responsabili di un degrado planetario assai
difficile da arginare. Il nucleare non genera né gli uni né le
altre.
Certo genera altri guai, almeno potenzialmente, ed è ormai
evidente ai più che si tratta di scegliere il male minore. E’
preclusa dai fatti l’illusione di poter garantire lo sviluppo
mondiale e l’equilibrio del sistema con la ricetta ecologista:
ridurre i consumi, attivare sterminate distese di generatori
eolici e solari e per il resto bruciare petrolio.
In USA anche i difensori dell’ambiente si sono piegati alla
realtà, dicendo sì a un nuovo programma di centrali nucleari.
Tony Blair, nel Regno Unito, smantella i funambolismi su sole e
vento, prendendo atto della loro totale incapacità di fare
fronte ai bisogni energetici e propone il ricorso al nucleare
per battere smog ed emissioni.
La Francia già oggi produce il 78% del suo fabbisogno con
centrali atomiche e sta pensando a nuovi impianti con tecnologie
ancora più sicure.
Noi importiamo energia ricavata col nucleare dalla Francia; AEM
e EdF sono insieme sull’idroelettrico e EdF in Francia produce
col nucleare; abbiamo affidato colpevolmente ad un referendum la
scelta sul nucleare, senza che ci fosse dato di comprendere il
rischio alternativo, oggi drammaticamente davanti a noi.
I nostri confinanti ci hanno circondato di centrali atomiche e,
dopo Cernobyl, sappiamo bene cosa questo può significare. E
allora riprendiamo a parlare di nucleare, con qualche conoscenza
in più, qualche illusione di intangibilità accantonata (a
proposito, se la smettessimo con quei ridicoli cartelli di
“comune denuclearizzato”!) e soprattutto con la consapevolezza
che non affrontare un rischio comporta l’accettazione di un
disastro già scritto.
Sono sconvolgenti le immagini delle nubi di inquinanti che
coprono il pianeta, gli effetti dell’aumento della temperatura
indotti dai gas serra, le conseguenze sulla salute delle polveri
che ogni combustione genera.
Cosa fare allora? Fermare la crescita dei Paesi in via di
sviluppo? Provate a dire a cinesi e indiani (2,5 miliardi di
persone) che devono continuare ad andare in bicicletta e
mangiare una ciotola di riso. Vedrete cosa vi rispondono! Oppure
possiamo noi ricorrere a riduzioni significative dei consumi,
abolendo giacche e cravatte e spegnendo i condizionatori in
ufficio come in Giappone?
E ancora, siamo disponibili a rinunciare ad alcune comodità di
cui nemmeno più ci accorgiamo quali la lavatrice e l’auto
privata?
Probabilmente ci vorrà qualche alluvione ancora per farci capire
alcune cose che si possono fare senza pensare a regressioni
cavernicole o a blocchi di sviluppo impraticabili. Potremmo, per
incominciare, mettere a posto un po' di cose, razionalizzare,
come dicono gli ingegneri.
Rimuovere inefficienze impiantistiche, potenziare le connessioni
per ridurre i rischi di black-out, rinnovare e realizzare nuovi
impianti ad energia pulita, produrre energia senza bruciare
petrolio, con il nucleare.
E poi educare i consumatori, grandi e piccoli, a sprecare meno,
a lavare piatti e panni di notte, a usare lampadine a basso
consumo, elettrodomestici ad alta efficienza, mezzi di trasporto
collettivi, centralizzare i riscaldamenti per migliorare i
rendimenti e le emissioni, ricavare dalle combustioni il massimo
dei vantaggi energetici e via discorrendo.
L’importante nelle ricette è la credibilità delle stesse e la
praticabilità su scala ampia.
Se Veneto e Puglia, lontane fisicamente e politicamente,
archiviano d’un colpo vento e sole, vorrà dire qualcosa o
continuiamo a raccontarci che il futuro è legato ai loro
contributi energetici? Rischiamo di provocare reazioni di
contrasto anche laddove l’utilità è dimostrata da una lunga
pratica. Come sempre le scelte radicali generano reazioni
irrazionali e oggi di tutto c’è bisogno tranne che di
irrazionalità.
A proposito di ragione, vorrei anticipare il tema che svilupperò
nel prossimo articolo. Assistiamo in questi tempi ad una forte
spinta alla realizzazione di reti di teleriscaldamento,
alimentate da impianti che hanno alla base processi di
cogenerazione di energia elettrica e calore. La prima viene poi
immessa in rete mentre il calore, che costituisce il
sottoprodotto del processo, serve ad alimentare il circuito
primario del teleriscaldamento.
Il combustibile che viene bruciato è vario, dai rifiuti al
metano, passando per tutto quanto sta in mezzo.
C’è sicuramente una prospettiva di miglioramento delle emissioni
nella stagione fredda, ma viene sottaciuto quanto si prospetta
in quella calda, quando il calore non serve, ma seguita a
servire l’energia elettrica.
Per questo il ciclo non si ferma e si continua a bruciare,
immettendo in atmosfera polveri e gas serra. E quindi?
Alla prossima puntata.
2) Teleriscaldamento, produzione energetica e
emissioni climalteranti
E’ tornato di moda, non c’è dubbio!
Dopo i fasti degli anni ’80 e le sperimentazioni degli anni ’90,
il teleriscaldamento torna alla ribalta su vasta scala, complici
i termovalorizzatori e il deficit energetico nazionale e
regionale.
Brescia ha insegnato a tutt’Italia (ma qualcuno si ostina a
preferire il pattume per strada e le discariche!) che i rifiuti
sono merce pregiata.
Bruciare rifiuti in impianti ad alta efficienza e controllo
risolve 3 problemi: eliminare gli scarti di una società
opulenta, produrre energia elettrica da immettere in rete e
calore da distribuire con tubazioni che mettono in pensione
caldaie, camini, inefficienze di combustione, rifornimenti di
gasolio e tutto il resto, sostituiti da un silenzioso e pulito
scambiatore di calore.
L’invidiabile bilancio della municipalizzata bresciana affida le
sue fortune a questa felice intuizione che consente di cogliere
non due, ma tre piccioni con un’unica fava.
Nel recente passato la Regione ha promosso lo sfruttamento delle
biomasse vegetali, nell’ottica di ottimizzare l’eliminazione
degli scarti vegetali producendo calore e distribuendolo sempre
con il teleriscaldamento.
Vi sono esempi interessanti in giro un po' per tutte le Alpi dove
c’è lavorazione del legno e coltivazione del bosco, anche se la
logica di filiera stenta ad affermarsi per gli alti costi di
raccolta della materia prima negli ambiti non industriali. La
pulizia del bosco, almeno in Lombardia, è ancora pratica
eccessivamente costosa per la scarsa accessibilità dei boschi e
per l’assenza di una vera cultura ecologica.
Forse occorrerebbe imparare da austriaci, svizzeri e francesi
come preservare i boschi da incendi e malanni, tagliando qualche
pianta in più e importando un po' meno legname dai “vicini”. Ma
questa é un’altra storia che ci porterebbe lontano.
La Lombardia a livello istituzionale ha concesso cospicui
finanziamenti al teleriscaldamento a biomasse, cui non sono
risultati insensibili gli operatori privati. Il motivo è anche
collegato ai cosiddetti certificati verdi, rilasciati in forza
della convenzione che computa a zero le emissioni di questi
impianti, assumendo che l’anidride carbonica della combustione
sia equivalente a quella assorbita nella crescita dalle piante
che vengono bruciate. Come si sa, i certificati servono per
rispettare (o quasi) i limiti imposti dal protocollo di Kyoto,
che ammette la compensazione delle emissioni degli impianti
“sporchi” con queste attestazioni, originate solo dalle fonti
rinnovabili (acqua, sole e vento) o, appunto, dalla combustione
delle biomasse.
Gli impianti a biomassa funzionano fino a che la biomassa è
disponibile, poi vanno in apnea.
Gli impianti però non si possono fermare: nei condomini e nelle
case sono state smantellate le centrali termiche, eliminati i
serbatoi e i camini ed è impensabile di ritornare indietro.
Ecco allora che si integra la biomassa mancante con altro
combustibile, più o meno pulito. E, già che è tanto, magari si
produce anche un po' di energia, riequilibrando i conti, che
altrimenti metterebbero in discussione il sistema.
A questo punto gli impianti non sono più “puliti” e diventano
assimilabili a normali centrali termoelettriche. Parliamo allora
di questi impianti “sporchi”.
Il livello di inquinamento prodotto dipende da quantità e
qualità del combustibile, dalla tecnologia e dalla gestione.
Si può immaginare senza grandi sforzi che nella stagione
invernale, a prescindere dal combustibile, in un impianto
centralizzato, moderno e monitorato, la produzione di polveri
risulterà sensibilmente inferiore a quella di tanti impianti
datati, sprovvisti di particolari filtri ed eterocondotti.
Se alla produzione del calore necessario al teleriscaldamento
viene abbinata la generazione di energia, a determinare i
quantitativi di combustibile bruciato non sono più i fabbisogni
termici ma i quantitativi di energia che si vogliono produrre.
E’ dunque più che probabile, per non dire sicuro, che si
realizzerà un notevole surplus di di emissioni e di calore
rispetto al necessario. Inoltre non guasta ricordare che a
stagione invernale terminata, questi impianti seguitano a
bruciare solo per la produzione di energia e il calore, inutile
per il riscaldamento, deve essere dissipato attraverso torri di
raffreddamento, a meno che nelle vicinanze esistano impianti in
grado di utilizzarlo (piscine, industrie, ecc.).
Calore a parte, è peraltro evidente che i gas climalteranti e le
polveri finiscono in atmosfera anche d’estate e questo avviene
con qualsiasi combustibile, metano compreso.
Con buona pace del protocollo di Kyoto.
La Lombardia ha approvato il Programma Energetico regionale, il
quale prevede che “le iniziative per la realizzazione di nuovi
impianti termoelettrici ... vanno attentamente valutate sul
piano delle ricadute territoriali e ambientali”, e definisce i
criteri per una corretta distribuzione delle nuove centrali sul
territorio.
La Regione sta oggi facendo i conti con queste prescrizioni e le
nuove centrali termoelettriche difficilmente potranno essere
realizzate in assenza di fabbisogni energetici locali non
coperti e con forti sollecitazioni ambientali già esistenti.
3) Le insane vocazioni
energetiche di un territorio turistico (il nostro)
La provincia di Sondrio da sola fornisce circa il 20% di tutta
l’energia idroelettrica del Paese.
Il territorio è costellato di dighe e invasi, condotte forzate,
gallerie, centrali di produzione. Abbiamo poi linee elettriche
ovunque, ad alta, media e bassa tensione, in funzione e
dismesse, prati di isolatori, interruttori, deviatori e chi più
ne ha più ne metta.
Abbiamo le compromissioni ambientali conseguenti, dalle
discariche del materiale delle gallerie, alle alterazioni dei
bacini intercettati, dalla sottrazione di acque di intere
vallate per convogliarle alle turbine, ai vincoli sottesi agli
elettrodotti.
Tutto questo è storia di una valle dove fare elettricità ha
significato occupazione e opportunità, oltre che limitazioni.
L’energia idroelettrica, l’ultima fonte pulita e rinnovabile di
cui disponiamo dopo la rinuncia al nucleare (sole e vento
servono a poco!), si può produrre solo dove ci sono acqua e
dislivelli.
E così noi, come tutto l’arco alpino, abbiamo i nostri bravi
impianti.
La Lombardia è però una regione terribilmente energivora al
punto che, nonostante le numerose centrali idroelettriche e
termoelettriche installate, registra un deficit energetico che
oggi vale il 38%.
Importiamo cioè da fuori regione il 38% dell’energia che
consumiamo. L’Italia non va mediamente molto meglio e allora
occorre produrre altra energia per ridurre la dipendenza
dall’estero, perchè è da lì che viene l’energia che ci serve, ed
è impensabile strategicamente di avere disavanzi così alti.
Se poi consideriamo che, energia idroelettrica a parte, il resto
(75% circa) è prodotto di combustione di petrolio o gas, è
facile capire che la nostra vulnerabilità è altissima.
Produrre energia?
Sembriamo perfino dimenticarci di quanto stabilito dal Piano
Energetico Regionale per la corretta distribuzione delle nuove
centrali termoelettriche sul territorio che così recita: “Pur
privilegiando, in linea di principio, la coerenza degli impianti
con i fabbisogni energetici locali, si dovrà evitare la
concentrazione delle nuove iniziative in aree già sollecitate da
un punto di vista ambientale, specie quando già dotate di
adeguata capacità di produzione di energia”.
La logica e la legge vorrebbero quindi che da noi non si
impiantassero nuove centrali, termoelettriche in particolare.
Evidentemente però è per noi una vocazione.
Non bastando le grandi derivazioni d’acqua dei principali fiumi
e torrenti, ecco arrivare le piccole derivazioni, solo da poco
arginate dal contestatissimo minimo deflusso vitale che la
Regione ha codificato.
E poi le centrali a biomassa di Tirano e Sondalo che ormai
necessitano del metano per completare la copertura del
territorio (e produrre un pò di energia).
Ed oggi cogenerazione e teleriscaldamento a Sondrio, Morbegno e
forse l’Alta Valle!
E’ singolare che, al riguardo, nemmeno ci si chieda cosa faremo
delle reti di distribuzione del metano realizzate con fondi
pubblici o acquisite a caro prezzo dai privati e destinate, ove
non ammortizzate, a non esserlo mai più, per via della
progressiva sostituzione del teleriscaldamento agli impianti
condominiali prima e anche a quelli singoli poi.
La cogenerazione a metano significa aumentare la pressione
ambientale su un territorio che ha già dato ben più di quanto
dovesse, per i consumi che registra; significa produrre polveri
e gas serra anche quando se ne potrebbe fare a meno; significa
che, dopo lo sfruttamento dei piccoli salti idrici assegneremo
al privato anche quello delle “piccole” centrali
termoelettriche.
Francamente non capisco tutte queste insane vocazioni
energetiche del nostro territorio!
Pensavamo, un tempo, di avere l’aria pulita, ma le rilevazioni
invernali dicono che così non è. Non tanto perchè siamo noi a
inquinare, ma perchè sono gli altri che ci regalano polveri e
gas, dalla pianura e con il traffico.
Il teleriscaldamento a metano è un vantaggio ambientale, se si
brucia il necessario per produrre il calore che serve. Se invece
si brucia di più per produrre energia, il vantaggio va ai
produttori e non all’ambiente, specie d’estate quando il
riscaldamento è spento.
Con buona pace per questa valle e per le sue demenziali
domeniche ecologiche.
Giovanni Bordoni
(x)
(x)
Vice Presidente di
Conferservizi Lombardia
GdS 10 VII 2005 -
www.gazzettadisondrio.it