PACE SULLA TERRA
Venti di guerra (Irak
per sospetti. E allora la Corea del Nord che ufficialmente sfida
con la riattivazione di un reattore nucleare da cui potrebbe
venire il plutonio per 50 atomiche l'anno? Guerra anche lì dopo
l'Irak?). Bush e Blair procedono imperterriti, nonostante, dopo
il Papa, che persino l'Arcivescovo anglicano di Canterbury abbia
tuonato contro e vi siano prese di distanza importanti, ultime
quelle di Germania e Belgio).
Merita proporre ai lettori il messaggio papale di
mercoledì, 11 dicembre scorso.
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE -
PACEM IN TERRIS: UN IMPEGNO PERMANENTE
1. Sono trascorsi quasi quarant'anni da quell'11 aprile 1963, in
cui Papa Giovanni XXIII pubblicò la storica Lettera enciclica
Pacem in terris. Si celebrava in quel giorno il Giovedì Santo.
Rivolgendosi «a tutti gli uomini di buona volontà», il mio
venerato Predecessore, che sarebbe morto due mesi più tardi,
compendiava il suo messaggio di pace al mondo nella prima
affermazione dell'Enciclica: «La pace in terra, anelito profondo
degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e
consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da
Dio» (Pacem in terris, introd.: AAS, 55 [1963], 257).
Parlare di pace ad un mondo diviso
2. In realtà, il mondo a cui Giovanni XXIII si rivolgeva era in
un profondo stato di disordine. Il XX secolo era iniziato con
una grande attesa di progresso. L'umanità aveva invece dovuto
registrare, in sessant'anni di storia, lo scoppio di due guerre
mondiali, l'affermarsi di sistemi totalitari devastanti,
l'accumularsi di immense sofferenze umane e lo scatenarsi, nei
confronti della Chiesa, della più grande persecuzione che la
storia abbia mai conosciuto.
Solo due anni prima della Pacem in terris, nel 1961, il « muro
di Berlino » veniva eretto per dividere e mettere l'una contro
l'altra non soltanto due parti di quella Città, ma anche due
modi di comprendere e di costruire la città terrena. Da una
parte e dall'altra del muro la vita assunse uno stile
differente, ispirato a regole tra loro spesso contrapposte, in
un clima diffuso di sospetto e di diffidenza. Tanto come visione
del mondo quanto come concreta impostazione della vita, quel
muro attraversò l'umanità nel suo insieme e penetrò nel cuore e
nella mente delle persone, creando divisioni che sembravano
destinate a durare per sempre.
Inoltre, proprio sei mesi prima della pubblicazione
dell'Enciclica, mentre a Roma si era da pochi giorni aperto il
Concilio Vaticano II, il mondo, a causa della crisi dei missili
a Cuba, si trovò sull'orlo di una guerra nucleare. La strada
verso un mondo di pace, di giustizia e di libertà sembrava
bloccata. Molti ritenevano che l'umanità fosse condannata a
vivere per tanto tempo ancora in quelle precarie condizioni di «
guerra fredda », costantemente sottoposta all'incubo che
un'aggressione o un incidente potessero scatenare da un giorno
all'altro la peggior guerra di tutta la storia umana. L'uso
delle armi atomiche, infatti, l'avrebbe trasformata in un
conflitto che avrebbe messo a repentaglio il futuro stesso
dell'umanità.
I
quattro pilastri della pace
3. Papa Giovanni XXIII non era d'accordo con coloro che
ritenevano impossibile la pace. Con l'Enciclica, egli fece sì
che questo fondamentale valore – con tutta la sua esigente
verità – cominciasse a bussare da entrambe le parti di quel muro
e di tutti i muri. A ciascuno l'Enciclica parlò della comune
appartenenza alla famiglia umana e accese per tutti una luce
sull'aspirazione della gente di ogni parte della terra a vivere
in sicurezza, giustizia e speranza per il futuro.
Da spirito illuminato qual era, Giovanni XXIII identificò le
condizioni essenziali per la pace in quattro precise esigenze
dell'animo umano: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà
(cfr ibid., I: l.c., 265-266). La verità – egli disse – sarà
fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà
coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri
verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno
concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di
adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L'amore
sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri
come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a
cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine
alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei
mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si
assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni.
Guardando al presente e al futuro con gli occhi della fede e
della ragione, il beato Giovanni XXIII intravide ed interpretò
le spinte profonde che già erano all'opera nella storia. Egli
sapeva che le cose non sempre sono come appaiono in superficie.
Malgrado le guerre e le minacce di guerre, c'era qualcos'altro
all'opera nelle vicende umane, qualcosa che il Papa colse come
il promettente inizio di una rivoluzione spirituale.
Una
nuova coscienza della dignità dell'uomo e dei suoi inalienabili
diritti
4. L'umanità, egli scrisse, ha intrapreso una nuova tappa del
suo cammino (cfr ibid., I: l.c., 267-269). La fine del
colonialismo, la nascita di nuovi Stati indipendenti, la difesa
più efficace dei diritti dei lavoratori, la nuova e gradita
presenza delle donne nella vita pubblica, gli apparivano come
altrettanti segni di un'umanità che stava entrando in una nuova
fase della sua storia, una fase caratterizzata dalla «
convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità
naturale » (ibid., I: l.c., 268). Certo, tale dignità era ancora
calpestata in molte parti del mondo. Il Papa non lo ignorava.
Egli era tuttavia convinto che, malgrado la situazione fosse
sotto alcuni aspetti drammatica, il mondo stava diventando
sempre più consapevole di certi valori spirituali e sempre più
aperto alla ricchezza di contenuto di quei «pilastri della pace»
che erano la verità, la giustizia, l'amore e la libertà (cfr
ibid., I: l.c., 268-269). Attraverso l'impegno di portare questi
valori nella vita sociale, sia nazionale che internazionale,
uomini e donne sarebbero diventati sempre più consapevoli
dell'importanza del loro rapporto con Dio, fonte di ogni bene,
quale solido fondamento e supremo criterio della loro vita, sia
come singoli individui che come esseri sociali (cfr ibid.).
Questa più acuta sensibilità spirituale, il Papa ne era
convinto, avrebbe avuto anche profonde conseguenze pubbliche e
politiche.
Davanti alla crescente consapevolezza dei diritti umani che
andava emergendo a livello sia nazionale che internazionale,
Giovanni XXIII intuì la forza insita nel fenomeno ed il suo
straordinario potere di cambiare la storia. Quel che avvenne
pochi anni dopo soprattutto nell'Europa centrale ed orientale ne
offrì la singolare conferma. La strada verso la pace, insegnava
il Papa nell'Enciclica, doveva passare attraverso la difesa e la
promozione dei diritti umani fondamentali. Di essi infatti ogni
persona umana gode, non come di beneficio elargito da una certa
classe sociale o dallo Stato, ma come di una prerogativa che le
è propria in quanto persona: «In una convivenza ordinata e
feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere
umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di
volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che
scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa
natura: diritti e doveri che sono perciò universali,
inviolabili, inalienabili» (ibid., I: l.c., 259).
Non si trattava semplicemente di idee astratte. Erano idee dalle
vaste conseguenze pratiche, come la storia avrebbe presto
dimostrato. Sulla base della convinzione che ogni essere umano è
uguale in dignità e che, di conseguenza, la società deve
adeguare le sue strutture a tale presupposto, sorsero ben presto
i movimenti per i diritti umani, che diedero espressione
politica concreta a una delle grandi dinamiche della storia
contemporanea. La promozione della libertà fu riconosciuta come
una componente indispensabile dell'impegno per la pace.
Emergendo praticamente in ogni parte del mondo, questi movimenti
contribuirono al rovesciamento di forme di governo dittatoriali
e spinsero a sostituirle con altre forme più democratiche e
partecipative. Essi dimostrarono, in pratica, che pace e
progresso possono essere ottenuti solo attraverso il rispetto
della legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo (cfr
Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite, 5
ottobre 1995, n. 3).
Il
bene comune universale
5. Su di un altro punto l'insegnamento della Pacem in terris si
dimostrò profetico, precorrendo la fase successiva
dell'evoluzione delle politiche mondiali. Davanti ad un mondo
che stava diventando sempre più interdipendente e globale, Papa
Giovanni XXIII suggerì che il concetto di bene comune doveva
essere elaborato con un orizzonte mondiale. Ormai, per essere
corretto, il discorso doveva far riferimento al concetto di
«bene comune universale» (Pacem in terris, IV: l.c., 292). Una
delle conseguenze di questa evoluzione era l'evidente esigenza
che vi fosse un'autorità pubblica a livello internazionale, che
potesse disporre dell'effettiva capacità di promuovere tale bene
comune universale. Questa autorità, soggiungeva immediatamente
il Papa, non avrebbe dovuto essere stabilita attraverso la
coercizione, ma solo attraverso il consenso delle nazioni. Si
sarebbe dovuto trattare di un organismo avente come «obiettivo
fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la
promozione dei diritti della persona» (ibid., IV: l.c., 294).
Non sorprende perciò che Giovanni XXIII guardasse con grande
speranza all'Organizzazione delle Nazioni Unite, costituita il
26 giugno 1945. Egli vedeva in essa uno strumento credibile per
mantenere e rafforzare la pace nel mondo. Proprio per questo
espresse particolare apprezzamento per la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, considerandola «un
passo importante nel cammino verso l'organizzazione
giuridico-politica della comunità mondiale» (ibid., IV: l.c.,
295). In tale Dichiarazione infatti venivano fissati i
fondamenti morali sui quali avrebbe potuto poggiare
l'edificazione di un mondo caratterizzato dall'ordine anziché
dal disordine, dal dialogo anziché dalla forza. In questa
prospettiva, il Papa lasciava intendere che la difesa dei
diritti umani da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite
era il presupposto indispensabile per lo sviluppo della capacità
dell'Organizzazione stessa di promuovere e difendere la
sicurezza internazionale.
Non solo la visione precorritrice di Papa Giovanni XXIII, la
prospettiva cioè di un'autorità pubblica internazionale a
servizio dei diritti umani, della libertà e della pace, non si è
ancora interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo,
la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel
dovere di rispettare e applicare i diritti umani. Questo dovere
tocca tutti i diritti fondamentali e non consente scelte
arbitrarie, che porterebbero a realizzare forme di
discriminazione e di ingiustizia. Allo stesso tempo, siamo
testimoni dell'affermarsi di una preoccupante forbice tra una
serie di nuovi «diritti» promossi nelle società tecnologicamente
avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono
soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo: penso,
ad esempio, al diritto al cibo, all'acqua potabile, alla casa,
all'auto- determinazione e all'indipendenza. La pace richiede
che questa distanza sia urgentemente ridotta e infine superata.
Un'osservazione deve ancora essere fatta: la comunità
internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti
della persona umana, ha per lo più trascurato d'insistere
adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere
che stabilisce l'ambito entro il quale i diritti devono
contenersi per non trasformarsi nell'esercizio di un arbitrio.
Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali
sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le
fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un
ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo
o di un gruppo.
Un nuovo
ordine morale internazionale
6. Resta comunque vero che, nonostante molte difficoltà e
ritardi, nei quarant'anni trascorsi si è avuto un notevole
progresso verso la realizzazione della nobile visione di Papa
Giovanni XXIII. Il fatto che gli Stati quasi in ogni parte del
mondo si sentano obbligati ad onorare l'idea dei diritti umani
mostra come siano potenti gli strumenti della convinzione morale
e dell'integrità spirituale. Furono queste le forze che si
rivelarono decisive in quella mobilitazione delle coscienze che
fu all'origine della rivoluzione non violenta del 1989, evento
che determinò il crollo del comunismo europeo. E sebbene nozioni
distorte di libertà, intesa come licenza, continuino a
minacciare la democrazia e le società libere, è sicuramente
significativo che, nei quarant'anni trascorsi dalla Pacem in
terris, molte popolazioni del mondo siano diventate più libere,
strutture di dialogo e di cooperazione tra le nazioni si siano
rafforzate e la minaccia di una guerra globale nucleare, quale
si profilò drasticamente ai tempi di Papa Giovanni XXIII, sia
stata efficacemente contenuta.
A questo proposito, con umile coraggio vorrei osservare come
l'insegnamento plurisecolare della Chiesa sulla pace intesa come
«tranquillitas ordinis» – «tranquillità dell'ordine», secondo la
definizione di Sant'Agostino (De civitate Dei, 19, 13), si sia
rivelato, alla luce anche degli approfondimenti della Pacem in
terris, particolarmente significativo per il mondo odierno,
tanto per i Capi delle nazioni quanto per i semplici cittadini.
Che ci sia un grande disordine nella situazione del mondo
contemporaneo è constatazione da tutti facilmente condivisa.
L'interrogativo che si impone è perciò il seguente: quale tipo
di ordine può sostituire questo disordine, per dare agli uomini
e alle donne la possibilità di vivere in libertà, giustizia e
sicurezza? E poiché il mondo, pur nel suo disordine, si sta
comunque «organizzando» in vari campi (economico, culturale e
perfino politico), sorge un'altra domanda ugualmente pressante:
secondo quali principi si stanno sviluppando queste nuove forme
di ordine mondiale?
Queste domande ad ampio raggio indicano che il problema
dell'ordine negli affari mondiali, che è poi il problema della
pace rettamente intesa, non può prescindere da questioni legate
ai principi morali. In altre parole, emerge anche da questa
angolatura la consapevolezza che la questione della pace non può
essere separata da quella della dignità e dei diritti umani.
Proprio questa è una delle perenni verità insegnate dalla Pacem
in terris, e noi faremmo bene a ricordarla e a meditarla in
questo quarantesimo anniversario.
Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare
alla costituzione di una nuova organizzazione dell'intera
famiglia umana, per assicurare la pace e l'armonia tra i popoli,
ed insieme promuovere il loro progresso integrale? È importante
evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla
costituzione di un super-stato globale. Si intende piuttosto
sottolineare l'urgenza di accelerare i processi già in corso per
rispondere alla pressoché universale domanda di modi democratici
nell'esercizio dell'autorità politica, sia nazionale che
internazionale, come anche alla richiesta di trasparenza e di
credibilità ad ogni livello della vita pubblica. Confidando
nella bontà presente nel cuore di ogni persona, Papa Giovanni
XXIII volle far leva su di essa e chiamò il mondo intero ad una
più nobile visione della vita pubblica e dell'esercizio della
pubblica autorità. Con audacia, spinse il mondo a proiettarsi al
di là del proprio presente stato di disordine, e ad immaginare
nuove forme di ordine internazionale che fossero a misura della
dignità umana.
Il
legame tra pace e verità
7. Contestando la visione di coloro che pensavano alla politica
come ad un territorio svincolato dalla morale e soggetto al solo
criterio dell'interesse, Giovanni XXIII, attraverso l'Enciclica
Pacem in terris, delineò una più vera immagine dell'umana realtà
e indicò la via verso un futuro migliore per tutti. Proprio
perché le persone sono create con la capacità di elaborare
scelte morali, nessuna attività umana si situa al di fuori della
sfera dei valori etici. La politica è un'attività umana; perciò
anch'essa è soggetta al giudizio morale. Questo è vero anche per
la politica internazionale. Il Papa scriveva: «La stessa legge
naturale che regola i rapporti tra i singoli esseri umani,
regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche» (Pacem
in terris, III: l.c., 279). Quanti ritengono che la vita
pubblica internazionale si esplichi in qualche modo fuori
dell'ambito del giudizio morale, non hanno che da riflettere
sull'impatto dei movimenti per i diritti umani sulle politiche
nazionali e internazionali del XX secolo, da poco concluso.
Questi sviluppi, che l'insegnamento dell'Enciclica aveva
precorso, confutano decisamente la pretesa che le politiche
internazionali si collochino in una sorta di «zona franca » in
cui la legge morale non avrebbe alcun potere.
Forse non c'è un altro luogo in cui si avverta con uguale
chiarezza la necessità di un uso corretto dell'autorità
politica, quanto nella drammatica situazione del Medio Oriente e
della Terra Santa. Giorno dopo giorno e anno dopo anno,
l'effetto cumulativo di un esasperato rifiuto reciproco e di una
catena infinita di violenze e di vendette ha frantumato sinora
ogni tentativo di avviare un dialogo serio sulle reali questioni
in causa. La precarietà della situazione è resa ancor più
drammatica dallo scontro di interessi esistente tra i membri
della comunità internazionale. Finché coloro che occupano
posizioni di responsabilità non accetteranno di porre
coraggiosamente in questione il loro modo di gestire il potere e
di procurare il benessere dei loro popoli, sarà difficile
immaginare che si possa davvero progredire verso la pace. La
lotta fratricida, che ogni giorno scuote la Terra Santa
contrapponendo tra loro le forze che tessono l'immediato futuro
del Medio Oriente, pone l'urgente esigenza di uomini e di donne
convinti della necessità di una politica fondata sul rispetto
della dignità e dei diritti della persona. Una simile politica è
per tutti incomparabilmente più vantaggiosa che la continuazione
delle situazioni di conflitto in atto. Occorre partire da questa
verità. Essa è sempre più liberante di qualsiasi forma di
propaganda, specialmente quando tale propaganda servisse a
dissimulare intenzioni inconfessabili.
Le
premesse di una pace durevole
8. C'è un legame inscindibile tra l'impegno per la pace e il
rispetto della verità. L'onestà nel dare informazioni, l'equità
dei sistemi giuridici, la trasparenza delle procedure
democratiche danno ai cittadini quel senso di sicurezza, quella
disponibilità a comporre le controversie con mezzi pacifici e
quella volontà di intesa leale e costruttiva che costituiscono
le vere premesse di una pace durevole. Gli incontri politici a
livello nazionale e internazionale servono la causa della pace
solo se l'assunzione comune degli impegni è poi rispettata da
ogni parte. In caso contrario, questi incontri rischiano di
diventare irrilevanti e inutili, ed il risultato è che la gente
è tentata di credere sempre meno all'utilità del dialogo e di
confidare invece nell'uso della forza come via per risolvere le
controversie. Le ripercussioni negative, che sul processo di
pace hanno gli impegni presi e poi non rispettati, devono
indurre i Capi di Stato e di Governo a ponderare con grande
senso di responsabilità ogni loro decisione.
Pacta sunt servanda, recita l'antico adagio. Se tutti gli
impegni assunti devono essere rispettati, speciale cura deve
essere posta nel dare esecuzione agli impegni assunti verso i
poveri. Particolarmente frustrante sarebbe infatti, nei loro
confronti, il mancato adempimento di promesse da loro sentite
come di vitale interesse. In questa prospettiva, il mancato
adempimento degli impegni con le nazioni in via di sviluppo
costituisce una seria questione morale e mette ancora più in
luce l'ingiustizia delle disuguaglianze esistenti nel mondo. La
sofferenza causata dalla povertà risulta drammaticamente
accresciuta dal venir meno della fiducia. Il risultato finale è
la caduta di ogni speranza. La presenza della fiducia nelle
relazioni internazionali è un capitale sociale di valore
fondamentale.
Una
cultura di pace
9. A voler guardare le cose a fondo, si deve riconoscere che la
pace non è tanto questione di strutture, quanto di persone.
Strutture e procedure di pace – giuridiche, politiche ed
economiche – sono certamente necessarie e fortunatamente sono
spesso presenti. Esse tuttavia non sono che il frutto della
saggezza e dell'esperienza accumulata lungo la storia mediante
innumerevoli gesti di pace, posti da uomini e donne che hanno
saputo sperare senza cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di
pace nascono dalla vita di persone che coltivano nel proprio
animo costanti atteggiamenti di pace. Sono frutto della mente e
del cuore di «operatori di pace» (Mt 5, 9). Gesti di pace sono
possibili quando la gente apprezza pienamente la dimensione
comunitaria della vita, così da percepire il significato e le
conseguenze che certi eventi hanno sulla propria comunità e sul
mondo nel suo insieme. Gesti di pace creano una tradizione e una
cultura di pace.
La religione possiede un ruolo vitale nel suscitare gesti di
pace e nel consolidare condizioni di pace. Essa può esercitare
questo ruolo tanto più efficacemente, quanto più decisamente si
concentra su ciò che le è proprio: l'apertura a Dio,
l'insegnamento di una fratellanza universale e la promozione di
una cultura di solidarietà. La «Giornata di preghiera per la
pace», che ho promosso ad Assisi il 24 gennaio 2002 coinvolgendo
i rappresentanti di numerose religioni, aveva proprio questo
scopo. Voleva esprimere il desiderio di educare alla pace
attraverso la diffusione di una spiritualità e di una cultura di
pace.
L'eredità della «Pacem in terris»
10. Il beato Giovanni XXIII era persona che non temeva il
futuro. Lo aiutava in questo atteggiamento di ottimismo quella
convinta confidenza in Dio e nell'uomo che gli veniva dal
profondo clima di fede in cui era cresciuto. Forte di questo
abbandono alla Provvidenza, persino in un contesto che sembrava
di permanente conflitto, non esitò a proporre ai leader del suo
tempo una visione nuova del mondo. È questa l'eredità che egli
ci ha lasciato. Guardando a lui, in questa Giornata Mondiale
della Pace 2003, siamo invitati ad impegnarci in quei medesimi
sentimenti che furono suoi: fiducia in Dio misericordioso e
compassionevole, che ci chiama alla fratellanza; fiducia negli
uomini e nelle donne del nostro come di ogni altro tempo, a
motivo dell'immagine di Dio impressa ugualmente negli animi di
tutti. È partendo da questi sentimenti che si può sperare di
costruire un mondo di pace sulla terra.
All'inizio di un nuovo anno nella storia dell'umanità, è questo
l'augurio che mi sale spontaneo dal profondo del cuore: che
nell'animo di tutti possa sbocciare uno slancio di rinnovata
adesione alla nobile missione che l'Enciclica Pacem in terris
proponeva quarant'anni fa a tutti gli uomini e le donne di buona
volontà. Tale compito, che l'Enciclica qualificava come
«immenso», era indicato nel «ricomporre i rapporti della
convivenza nella verità, nella giustizia, nell'amore, nella
libertà». Il Papa precisava poi di riferirsi ai «rapporti della
convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le
rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche;
fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche,
da una parte, e, dall'altra, la comunità mondiale». E concludeva
ribadendo che l'impegno di «attuare la vera pace nell'ordine
stabilito da Dio» costituiva un «ufficio nobilissimo» (Pacem in
terris, V: l.c., 301-302).
Il quarantesimo anniversario della Pacem in terris è
un'occasione quanto mai opportuna per fare tesoro
dell'insegnamento profetico di Papa Giovanni XXIII. Le comunità
ecclesiali studieranno come celebrare questo anniversario in
modo appropriato durante l'anno, con iniziative che non
mancheranno di avere carattere ecumenico e interreligioso,
aprendosi a tutti coloro che hanno un profondo anelito a
«superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli
della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro
che hanno recato ingiurie» (ibid., V: l.c., 304).
Accompagno questi auspici con la preghiera a Dio Onnipotente,
sorgente di ogni nostro bene. Egli, che dalle condizioni di
oppressione e di conflitto ci chiama alla libertà e alla
cooperazione per il bene di tutti, aiuti le persone in ogni
angolo della terra a costruire un mondo di pace, sempre più
saldamente fondato sui quattro pilastri che il beato Giovanni
XXIII ha indicato a tutti nella sua storica Enciclica: verità,
giustizia, amore e libertà.
Dal Vaticano, 8 Dicembre 2002.
Papa
Giovanni Paolo II
GdS - 28 XII 2002 -
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