La mitridatizzazione delle guerre contemporanee
Trasformazione
dell’Europa in Israele
Il poeta Valerio Magrelli interpellato sulla sadica strage
di Madrid ha dichiarato: «A me fa impressione questa specie di
mitridatizzazione (=processo di immunizzazione o di assuefazione
progressiva a sostanze tossiche o medicamentose. E le guerre
oggi non sono veleni, sostanze tossiche per tutti?). Ci stiamo
abituando alla trasformazione dell’Europa in Israele. Come per i
veleni presi a poco a poco la dose di violenza sale in grado
costante. Ci stiamo per assuefare. Non c’è più soluzione di
continuità tra stato di pace e stato in guerra. Proprio come
avviene in Israele”.
Si spera di no., però…
Il guaio è poi che non vi sono più dubbi sulla matrice islamica.
Anzi, è una certezza il fatto che Al Qaeda abbia progettato
altre azioni, visto i suoi “festeggiamenti” per il probabile
ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, con un banner nero con
due foto (una di Bin Laden, l’altra di un treno squarciato di
Madrid e la solita scritta: Allah è grande, incursione a Madrid
11 marzo , la guerra contro i crociati”) apparso nel sito della
sua sezione saudita
(Cfr.: La Stampa, 16 marzo 2004).
Italia nella
lista degli Stati a rischio
Così l’Italia rimane nella lista degli Stati a rischio per il
risaputo fatto che si è dato l’appoggio militare alla guerra
inutile di Bush. La minaccia islamica adesso appare più vicina,
meno controllabile.
Il famoso “scontro di civiltà”, sempre scaramanticamente eluso,
per via che noi occidentali crediamo fermamente nella
democrazia, fa sentire il suo rumore perverso sempre più vicino.
Di fatto, la rete messa in piedi da Osama Bin Laden attraverso
la complicità di numerose organizzazioni non governative (ma
anche dei molti “padroni” di tanta povera gente che crede ad
Allah, tipo sceicchi, sultani, re e quantaltro c’è di peggio nel
potere dei monarchi assoluti, per un verso o per un altro
“discendenti” del profeta Maometto, previsti dal – dicono loro-
Corano) potrebbe favorire l’ingresso in Europa di «soldati»
pronti a immolarsi per la jihad. Gli analisti restano convinti
che le «cellule», specie quelle salafite che sono le più feroci
e determinate, pure presenti nel nostro Paese, con la connivenza
palese o nascosta delle moschee e dei centri di cultura
islamica, possano avere una funzione logistica che si concentra
nel reperimento dei documenti falsi e delle «basi» operative.
Tout court, l'Europa è un obiettivo più facile, più vulnerabile
dell'America, che nel frattempo si è corazzata
Tempo fa il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, ha mandato
ai suoi più stretti collaboratori un memorandum di due pagine
(rivelato da Usa Today) in cui confessava di non avere i mezzi
per giudicare a che punto fosse la lotta contro il terrorismo. E
si chiedeva: “La stiamo vincendo o lo stiamo perdendo? Penso
personalmente che non abbiamo compiuto finora progressi
decisivi". (meno male che, ogni tanto, qualcuno riconosce il
fallimento di certe imprese pericolose ed inutili).
Il contrario di
quel che si voleva
Quello principale era di colpire, contenere il terrorismo, e
vendicare l'11 settembre americano. È’ accaduto il contrario.
L'invasione dell'Iraq ha attizzato l'antiamericanismo nel mondo
musulmano e, in particolare, in quello arabo; e di riflesso il
terrorismo islamico ha trovato un nuovo vigore, ha allargato il
campo d'azione; e non ha impedito un secondo 11 settembre,
questa volta europeo.
E’ inutile strapparsi i capelli: per evitare le “guerre” occorre
conoscere la loro genesi e poi “dialogare” con molti
intellettuali musulmani che “fanno” la loro cultura, per
sconfiggere quella della morte. Dopo l’11 marzo del 2004 anche
l’Europa è entrata nell’era sinistra del terrorismo crudele,
perfido, inafferrabile col marchio Al Qaeda i cui obiettivi sono
di colpire le nostre società in nome della lotta contro i
“crociati e i giudei”.
Al Qaeda non ha un obiettivo politico se non quello di
distruggere la democrazia in occidente e non permettere il suo
possibile cammino nei Paesi musulmani (e non mi venissero a dire
che i “grandi” di quei Paesi sono favorevoli alla sua
inseminazione), oltre ad avere una potente organizzazione,
strutturata in cellule dormienti in cui vi è un gran numero di
candidati al martirio, sistemati nei nostri Paesi, dopo aver
subito un bel lavaggio del loro primitivo cervello
dall’indottrinamento dei vari Osama che hanno come loro unico
scopo l’odio e la distruzione di quanti non praticano la verità
assoluta del Corano.
Non c’è da spaventarsi, ma organizzarsi globalmente sul fronte
della cooperazione politica, militare, giudiziaria, sociale,
conoscitiva.
Sapere cosa è cambiato, cosa sta succedendo, come bisogna
adottare precauzioni per proteggere il nostro stile di vita, la
fluidità dell’economia moderna, la nostra libertà, è un dovere
di quanti hanno a cuore il dialogo tra le culture, non il loro
scontro.
E cominciamo con alcune piccole annotazioni sul come e perché è
cambiata la “guerra” e il modo di combatterla.
Le guerre, tra
ieri e oggi
Ogni epoca ha conosciuto il suo tipo di guerra. Gli obiettivi
politici e le modalità dell’uso della forza – cioè le strategie
e le tattiche – sono sempre state speculari alle tipicità delle
società e dei sistemi economici del proprio tempo. Il fattore
che poi, più ha influito sull’evoluzione di entrambi è stata la
tecnologia, che ha specificato il tipo di organizzazione
sociale. Hegel, per esempio, tra il 1802 e il 1803 scriveva che
la guerra preserva il genere umano dalla fissità e dalla
sclerosi così come il moto dei venti evita alle acque di
ristagnare e di imputridire. La guerra sarebbe, secondo lui, una
"salute etica" dei popoli, la pace un pantano. Ben diversa la
posizione del suo predecessore Kant, che scrisse "Per la pace
perpetua" (1795). “In quest'opera il filosofo tedesco teorizzava
la pace perpetua della comunità concependo il mondo come
un'associazione di liberi Stati nella quale la libertà,
l'indipendenza e l'eguaglianza nei rapporti reciproci fra gli
Stati trovavano un corrispondente e una garanzia nella forma
repubblicana e nella libertà interna di ogni singolo Stato"
(Grande Enciclopedia De Agostini, voce "Pacifismo").
L’era delle informazioni conosce, pertanto, una forma di guerra,
diversa da quelle del passato.
Fine della
guerra simmetrica (e di quella "eroica")
La guerra moderna risponde, grosso modo, a tre “ondate”,
correlate a tre tipi di società: agricola, industriale e
postindustriale.
Nella società attuale, i sistemi politico- sociali che si
combattono sono asimmetrici, così anche le guerre sono quasi
sempre asimmetriche Ad esempio, in Afghanistan vi sono state due
guerre: quella postindustriale degli americani e quella
pre-industriale dei talebani. I conflitti simmetrici sono stati
eventi eccezionali. E’ stata tale, a livello solo virtuale, la
Guerra Fredda. Un conflitto per essere simmetrico, dispone non
solo di tecnologie fruibili simili, ma anche di valori, culture
strategiche, grado di accettabilità di perdite, di rischi e di
distruzioni. Come simili sono i rapporti di forza. In caso
contrario, strategie e tattiche dei due avversari sono molto
differenti. Quello molto più debole deve ricorrere alla
resistenza non violenta, al terrorismo o alla guerriglia. Con la
fine della Guerra Fredda ogni possibilità di guerra simmetrica è
inderogabilmente scomparsa.
Le guerre non scoppiano più fra gli Stati, ma al loro interno.
Esse non vengono più combattute fra eserciti regolari, ma fra di
essi e le milizie originate direttamente dai popoli. Ci si batte
per la propria etnia, per la propria religione, per il controllo
di traffici illeciti, e così via. Essa non è più ritenuta una
razionale continuazione della politica con altri mezzi. La
maggior parte delle perdite (negli ultimi 10 anni, circa il 95
per cento) riguarda le popolazioni civili, non i militari. Sta
del resto scomparendo la distinzione fra i combattenti e i non
combattenti, che aveva costituito una delle principali conquiste
della civiltà. Predominano oggi i fattori irrazionali e le
visioni messianiche. Secondo Edward Luttwak, le democrazie
avrebbero visto diminuire o addirittura perso la capacità
d’impiegare efficacemente la forza militare. Gli eserciti
“borghesi” ad alta tecnologia non sarebbero più capaci di
contrastare i “barbari guerrieri” dei conflitti
etnico-identitari né i terroristi aspiranti al martirio,
fanatici sostenitori di obiettivi millenaristici, senza arrecare
e subire perdite e distruzioni e affrontare rischi, ormai
inaccettabili dalle opinioni pubbliche occidentali. Sarebbero
finite le “guerre eroiche” ed iniziate quelle “post-eroiche”.
Le nuove tecnologie autorizzano un’azione efficace anche contro
i guerrieri tribali e contro gli esaltati ad alta tecnologia.
Le possibilità di un futuro ordine mondiale dipendono dalla
vittoria della guerra contro il terrorismo internazionale. Il
principale pericolo – che potrebbe portare alla frammentazione e
balcanizzazione del mondo – è che, nel confronto fra recenti
barbari e vecchi borghesi, i primi acquisiscano le tecnologie
dei secondi, obbligando questi ultimi ad imbarbarirsi oltre il
necessario, per poterli contrastare( come è successo con la
guerra in Iraq e, come purtroppo, accade in Palestina).
La sopravvivenza dell’Occidente è legata alla capacità di
realizzare efficaci sistemi di dissuasione dall’intraprendere
gesti folli o azioni terroristiche delle dimensioni di quelli
dell’11 settembre 2001 a New York e dell’11 marzo 2004 a Madrid.
E’ ridicolo affermare che il terrorismo internazionale derivi
dalla miseria del Terzo Mondo o dal conflitto
israelo-palestinese. Gli Stati della penisola arabica hanno
investito in Occidente centinaia di miliardi di dollari. Le
organizzazioni terroristiche confluite in al Qaeda si sono
opposte a qualsiasi processo di pace in Medio Oriente. Il
rapporto sulla Quadriennal Defense Review (QDR), presentato al
Congresso degli Stati Uniti il 30 settembre 2002 dal Segretario
della Difesa Donald Rumsfeld, insiste più volte sul fatto che
l’asimmetria – non solo tecnologica, ma anche culturale – deve
costituire la logica di base della nuova dottrina militare degli
Stati Uniti.
La guerra
asimmetrica
Ma cos’è ? Secondo molti esperti, essa assomiglia di più a
quella teorizzata dal grande stratega taoista Sun Tzu (“L'arte
della guerra”) che affermava: "Combattere e vincere cento
battaglie non è prova di suprema eccellenza; la suprema bravura
consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere”
(Il giorno dei SS. Pietro e Paolo del 1440
i Fiorentini sconfissero definitivamente i milanesi nella famosa
battaglia di Anghiari. Perdite: 1 morto, per caduta da cavallo e
botta in testa. L'Orsini aveva schierato così bene le sue truppe
che il Piccinino ne trasse le conseguenze rientrando a Milano...
NdR). Ne hanno parlato per primi (Qiao Liang, Wang
Xiangsui, Guerre senza limiti. L'arte della guerra asimmetrica
tra terrorismo e globalizzazione, a cura del Generale Fabio
Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001) due militari
cinesi, i colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, commissari
politici del loro esercito, che hanno definito Osama Bin Laden
l'interprete più efficace di un nuovo tipo di guerra, prima
degli attacchi agli Usa. L'opera descrive i nuovi scenari
bellici mondiali, spiegando la validità, riconducibile alla
situazione militare cinese degli ultimi anni novanta, delle
nuove strategie: il terrorismo e le sue tecniche, la guerra
condotta attraverso le manipolazioni dei media, le azioni di
piraterie sul web, le turbative dei mercati azionari, la
diffusione di virus informatici e altre armi non tradizionali
In ogni caso, il processo di rinominazione della guerra era già
iniziato da diversi anni cercando un suono e un significato più
accettabile.
Dopo la catastrofe dell'11 settembre 2001, l'impossibilità per
gli USA di potere rispondere a un attacco disastroso condotto da
un nemico poco identificabile, ha fatto sorgere l'esigenza di
dare alla guerra i nomi di "guerra asimmetrica" e di "guerra
invisibile".
Guerra
invisibile
"Guerra invisibile" è il nome con cui si indicano le attività
dei servizi segreti e quelle condotte con la guerra economica e
l'information warfare. Tre tipi di guerra o di operazioni che
possono rimanere invisibili.
Con la fine della guerra fredda, conflitti e crisi, magari
regionali o interni, sono diventati più frequenti. Tuttavia,
mentre i conflitti a "bassa intensità" continueranno ad essere
all'ordine del giorno, ci saranno meno conflitti regionali ad
alta intensità, sulla falsariga della guerra del Golfo. Questo
non significa che i conflitti a bassa intensità saranno
incruenti, anzi è probabilmente vero il contrario, secondo noti
esperti del settore. L'opinione pubblica occidentale non solo
non è disposta ad accettare la morte dei propri soldati in
combattimento, ma estende questo rifiuto anche alla popolazione
civile del nemico e vorrebbe minimizzare le perdite tra i
combattenti avversari. E' il mito della guerra tecnologica,
della guerra pulita, delle armi intelligenti di cui abbiamo
visto i primi segni nel Golfo e poi in Bosnia e ancora in Iraq
nel 2003- che sta influenzando lo sviluppo dei nuovi sistemi
d'arma. Ma le altre guerre, quelle tribali, etnico-religiose e
civili, quelle fra eserciti pre-tecnologici, continueranno ad
essere combattute con ogni mezzo ed arma, con ferocia. Di fatto,
in Africa, si combattono le “guerre dimenticate”, come sono
state indicate da un dossier della Caritas, senza che nessuno si
smuova in Occidente, perché non fanno soldi.
La guerra
multiforme
Oggi si ipotizza pure la "guerra multiforme” che estenderà il
futuro campo di battaglia dalle profondità degli oceani fino
allo spazio: lo sfruttamento dello spazio è da anni una realtà.
Per ora si impiegano satelliti per vedere e sentire quello che
fa l'avversario, scoprire gli obiettivi, verificare gli effetti
degli attacchi, spostarsi e navigare con precisione, trasmettere
informazioni a grande distanza, con rapidità e sicurezza, ma
presto arriveranno vere e proprie armi, compresi quei cannoni
laser o a energia diretta come in Guerre Stellari. Si stanno
sperimentando i primi modelli di quelli che potranno essere gli
spazioplani e già oggi ci sono vari modi per impiegare
militarmente lo Shuttle o la Mir. La robotica e l'intelligenza
artificiale stanno compiendo passi da giganti. I missili
intelligenti sono già dei piccoli robot che eseguono un
programma predefinito, ma queste armi acquisteranno la capacità
autonoma di volare seguendo la rotta più opportuna, scegliere i
bersagli ed attaccarli. Gli stessi aerei pilotati saranno prima
affiancati e quindi parzialmente sostituiti da velivoli senza
pilota. Ovviamente, la robotica, l'automazione e l'intelligenza
artificiale si diffondono tra le forze armate, specie dei paesi
economicamente avanzati.
Le potenze emergenti ed i Paesi in via di sviluppo escogitano
nuovi sistemi per non essere militarmente impotenti nei
confronti di avversari o rivali: ecco quindi la proliferazione
delle armi per la distruzione di massa, chimiche, biologiche e
nucleari. Queste armi e gli impianti di produzione sono
nascosti, dissimulati sotto metri e metri di roccia e cemento,
praticamente invulnerabili. Chi è escluso dai club dei Paesi
ricchi e potenti può controbilanciare lo squilibrio militare
ricorrendo ad armi micidiali che magari l'occidente ha ripudiato
o non è politicamente in grado di utilizzare( quindi, guerra
asimmetrica: per colpire gli avversari si può ricorrere a
sistemi non convenzionali, il terrorismo ad esempio, ma anche e
soprattutto ai missili). E contro il terrorismo ed i missili,
accoppiati alle armi per la distruzione di massa, i paesi
occidentali e neanche gli Usa hanno difese realmente efficaci.
Tra le guerre di ieri e di oggi, uno dei maggiori cambiamenti è
che in passato morivano prevalentemente i soldati, oggi muoiono
in maggioranza i civili. Nella prima guerra mondiale il 90%
delle vittime fu costituito dai militari, oggi la situazione
sembra essersi ribaltata. Ciò è dovuto alla trasformazione dei
sistemi di combattimento e delle tecnologie. Ed anche le "armi
intelligenti" non appaiono aver capovolto la situazione né dato
una svolta "umanitaria" alla guerra.
La sindrome di Madrid prevede un futuro prossimo pieno di
pericoli. A dar retta ai proclami di Osama bin Laden, non ci
sarà alcuna tregua: l’islam ci farà pagare col sangue persino
colpe antiche come le crociate e attuali come la guerra in Iraq
(ah, quel Bush!).
Ma gli islamici sono tutti d’accordo con lui?
DOMANDE
& RISPOSTE
- Prof. Kepel, contrariamente a quanti sostengono parecchi
studiosi dell’islamismo, lei dice che Bin Laden , è decisamente
in declino.
Nel mio ultimo libro (Gilles Kepel, L’autunno della guerra
santa: Viaggio nel mondo islamico, Carocci 2002) ho cercato di
comprendere il dramma dell’11 settembre interpellando giovani e
studenti, predicatori e imam, militanti islamisti e responsabili
politici, ritornando nella regione in cui si era generato. Che
ne era della popolarità di Bin Laden, del risentimento contro
l'America, dell'esaltazione religiosa e di al jazeera, ma anche
del fascino per l'Occidente, dello scoramento di fronte alla
disoccupazione e della voglia di andare via? Dall'Egitto alla
Siria, dal Libano al Qatar e agli Emirati arabi uniti, ho
raccolto a caldo impressioni e testimonianze, per osservare come
l'ultima metamorfosi del jihad cominciata con l'attacco contro
New York aveva condotto all'annientamento dei talebani e alla
caccia a Bin Laden, al termine di cento giorni che hanno fatto
tremare il mondo e accelerato il declino politico
dell'islamismo.
- Lei è convinto che il radicalismo islamico è sostanzialmente
in calo?
Credo possibile che esso lasci il posto alla democrazia, anche
nei Paesi dove è più diffuso. Esiste tuttora il rancore contro
l’America, una certa popolarità di Bin Laden, la mitizzazione
religiosa, però ho registrato, soprattutto, il fascino per
l’Occidente (di fatto, a Madrid la numerosa comunità musulmana
che lì vive integrata nel tessuto sociale spagnolo, quello che
teme di più è sentirsi respingere come “moros”, cioè addirittura
come ai tempi medievali della loro cacciata dalla Spagna che
avevano contribuito a rendere “grande” con le arti).
- E questo a cosa è dovuto?
Vi sono vari documenti di Istituzioni internazionali come l’ONU
o di altri emeriti studiosi dell’islam che affermano che nei
Paesi arabi, manca la libertà, alle donne non è dato alcun
potere politico e vi sono scarse capacità umane- conoscenze in
rapporto al reddito. Nei Paesi arabi si registrano i più bassi
livelli di libertà, inferiori persino a quelli dell'Africa
sub-sahariana.
Mentre le donne arabe hanno fatto progressi in termini di
istruzione primaria, annotano ancora un punteggio modesto nella
gestione del potere, in quanto non risultano coinvolte nel
processo politico. Nella graduatoria mondiale superano solo di
un gradino lo status delle donne dell'Africa sub-sahariana, che
rimangono in fondo, pur essendo il 50 per cento della
popolazione. La loro presenza nei parlamenti arabi è di appena
il 3,5 per cento.
In quanto alle capacità umane- conoscenze in rapporto al
reddito, si sottolinea che esse sono assai deboli e male
utilizzate nella regione a causa dei sistemi didattici poveri e
dell'alto tasso di analfabetismo. Su una popolazione complessiva
di 280 milioni, ben 65 milioni di arabi sono analfabeti e di
questi due terzi sono donne. Istruzione povera vuol dire accesso
limitatissimo all'acquisizione di conoscenze. In base al numero
di Internet hosts in rapporto alla popolazione, i vari esperti
concludono che i Paesi arabi hanno il livello più basso di
accesso alla cosiddetta Information Technology, inferiore,
ancora una volta, all'Africa sub-sahariana. Un altro aspetto di
accesso povero alle conoscenze è il basso tasso di finanziamenti
per la cosiddetta Ricerca e Sviluppo (R&S). Le spese in questo
campo, in relazione al Pil, sono dello 0,4 per cento nel mondo
arabo, rispetto all'1,26 di Cuba, al 2,35 di Israele e al 2,9
per cento del Giappone.
- Cosa ne discende da tutto questo?
In base alle indagini degli studiosi, ben il 51 per cento dei
giovani hanno espresso il desiderio di emigrare in altri Paesi,
come misura della loro insoddisfazione per le condizioni attuali
e le scarse prospettive future. Perciò la differenza fra
aspirazioni e loro realizzazione ha, in alcuni casi, condotto ad
alienazione, apatia e scontento. E ciò, per inciso, l’ho
rilevato personalmente, interrogando tantissimi nel mio viaggio
che mi ha permesso di scrivere il libro già citato.
Lei insiste a dire che l’islam politico è fallito e ciò viene
considerato con un certo imbarazzo, dopo gli attacchi alle Torri
gemelle di New York (ed oggi a Madrid) che hanno gettato il
mondo occidentale nell’angoscia e il continuo scoprire , spesso
anche in Europa, di cellule terroristiche affiliate a Al Qaida...
Oggi disponiamo della distanza necessaria per analizzare questo
fallimento, seppure vengano individuati vari gruppi di
estremisti. La gestazione dell'idea islamista contemporanea, è
iniziata negli anni '60. I teorici erano Sayyid Qotb, l'ideologo
dei Fratelli musulmani egiziani impiccato da Nasser nel 1966,
Mawdoudi, il pakistano che ha esercitato un'influenza
considerevole nell'Asia del sud, fino all'Afghanistan dei
taliban e, certamente, l'ayatollah Khomeini, il solo ad aver
portato a buon termine il suo progetto.
La rivoluzione islamica iraniana simbolizza il secondo periodo,
di cerniera tra gli anni '70 e gli anni '80. Ben al di là del
mondo sciita, il suo «effetto propulsore» si propaga in tutto il
mondo musulmano. La lotta contro i sovietici dei mujaheddin
afghani, sostenuti finanziariamente e ideologicamente dai
sauditi, costituisce il secondo polo dell'espansione islamista
degli anni '80. Sopravvengono allora l'apogeo e il declino, che
si possono situare all'inizio degli anni '90, conseguenza ad un
tempo dei contraccolpi dell'invasione irachena del Kuwait, della
resistenza dei poteri in carica e della rottura tra le diverse
componenti del movimento islamista, sostenuto dalla borghesia
religiosa, dalla gioventù urbana povera e dall’intellighenzia
militante. Solo Khomeini, grazie alla sua abilità , è riuscito a
saldare i tre gruppi, almeno per il tempo necessario a
concludere con successo la rivoluzione e a consolidare il suo
potere. Dappertutto l'alleanza tra la gioventù urbana povera e
la borghesia religiosa, quando c'è stata, si è disfatta, perché
la prima rimproverava alla seconda la sua vigliaccheria mentre
quest'ultima indietreggiava di fronte alla deriva terrorista di
gruppi con riferimenti teologici dubbi. La grande astuzia dei
poteri in carica - dall'Algeria all'Egitto, passando per la
Palestina o la Giordania - è consistita nel ricuperare la
borghesia religiosa emarginando i gruppi estremisti provenienti
dalla gioventù povera.
Da questo fallimento, i delusi dall'islamismo non hanno ora
altra scelta che rivolgersi alla democrazia occidentale, solo
vettore possibile di una modernità alla quale tutti aspirano.
Nel nuovo millennio, potrebbe accadere che si possano integrare
i gruppi sociali esclusi dopo l'indipendenza, favorendo la
nascita di una sorta di democrazia musulmana, mescolando in modo
inedito cultura, religione e modernità politica ed economica.
Questo scenario presuppone che le rinnovate élites che arrivano
al potere, dal Marocco di Mohammed VI (e come la mette, ora che
i sei feroci assassini della gente comune di Madrid, sono tutti
marocchini???) alla Giordania di Abdallah II, dall'entourage
tecnocrate e militare del presidente algerino Bouteflika a
quello del presidente indonesiano Wahid, siano capaci di
proiettarsi nel futuro. Se queste élites si accontentano di
trarre un profitto immediato e egoista dalla scadimento
dell’islamismo, senza impegnarsi nelle riforme, il mondo
musulmano si confronterà a breve con nuove esplosioni
(difatti…), di matrice islamista, etnica, razziale, religiosa o
populista.
- Vi sono delle differenze tra islamismo khomeinista iraniano e
quello talebano?
Dal punto di vista dottrinale la prima differenza è che l’Iran è
un Paese a maggioranza sciita e che il regime dei Talebani è
stato un regime aggressivamente sunnita. L’Afghanistan è un
coacervo di popolazioni, tra cui il gruppo Pashtun, da cui
provengono la maggioranza dei Talebani. L’altra differenza è che
l’Iran è un paese sviluppato e sofisticato con una società
civile estremamente ricca: in questi ultimi anni si è dotato di
una stampa particolarmente critica. È una società che ha
fermenti molto significativi di resistenza all’ordine
costituito, alla ricerca di un difficile equilibrio tra i
conservatori e coloro che vogliono inserire la traiettoria della
Repubblica islamica nella modernità. Basta ricordare i subbugli
delle varie università e la visibilità delle donne iraniane
nell’uso della tecnologia e dei Media.
- Ciò fa supporre che i religiosi iraniani sono permeabili alla
moderazione e alla democrazia, mentre i religiosi talebani non
lo sono affatto? E perché?
In Iran tra i religiosi vi sono persone che hanno riflettuto
sulla questione della democrazia e che si sforzano di realizzare
quella che potremmo chiamare una democrazia musulmana, un po’
come esiste la democrazia cristiana. Questo non è avvenuto in
Afghanistan perchè i Talebani sono stati formati da una scuola
molto rigorista di islam sunnita, la scuola Deobandita (da
Deoband, città a nord di Delhi), una forma di rigorismo secondo
la quale la democrazia è una forma di empietà.
- Il mondo musulmano visto da una prospettiva europea, spesso
viene equivocato. Quali sono gli errori più comuni che si
commettono?
Uno dei problemi ricorrenti riguarda il fatto che da entrambe le
parti vi sono un certo numero di attori politici interessati a
montare discorsi che legittimino il cosiddetto "scontro delle
civiltà", ovvero che lavorano ad alimentare l'immagine delle
culture come insiemi omogenei e tra loro antagonisti, facendo
passare in secondo piano o negando del tutto, le contraddizioni
interne alle diverse società. Inoltre, c'è da parte di costoro
una seria tendenza a chiudersi nella propria cultura sminuendo
la solidarietà che attraversa società tra loro distanti. Nel
caso del mondo musulmano, i movimenti islamisti nati nel corso
del XX secolo, la cui forza è esplosa soprattutto a partire
dagli anni '70, si sono palesati sempre parecchio impazienti di
produrre una ideologia religiosa il cui obiettivo fosse di
ammorbidire o occultare la conflittualità sociale. Nel mio libro
ho cercato di dimostrare come il movimento islamista sia tutt'altro
che omogeneo. Inoltre, non è raro che gli occidentali
considerino i musulmani come una massa di poveracci, di
individui a piedi nudi, trascurando di valutare il peso delle
classi medie religiose, dei commercianti e di un complesso di
studenti, intellettuali e produttori di ideologie; perché la via
per conquistare il potere è sempre passata attraverso la
saldatura di queste diverse componenti sociali intorno a un
discorso religioso temerario. E' accaduto, per fare l'esempio
più clamoroso, in Iran, dove una volta che Khomeini ha trionfato
si è assistito alla eliminazione progressiva dei gruppi sociali
più deboli da parte del clero alleato con i mercanti dei bazar.
Dovunque, il successo e poi il fallimento dei movimenti
islamisti sono dipesi dalla capacità o meno di costruire
alleanze di classe. Un altro tra gli equivoci più comuni
riguarda l'uso del termine jihad: solo in determinati contesti
prende la valenza di lotta armata contro gli empi. Ma nella
storia dell'islam è stata usata dagli ulema con molta
moderazione, perché è un provvedimento a doppio taglio e può
facilmente rivoltarsi contro chi l'ha proclamata. La jihad
sospende gli obblighi che regolano la società, crea una sorta di
stato d'eccezione e se non è ben controllata può sfociare nella
sommossa e nella guerra civile, con le ovvie conseguenze di un
pesante indebolimento sociale.
- Dal suo libro si evince che i movimenti islamici più radicali
siano particolarmente esperti nei media e che abbiano
un’eccellente familiarità con le nuove tecnologie. Lei racconta
che fin dall'88 l'organizzazione di Bin Laden ha creato un
database in cui sono schedati tutti gli jihadisti e i volontari
passati per i campi di addestramento. Come si interpreta la
scelta di questo incrocio del fondamentalismo più intollerante
con le conquiste della tecnologia avanzata?
Tanti dei militanti jihadisti sono usciti dalle facoltà delle
scienze applicate: tra loro vi sono studenti di ingegneria, di
medicina, di informatica divenuti molto presto attivi in questi
campi con la pretesa di esercitare sulle conquiste scientifiche
un controllo che ponesse la loro visione del mondo al riparo da
ogni possibile corruzione. Invece di rimettere in questione i
precetti religiosi avviando una riflessione che sarebbe stata
d'obbligo, si sono irrigiditi nella edificazione di una barriera
tra l'ideologia religiosa e quella tecnologica, salvo poi
utilizzarne i risultati. Gli attentati al World Trade Center,
spaventosi per le migliaia di morti, i danni e le conseguenze
catastrofiche che hanno creato, si inscrivono deliberatamente
nella ricerca di un grande scenario. Certo, dietro a Bin Laden
esiste un reticolo complesso formato da individui da lui
utilizzati e che probabilmente lo usano. Bisognerebbe capire a
chi fa capo la rete delle sigle finanziarie, quali gruppi
nascondono e quali interessi incontrano nei diversi Paesi. Per
ora, è impensabile conoscerli.
- Fanno una certa impressione gli attentatori suicidi. Quali
radici storiche e culturali ha il loro reclutamento nel mondo
islamico?
E’ un fenomeno variabile nel corso della storia. Quando è stato
possibile accertare l'identità dei kamikaze, colpisce il fatto
che provengono dalle classi medie della penisola arabica,
insieme alla constatazione che hanno studiato e sono stati
educati in buone famiglie. Lo confermano i siti Internet degli
islamisti, dove sono pubblicate le biografie dei "martiri della
jihad" morti in Bosnia, in Cecenia; e ciò vale anche per i
terroristi che sappiamo coinvolti nei recenti attentati. Del
resto, lo stesso Bin Laden proviene da una famiglia di muratori,
anche se poi il padre si costruì una carriera strepitosa come
costruttore di corte. Dunque, il reclutamento non si verifica,
come ci si sarebbe potuto aspettare, tra le masse dei diseredati
che non hanno nulla da perdere. Ciò è un segno degno di
attenzione, che necessita di essere compreso. E' come se
l'ideologia e la forza della jihad colpisse in determinato modo
la sensibilità dei figli della media borghesia.
- Lei definisce Bin Laden un personaggio "assurdo", ma allo
stesso tempo sembra attribuirgli una certa congruenza
ideologica. Per esempio, nei mesi immediatamente precedenti
l'invasione del Kuwait, le "sparate" di Saddam Hussein indussero
Bin Laden a offrire il suo aiuto alla monarchia saudita per
difendere le frontiere. Ma quando re Fahd, nonostante fosse il
"servitore dei due luoghi santi", si appellò alla coalizione
internazionale guidata dagli Stati Uniti, Bin Laden si unì ai
gruppi ostili al potere e ruppe radicalmente con Riyadh...
Bin Laden è stato educato in Arabia Saudita, ma la sua logicità
ideologica è nata nel milieu salafista ed è stata ulteriormente
rinforzata nei campi di formazione afghani, enfatizzandosi con i
principi della jihad, che egli concepisce nella sua forma più
violenta e minoritaria. A questa Bin Laden è rimasto fedele,
come pure al lavoro sociale e di formazione delle folle, che ha
indirizzato prima contro i sovietici invasori dell'Afghanistan,
poi contro i nemici americani dell'islam che si erano insediati
nell'Arabia Saudita.
- I talebani però, si sono foggiati alla scuola deobandita, una
filiazione dell'islam poco conosciuta, che ha avuto larga
influenza in India e in Pakistan. Quali sono le origini storiche
di questo gruppo?
Quando gli inglesi iniziarono la colonizzazione del continente
indiano, la maggioranza del Paese era indu e la dinastia
musulmana si trovò ad essere contemporaneamente in una posizione
di minoranza e sottoposta al potere degli stranieri. Bisognava
scoprire un modo di applicare la legge coranica nella vita
quotidiana: per se stessi, visto che non c'era uno Stato
musulmano di riferimento che la rendesse d'obbligo. I precetti
religiosi furono imposti attraverso ogni sorta di fatwa e di
diverse deliberazioni giuridiche prese dagli ulema. Dalla
reazione alla necessità di restare buoni musulmani in una
condizione di marginalità politica, si originò la risposta dei
deobanditi, i quali edificarono una sorta di controsocietà senza
stato. Al loro insegnamento si richiamano i talebani, cioè gli
studenti di teologia figli dei rifugiati afghani durante la
guerra contro i sovietici, che vennero educati nelle scuole
religiose pakistane(le madrasse), dove svilupparono un’idea di
controsocietà religiosa. Tornati in Afghanistan, a partire dal
1994 vennero aiutati a prendere il potere dai servizi segreti
pakistani appoggiati dagli Stati Uniti. Due anni prima i
mujeaddin afghani avevano rovesciato il regime filosovietico e
la situazione era sfociata nella anarchia più assoluta. Perciò,
purché ci fosse un governo stabile, e senza preoccuparsi di che
natura esso fosse, i talebani vennero istallati alla guida
dell'Afghanistan con ingenti aiuti della CIA.
- Secondo lei, quali saranno le ripercussioni degli attentati
dell'11 settembre (e ora quelli dell’11 marzo 2004 a Madrid?)
sulla pace tra Israele e Palestina?
In questa circostanza le tensioni in Medio Oriente sono
particolarmente esasperate, e ciò fa supporre a contraccolpi
molto pesanti. In effetti, dall'inizio della seconda intifada,
nell'autunno del 2000, si è formata nella maggior parte degli
Stati musulmani un’opinione pubblica fortemente antiamericana.
Il governo degli Stati Uniti viene accusato di non avere posto
freni alla politica di Sharon, e questo ha esasperato gli animi.
Si è creato un clima tale che la solidarietà con l'America è
debole. Se confrontiamo la situazione attuale con quella del
'91, all'indomani della vittoria militare americana in Iraq, la
differenza è evidente. Allora, Bush padre piegò il braccio tanto
agli israeliani che ai palestinesi per costringerli a
intraprendere la logica delle negoziazioni che avrebbe condotto
agli accordi di Oslo. Oggi, invece, pare che l'amministrazione
Bush abbia trascurato del tutto la questione mediorientale.
- Per quali ragioni, secondo lei, i movimenti islamisti del
mondo contemporaneo, non sono mai andati al potere, salvo che in
Iran, e anche qui per un tempo storicamente breve?
La sfida storica di fronte alla quale si sono trovati i
movimenti islamisti del XX secolo si è giocata sul terreno dei
diversi nazionalismi che si opponevano alle occupazioni
coloniali. Una volta conquistata l'indipendenza, gli islamisti
di opposizione, che pure erano presenti nella coalizione
nazionalista, vennero sconfitti e il mondo dell'islam storico si
ritrovò frammentato in diverse comunità di riferimento, dagli
stati arabi alla Turchia, dal Pakistan alla Malesia e
all'Indonesia. All'epoca, due differenti ideologie si
scontravano nei nuovi stati: quella dei nazionalisti laici, che
magnificavano la rottura con il passato, e quella dei pensatori
islamisti più influenti che la deprecavano. Ma il loro tentativo
di promuovere una rivoluzione culturale fondata sul riferimento
religioso all'islam fallì, travolto dalle ambiguità delle
alleanze sociali o dalla conflittualità di classe. I rapporti di
forza si rovesciarono di nuovo negli anni '70, quando i
movimenti islamisti si riaffermarono sulla scena, proprio in
opposizione alle istanze nazionaliste. Ancora una volta, però,
mancarono di coerenza politica: la loro forza dipendeva nel dare
rappresentanza a una coalizione sociale eterogenea, com'è
avvenuto in Iran. Ma per ottenere questo obiettivo bisognava
rendersi portatori di un ideale religioso e morale, che non può
allo stesso tempo contenere un progetto politico davvero
moderno. Da questa ambiguità nasce la loro debolezza ideologica.
- Lei riferendosi ad un certo estremismo islamico e ai talebani,
parla di milieu salafista, di scuola deobandita, di madrasse…Può
chiarirci questi richiami?
Esistono diverse definizioni del termine “salafismo”, ma il modo
in cui viene interpretato da Bin Laden e dalla gente della Jihad
fa riferimento a una visione molto letterale e rigorista
dell’islam, che assomiglia un po’ a quella che viene messa in
atto in Arabia Saudita; il modello del wahabismo saudita ha
fortemente influenzato la visione del mondo adottata da persone
come Bin Laden che, tra l’altro, si è formato nel contesto
saudita. Alcune brigate internazionali, nate per respingere
fuori dai confini dell'Afghanistan le truppe dell'Armata rossa,
raggiunto l'obiettivo si trasformarono per operare fuori dai
confini e per dare il proprio contributo alle diverse cause
dell'islamismo radicale nel mondo. La base dottrinale su cui si
mossero i primi militanti fu quella del "salafismo della Jihad",
un ritorno cioè alla tradizione ("pii antenati", salaf in
arabo), prendendo alla lettera le prescrizioni dei Testi sacri e
ricorrendo alla Jihad per raggiungere gli obiettivi. I 'salafisti
della Jihad' presentarono delle affinità con un altro gruppo
dell'Islam locale, i Taleban che nel 1996 conquistarono Kabul.
La differenza risiedeva essenzialmente nel fatto che i Taleban,
di etnia pashtun, provenivano dalle madrasse tradizionali di
scuola deobandita che non considerano la Jihad una priorità,
hanno inoltre uno scarso senso dello Stato e sono poco
interessate alle questioni internazionali. La Jihad per loro
deve essere soprattutto rivolta contro la società, cui impongono
un rigorismo assoluto.
Le Madrasse - scuole islamiche della setta deobandita -
diventano centri di raccolta, assistenza ed addestramento
politico militare. In questo senso rappresentano un vero
elemento innovativo della strategia di penetrazione del
fondamentalismo islamico. Il Deobandismo, l’ideologia edificante
dei taliban, è una setta sunnita, nata alla metà del XIX secolo
nella città indiana di Deoband (da cui il nome) a nord di Delhi.
E’ caratterizzata dal rigorismo basato sulla lettera delle
scritture (simile al wahabbismo saudita) con un’impronta
decisamente conservatrice. La struttura della setta si sviluppa
attraverso le scuole (madrassa – scuola e taliban - studente)
che hanno lo scopo di formare ulema capaci di esprimere fatwa
sui diversi aspetti della vita. Inoltre la formazione degli
ulema avviene attraverso il sistema convittuale per cui il
giovane viene immerso completamente nella madrassa e nella sua
socializzazione e sradicato dal suo ambiente sociale. In
Afghanistan, dove vi sono stati migliaia di orfani, la
prospettiva deobandita ha rappresentato una forma di assistenza
e di integrazione sociale.
- Fino a che punto è lecito forzare la comprensione di una
cultura “altra”, come è l’islamica?
La risposta è nell’individuo che, di fronte a etnie e culture
diverse si ritrova ad essere egli stesso altro e diverso, e
quindi nella propria volontà non di ri- conoscere, ma di
conoscere e di farsi conoscere, nell’integrità e nel rispetto
che ogni essere umano e quello che porta con sé merita.
SCHEDA - CHI è:
Gilles Kepel, scrittore e professore all'Institut d'études
politiques di Parigi, è tra i maggiori studiosi dell'Islam
politico. E’ invitato a moltissimi convegni internazionali( a
Venezia vi è stato per le giornate di studio alla G. Cini
:“Quale Dio, per quale umanità? nel maggio 2000 e a Fondamenta(
giugno 2002): Nel conflitto. I suoi libri più noti sono: Jjhad.
La rivincita di Dio e L’autunno della guerra santa: Viaggio nel
mondo islamico( Carocci 2002).Si esprime in un perfetto
italiano, oltre che a parlare correntemente varie lingue.
Maria De
Falco Marotta
GdS 20 III 2004 - www.gazzettadisondrio.it