"La Peste", di Albert Camus, il coronavirus per tutti
(Maria de falco Marotta) Nel 1992 il regista argentino Luis Puenzo fece un adattamento de La peste, il romanzo pubblicato da Albert Camus nel 1947. Puenzo decise di spostare l’azione da Orano, prefettura francese in Algeria, all’America Latina e ambientò la storia negli anni Novanta, cinquant’anni dopo i fatti raccontati nel libro. Quello che è interessante rilevare è come questi cambiamenti non influissero troppo sulla storia, rendendo chiaro quanto questo romanzo fosse ancora un attuale. Oggi l’emergenza COVID-19 lo dimostra ancora di più. Quello che Albert Camus scrisse allora, vale terribilmente oggi.
Dopo l’uscita del libro, lo scrittore Louis Guilloux scrisse a Camus: “Sto rileggendo La peste per la terza volta. È un grande libro e crescerà ancora”. Oggi il romanzo è tornato ai vertici delle classifiche di vendita perché infatti riesce ancora in quello che Camus si era proposto di fare: esprimere, attraverso le reazioni a un’epidemia, “il soffocamento di cui tutti soffriamo e l’atmosfera di minaccia ed esilio in cui viviamo”. Nel libro, la città di Orano assomiglia ai luoghi spersonalizzanti in cui la maggioranza delle persone oggi vive. Se è vero, come scrive Camus, che “un modo facile per conoscere una città è scoprire come vi si lavora, come si ama e come si muore”, è impossibile non ritrovare in questa ambientazione un’atmosfera familiare. A Orano “tutto […] si fa allo stesso modo, con la medesima aria frenetica e assente”. Gli abitanti di questa città sono ossessionati dal desiderio di arricchirsi e vivono rapporti vuoti e superficiali, un po’ per scelta e un po’ perché sono troppo cinici per amare davvero anche solo loro stessi: la vita scorre velocemente e la città ingoia tutti e tutti, senza preoccuparsi di chi non ha la forza di stare al passo, come succede nella nostra società e come già succedeva all’epoca della pubblicazione del libro. Appare quasi inevitabile che in un una società del genere, in cui “è difficile anche essere malati”, per riscoprire la propria umanità si debba passare attraverso una sofferenza collettiva, una malattia comune che finisce per influenzare anche l’esistenza di chi di fatto non ha contratto alcun virus.
Quando arriva la peste a Orano, la si scambia per un’altra malattia e la si sottovaluta: in questi casi, lo abbiamo vissuto in prima persona, diventa troppa la paura di doversi fermare a fare i conti col problema. Nessuno vuole rallentare i propri ritmi, forse per paura di scoprire che dietro quel tourbillon di scadenze, impegni lavorativi, aperitivi e rapporti superficiali non ci sia nulla. All’inizio, ci si illude che la certezza sia “nel lavoro di tutti i giorni” e si spera che, continuando a ignorare il pericolo, tutto tornerà in automatico alla normalità. In caso di guerre o epidemie la prima reazione, come dice Camus, è sempre quella di autoconvincersi che: “È una follia quindi non durerà”. Come se la capacità di analisi non lasciasse spazio all’imprevedibile: abbiamo apparente controllo su qualunque aspetto delle nostre vite e questo ci autorizza a pensare che anche un’epidemia sia potenzialmente un inconveniente con cui convivere senza troppe rinunce.
Un estratto de La peste potrebbe tranquillamente essere spacciato come una fedele cronaca delle prime settimane del diffondersi della COVID-19: “Nessuno aveva ancora davvero accettato la malattia. Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione”. Anche i morti, in un mondo tanto egoista, all’inizio non smuovono nessuna coscienza. Rimangono numeri astratti, un bollettino ripetuto dai media e ascoltato sovrappensiero, mentre si continua a pensare in primis ai propri affari: l’incremento delle morti è un incidente di cui prendere atto ma che viene percepito come temporaneo. Nel libro come nella realtà, a poco servono gli inviti alla responsabilità, alla fine le strade si riempiono e l’epidemia rimane un argomento di conversazione, utile più che altro a dissimulare il proprio disinteresse verso il resto dell’umanità. Anche quando la pandemia è ormai una realtà e si vaglia seriamente l’ipotesi di chiudere le porte e isolare le persone, l’egoismo non scompare. Tutti pensano a scappare, fingendo di non sapere che il tentativo di mettersi in salvo è in realtà un gesto prepotente e individualista: gli abitanti di Orano non vogliono ricongiungersi con i propri affetti, vogliono solo fuggire dalla malattia e forse pure dalla consapevolezza di quello che sono diventati in un ambiente così compromesso. Nel libro come nella realtà, tutti si giustificano raccontando le loro storie personali, mettendo ancora una volta il proprio bene davanti a quello della collettività, sperando di trovare una soluzione altra che in una situazione del genere è per sua natura impossibile.
Anche un sentimento positivo come la pietà in questo contesto si svilisce, esprimendosi in dichiarazioni e comportamenti che fanno trapelare una solidarietà che è solo di facciata. Gli abitanti di Orano e quelli dei luoghi che oggi vivono in maniera più pesante la pandemia vedono ogni giorno arrivare messaggi di vicinanza da sconosciuti in tutto il mondo ma spesso finiscono per essere soltanto parole di circostanza. Camus scrive che queste voci che vorrebbero dare conforto dimostrano in realtà solo “La terribile impotenza di ogni uomo nel condividere davvero una sofferenza che non può vedere”. Alla fine, come dice il protagonista Bernard Rieux: “Ci si stanca pure della pietà, quando essa è inutile”. Dimostrazioni di pietà pubblica, come la settimana di preghiera organizzata nel libro, finiscono per rimanere spesso momenti sterili che non portano a niente, se non a una rassicurazione momentanea.
La solitudine si è acuita ogni giorno di più, anche perché ciascuno di noi ha perso da tempo la voglia di ascoltare le inquietudini altrui, per paura di riconoscersi nelle preoccupazioni e nei dubbi di un altro: quando è diventato chiaro che il nostro mondo finiva sul nostro balcone, abbiamo avuto una crisi di rigetto. Siamo diventati proprio come i personaggi del romanzo di Camus: “Insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro”. Nei primi giorni, oltre all’incertezza per il futuro, infatti, anche il confortevole passato ha iniziato a farci paura. L’accademica francese Aurélie Palud ha giustamente evidenziato che, come ne La peste anche nella realtà: “Ciò che era familiare ci è apparso improvvisamente minaccioso”, e questo ha creato un grande disorientamento in un mondo impaurito dal domani e abituato a rifugiarsi nella nostalgia.
Poi qualcosa, lentamente, ha iniziato a cambiare. L’isolamento obbligato sembra averci anche fatto capire che non possiamo sempre comportarci da individualisti e vivere ignorando gli altri. Anche nelle nostre case, così simili a quelle degli oranesi, si è tornati ad apprezzare la vicinanza delle persone che amiamo, anche quando si tratta di un senso di prossimità solo virtuale.
È forse questa la grande differenza tra il romanzo di Camus e il presente: noi abbiamo gli strumenti per manifestare agli altri, seppur lontani, quanto vogliamo loro bene e possiamo trovare nuovi modi di stare assieme. Ne La peste, le linee telefoniche sovraccariche impediscono le chiamate e le lettere vengono bandite perché potrebbero trasmettere il virus. Noi non abbiamo questi problemi: possiamo ancora comunicare e forse stiamo imparando a farlo meglio.
Abbiamo l’opportunità unica di imparare una lezione che ci tornerà utile, anche una volta finita la quarantena. Come suggeriva Camus, per affrontare la situazione comune, gli uomini devono superare l’indifferenza e riscoprire il valore della fratellanza. Nel saggio L’uomo in rivolta, del 1951, Camus scriverà: “La sofferenza individuale diventa peste collettiva. […] Io mi ribello, dunque siamo”.
Quello che davvero dobbiamo fare è smetterla di pensarci come individui e tornare a identificarci con una collettività. In una lettera al filosofo Roland Barthes, Camus riconosceva quanto fosse fondamentale il “passaggio da un atteggiamento di rivolta solitaria al riconoscimento di una comunità le cui lotte devono essere condivise”. La piaga, continuava lo scrittore franco-algerino, sarebbe terminata solo “accettando le lotte a venire”. Perché questo accada, non bisogna smettere di provare compassione ed empatia per gli altri. Era lo stesso Camus ad annotare, nei quaderni di appunti che riempiva mentre scriveva La peste: “Non devi, non devi mai abituarti a vedere gli uomini morire come mosche, come fanno oggi nelle nostre strade e come hanno sempre fatto da quando ad Atene la peste ha ricevuto il suo nome. Non smetterete mai di essere sgomenti”.
C’è nel libro un dialogo molto significativo tra due dei protagonisti, il dottor Rieux e il giornalista Rambert. Quest’ultimo ha cercato per tutto il libro di tornare a casa, l’unico modo che aveva per raggiungere la felicità tanto inseguita, ma alla fine rinuncia all’opportunità e decide di rimanere a dare una mano a Orano. Rieux cerca di dissuaderlo, gli dice che non c’è nulla di male a pensare alla propria felicità, ma Rambert non cambia idea perché “ci può essere vergogna nell’esser felici da soli”. La pandemia prima o poi verrà arrestata e la quarantena finirà. E quando succederà, dovremo resistere alla tentazione di provare a dimenticare del tutto questo periodo, come fecero gli oranesi nel libro di Camus.
Non bisogna sottovalutare la dura lezione che questo virus ci sta impartendo: solo uniti e solidali possiamo crescere come società. “Andrà tutto bene” davvero soltanto se ci ricorderemo, una volta di più, come restare umani, o come tornare a esserlo.
Foto Wikipedia: Camus alla consegna del Premio Nobel