La paura non fa novanta, ma kamikaze islamico
Rischio
planetario
Dopo le morti di tanti innocenti nelle sinagoghe di Istanbul
(Turchia) e la strage dei nostri carabinieri in Iraq
rivendicati proprio in questi giorni da Al Qaeda, il
terrorismo islamico emerge, ancora una volta, come un
rischio planetario. Tanto si sapeva che la "Jihad globale"
sferrata da Osama Bin Laden l’11 settembre a New York,
avrebbe infranto ogni barriera, anche quella dei Paesi del
ventre molle dell’islam (Marocco, Turchia…, cioè i Paesi
musulmani più “occidentalizzati”), specie dopo la
“sconfitta” dell’Iraq. Ciascuno di noi comincia a percepire
un senso di insicurezza e di angoscia, che entra nel nostro
vissuto, nella nostra quotidianità, per la semplice ragione
che nel passato, si pensava al “nemico” lontano da noi, oggi
invece è in casa, si annida come una serpe fra noi.
Centrali
dell'integralismo
Infatti, in Italia, grazie alla nostra benevolenza politica
di “volemese tutti bbene”, sono presenti delle associazioni
che rappresentano le centrali dell'islam integralista e
radicale mondiale:
1) i Fratelli musulmani;
2) il wahhabismo saudita;
3) lo sciismo khomeinista;
4) l'ideologia jihadista di Bin Laden.
E’ inutile chiudere gli occhi. Le varie inchieste
giudiziarie, in particolare quelle svolte a Milano e a
Napoli, hanno confermato la presenza di cellule
terroristiche islamiche nel nostro Paese, una "struttura
organica dell'islam radicale" , oltre che l’infiltrazione
dell'ideologia islamica radicale. Ospita cellule di Al Qaeda
e di gruppi terroristici mediorientali. È divenuta terra
d'indottrinamento e arruolamento per aspiranti mujahiddin,
miliziani islamici, che hanno combattuto in Afghanistan,
Bosnia e Kashmir. Forse anche in Palestina e Iraq. Dai
pulpiti di certe moschee si predica la Jihad, la Guerra
santa; s'esaltano i "martiri” (gli shahid), si pratica il
Takfir (la condanna d'apostasia, con la sentenza di morte,
nei confronti dei musulmani che non condividono
l'interpretazione fondamentalista e violenta dell'Islam).
Inoltre, gli estremisti islamici hanno sentenziato che
l'Italia è diventata un Dar al-harb, territorio di guerra,
legittimandone l'aggressione. Avremo, insomma, kamikaze col
marchio DOC, cioè “italiani”.
Ma cosa li
muove?
Il giovane musulmano decide di sacrificare la propria vita
per la causa dell'islam per tre ragioni: 1) lo stato di
necessità (la povertà e la vendetta); 2) l'emarginazione
sociale (la frustrazione per l'incapacità di inserirsi con
successo nella società nel contesto di un sistema avvertito
come socialmente ingiusto); 3) la crisi d'identità (il
rifiuto o la dissociazione dal sistema dei valori vigenti o
comunque di riferimento).
In Italia, dove gli immigrati provengono in maggioranza da
Paesi poveri, si notano tutte e tre queste cause.
Senza poi dimenticare che il loro sistema
religioso-culturale forgia le menti e gli animi degli
aspiranti mujahiddin e shahid, per mezzo delle moschee che
predicano la Jihad, esaltano il "martirio" e praticano il
Takfir; i centri islamici che fungono da basi di
arruolamento e trasferimento dei mujahiddin sui campi della
Jihad all'estero; il complesso informativo e culturale
(scuole islamiche, libri, audio e videocassette, siti
Internet, seminari, manifestazioni pubbliche) che
convalidano un'identità islamica separata dalla società
italiana e avallano una militanza rivoluzionaria contro i
valori dell'Occidente.
Dal punto di vista finanziario, il denaro ai gruppi islamici
radicali affluisce da varie fonti: 1) le donazioni fatte
alle moschee: l'elemosina durante la preghiera collettiva
del venerdì; la zakat, una tassa islamica annuale; la sadaka,
un'offerta una tantum nelle festività; 2) i proventi di
attività commerciali legate alle moschee (macellerie,
alimentari e ristoranti halal- puri, cioè secondo le norme
coraniche-; librerie); 3) cooperative sociali e culturali,
attività d'import-export; 4) organizzazioni non governative
di soccorso islamico; 5) società finanziarie islamiche; 6)
donazioni di governi e enti islamici stranieri.
Secondo Robert Baer, ex agente della Cia in Medio Oriente:”
per la stragrande maggioranza della popolazione saudita
Osama Bin Laden è un santo e il martirio rappresenta
un’opzione concreta per migliaia di giovani senza
prospettive».
Senza voler “criminalizzare” ulteriormente, i tanti
extracomunitari di fede islamica che qui hanno trovato le
“sette vacche grasse” del famoso Giuseppe che pure loro
conoscono, è un impegno di tutti quello di informare
accuratamente sulla loro diversità culturale che persiste e
non avrà mai e poi mai fine, visto che si appella ad Allah
ed è sancita dal Corano, Parola immodificabile di Dio.
L'intervista
Per tale ragione, propongo l’intervista ad un notevole
esperto dell’islam, il Prof. Gilles Kepel che ci raccomanda
“per giudicare, bisogna conoscere l’islam” (Fondamenta, Nel
Conflitto, Venezia 2002) e che mai avrei pensato di
utilizzare, trovandola alquanto “pesante” e non necessaria
alla situazione italiana (ma dopo quello che è successo e
quanto minacciosamente promette Al Qaeda, non c’è da farsi
troppe illusioni sulla pace).
Lei è convinto che il radicalismo islamico è
sostanzialmente in calo?
Credo possibile che esso lasci il posto alla democrazia,
anche nei Paesi dove è più diffuso. Esiste tuttora il
rancore contro l’America, una certa popolarità di Bin Laden,
la mitizzazione religiosa, però ho registrato, soprattutto,
il fascino per l’Occidente.
E questo a cosa è dovuto?
Vi sono vari documenti di istituzioni internazionali come
l’ONU o di altri emeriti studiosi dell’islam che affermano
che nei Paesi arabi, manca la libertà, alle donne non è dato
alcun potere politico e vi sono scarse capacità umane-
conoscenze in rapporto al reddito. Nei Paesi arabi si
registrano i più bassi livelli di libertà, inferiori persino
a quelli dell'Africa sub-sahariana.
Mentre le donne arabe hanno fatto progressi in termini di
istruzione primaria, annotano ancora un punteggio modesto
nella gestione del potere, in quanto non risultano coinvolte
nel processo politico. Nella graduatoria mondiale superano
solo di un gradino lo status delle donne dell'Africa
sub-sahariana, che rimangono in fondo, pur essendo il 50 per
cento della popolazione. La loro presenza nei parlamenti
arabi è di appena il 3,5 per cento.
In quanto alle conoscenze in rapporto al reddito, si
sottolinea che le capacità umane sono assai deboli e male
utilizzate nella regione a causa dei sistemi didattici
poveri e dell'alto tasso di analfabetismo.
Su una popolazione complessiva di 280 milioni, ben 65
milioni di arabi sono analfabeti e di questi due terzi sono
donne. Istruzione povera vuol dire accesso limitatissimo
all'acquisizione di cognizioni. In base al numero di
Internet hosts in rapporto alla popolazione, i vari esperti
concludono che i Paesi arabi hanno il livello più basso di
accesso alla cosiddetta Information Technology, inferiore,
ancora una volta, all'Africa sub-sahariana.
Un altro aspetto di accesso povero alle conoscenze è il
basso tasso di finanziamenti per la cosiddetta Ricerca e
Sviluppo (R&S). Le spese in questo campo, in relazione al
Pil, sono dello 0,4 per cento nel mondo arabo, rispetto
all'1,26 di Cuba, al 2,35 di Israele e al 2,9 per cento del
Giappone.
Cosa ne discende da tutto questo?
In base alle indagini degli studiosi, ben il 51 per cento
dei giovani hanno espresso il desiderio di emigrare in altri
Paesi, come misura della loro insoddisfazione per le
condizioni attuali e le prospettive future nei loro Paesi.
Perciò la differenza fra aspirazioni e loro realizzazione
ha, in alcuni casi, condotto ad alienazione, apatia e
scontento. E questo, per inciso, l’ho rilevato
personalmente, interrogando tantissimi nel mio viaggio che
mi ha permesso di scrivere il libro già citato.
Lei insiste a dire che l’islam politico è fallito e ciò
viene considerato con un certo imbarazzo, dopo gli attacchi
alle Torri gemelle di New York( e oggi???) che hanno gettato
il mondo occidentale nell’angoscia e il continuo scoprire ,
spesso anche in Europa, di cellule terroristiche affiliate a
Al Qaida...
Oggi disponiamo della distanza necessaria per analizzare
questo fallimento, seppure vengano individuati vari gruppi
di estremisti. La gestazione dell'idea islamista
contemporanea, è iniziata negli anni '60. I teorici erano
Sayyid Qotb, l'ideologo dei Fratelli musulmani egiziani
impiccato da Nasser nel 1966, Mawdoudi, il pakistano che ha
esercitato un'influenza considerevole nell'Asia del sud,
fino all'Afghanistan dei taleban e, certamente, l'ayatollah
Khomeini, il solo ad aver portato a buon termine il suo
progetto.
La rivoluzione islamica iraniana simbolizza il secondo
periodo, di cerniera tra gli anni '70 e gli anni '80. Ben al
di là del mondo sciita, il suo «effetto propulsore» si
propaga in tutto il mondo musulmano. La lotta contro i
sovietici dei mujaheddin afghani, sostenuti finanziariamente
e ideologicamente dai sauditi, costituisce il secondo polo
dell'espansione islamista degli anni '80. Sopravvengono
allora l'apogeo e il declino, che si possono situare
all'inizio degli anni '90, conseguenza ad un tempo dei
contraccolpi dell'invasione irachena del Kuwait, della
resistenza dei poteri in carica e della rottura tra le
diverse componenti del movimento islamista, sostenuto dalla
borghesia religiosa, dalla gioventù urbana povera e
dall’intellighenzia militante. Solo Khomeini, grazie alla
sua abilità , è riuscito a saldare i tre gruppi, almeno per
il tempo necessario a concludere con successo la rivoluzione
e a consolidare il suo potere. Dappertutto l'alleanza tra la
gioventù urbana povera e la borghesia religiosa, quando c'è
stata, si è disfatta, perché la prima rimproverava alla
seconda la sua vigliaccheria mentre quest'ultima
indietreggiava di fronte alla deriva terrorista di gruppi
con riferimenti teologici dubbi. La grande astuzia dei
poteri in carica - dall'Algeria all'Egitto, passando per la
Palestina o la Giordania - è consistita nel recuperare la
borghesia religiosa emarginando i gruppi estremisti
provenienti dalla gioventù povera.
Da questo fallimento, i delusi dall'islamismo non hanno ora
altra scelta che rivolgersi alla democrazia occidentale,
solo vettore possibile di una modernità alla quale tutti
aspirano. Nel nuovo millennio, potrebbe accadere che si
possano integrare i gruppi sociali esclusi dopo
l'indipendenza, favorendo la nascita di una sorta di
democrazia musulmana, mescolando in modo inedito cultura,
religione e modernità politica come economica. Questo
scenario presuppone che le rinnovate élites che arrivano al
potere, dal Marocco di Mohammed VI alla Giordania di
Abdallah II, dall'entourage tecnocrate e militare del
presidente algerino Bouteflika a quello del presidente
indonesiano Wahid, siano capaci di proiettarsi nel futuro.
Se queste élites si accontentano di trarre un profitto
immediato e egoista dalla scadimento dell’islamismo, senza
impegnarsi nelle riforme, il mondo musulmano si confronterà
a breve con nuove esplosioni, di matrice islamista, etnica,
razziale, religiosa o populista.
Vi sono delle differenze tra islamismo khomeinista
iraniano e quello talebano?
Dal punto di vista dottrinale la prima differenza è che
l’Iran è un Paese a maggioranza sciita e che il regime dei
Talebani è stato un regime aggressivamente sunnita.
L’Afghanistan è un coacervo di popolazioni, tra cui il
gruppo Pashtun, da cui provengono la maggioranza dei
Talebani. L’altra differenza è che l’Iran è un Paese
sviluppato e sofisticato con una società civile estremamente
ricca: in questi ultimi anni si è dotato di una stampa
particolarmente critica. È una società che ha fermenti molto
significativi di resistenza all’ordine costituito, alla
ricerca di un difficile equilibrio tra i conservatori e
coloro che vogliono inserire la traiettoria della Repubblica
islamica nella modernità. Basta ricordare i fermenti delle
varie università e la visibilità delle donne iraniane
nell’uso della tecnologia e dei Media.
Ciò fa supporre che i religiosi iraniani sono permeabili
alla moderazione e alla democrazia, mentre i religiosi
talebani non lo sono affatto? E perché?
In Iran tra i religiosi vi sono persone che hanno riflettuto
sulla questione della democrazia e che si sforzano di
realizzare quella che potremmo chiamare una democrazia
musulmana, un po’ come esiste la democrazia cristiana.
Questo non è avvenuto in Afghanistan perchè i Talebani sono
stati formati da una scuola molto rigorista di islam sunnita,
la scuola Deobandita( da Deoband, città a nord di Delhi),
una forma di rigorismo secondo la quale la democrazia è una
forma di empietà.
Il mondo musulmano visto da una prospettiva europea,
spesso viene equivocato. Quali sono gli errori più comuni
che si commettono?
Uno dei problemi ricorrenti riguarda il fatto che da
entrambe le parti vi sono un certo numero di attori politici
interessati a montare discorsi che legittimino il cosiddetto
"scontro delle civiltà", ovvero che lavorano ad alimentare
l'immagine delle culture come insiemi omogenei e tra loro
antagonisti, facendo passare in secondo piano o negando del
tutto, le contraddizioni interne alle diverse società.
Inoltre, c'è da parte di costoro una seria tendenza a
chiudersi nella propria cultura sminuendo la solidarietà che
attraversa società tra loro distanti. Nel caso del mondo
musulmano, i movimenti islamisti nati nel corso del XX
secolo, la cui forza è esplosa soprattutto a partire dagli
anni '70, si sono palesati sempre parecchio impazienti di
produrre una ideologia religiosa il cui obiettivo fosse di
ammorbidire o occultare la conflittualità sociale. Nel mio
libro ho cercato di dimostrare come il movimento islamista
sia tutt'altro che omogeneo. Inoltre, non è raro che gli
occidentali considerino i musulmani come una massa di
poveracci, di individui a piedi nudi, trascurando di
valutare il peso delle classi medie religiose, dei
commercianti e di un complesso di studenti, intellettuali e
produttori di ideologie; perché la via per conquistare il
potere è sempre passata attraverso la saldatura di queste
diverse componenti sociali intorno a un discorso religioso
temerario. E' accaduto, per fare l'esempio più clamoroso, in
Iran, dove una volta che Khomeini ha trionfato si è
assistito alla eliminazione progressiva dei gruppi sociali
più deboli da parte del clero alleato con i mercanti dei
bazar. Dovunque, il successo e poi il fallimento dei
movimenti islamisti sono dipesi dalla capacità o meno di
costruire alleanze di classe. Un altro tra gli equivoci più
comuni riguarda l'uso del termine jihad: solo in determinati
contesti prende la valenza di lotta armata contro gli empi.
Ma nella storia dell'islam è stata usata dagli ulema con
molta moderazione, perché è un provvedimento a doppio taglio
e può facilmente rivoltarsi contro chi l'ha proclamata. La
jihad sospende gli obblighi che regolano la società, crea
una sorta di stato d'eccezione e se non è ben controllata
può sfociare nella sommossa e nella guerra civile, con le
ovvie conseguenze di un pesante indebolimento sociale.
Dal suo libro (Gilles Kepel, L’autunno della guerra
santa: Viaggio nel mondo islamico, Carocci 2002) si evince
che i movimenti islamici più radicali siano particolarmente
esperti nei media e che abbiano un’eccellente familiarità
con le nuove tecnologie. Lei racconta che fin dall'88
l'organizzazione di Bin Laden ha creato un database in cui
sono schedati tutti gli jihadisti e i volontari passati per
i campi di addestramento. Come si interpreta la scelta di
questo incrocio del fondamentalismo più intollerante con le
conquiste della tecnologia avanzata?
Tanti dei militanti jihadisti sono usciti dalle facoltà
delle scienze applicate: tra loro vi sono studenti di
ingegneria, di medicina, di informatica divenuti molto
presto attivi in questi campi con la pretesa di esercitare
sulle conquiste scientifiche un controllo che ponesse la
loro visione del mondo al riparo da ogni possibile
corruzione. Invece di rimettere in questione i precetti
religiosi avviando una riflessione che sarebbe stata
d'obbligo, si sono irrigiditi nella edificazione di una
barriera tra l'ideologia religiosa e quella tecnologica,
salvo poi utilizzarne i risultati. Gli attentati al World
Trade Center, spaventosi per le migliaia di morti, i danni e
le conseguenze catastrofiche che hanno creato, si inscrivono
deliberatamente nella ricerca di un grande scenario. Certo,
dietro a Bin Laden esiste un reticolo complesso formato da
individui da lui utilizzati e che probabilmente lo usano.
Bisognerebbe capire a chi fa capo la rete delle sigle
finanziarie, quali gruppi nascondono e quali interessi
incontrano nei diversi Paesi. Per ora, è impensabile
conoscerli.
Fanno una certa impressione gli attentatori suicidi.
Quali radici storiche e culturali ha il loro reclutamento
nel mondo islamico?
E’ un fenomeno variabile nel corso della storia. Quando è
stato possibile accertare l'identità dei kamikaze, colpisce
il fatto che provengono dalle classi medie della penisola
arabica, insieme alla constatazione che hanno studiato e
sono stati educati in buone famiglie. Lo confermano i siti
Internet degli islamisti, dove sono pubblicate le biografie
dei "martiri della jihad" morti in Bosnia, in Cecenia; e ciò
vale anche per i terroristi che sappiamo coinvolti nei
recenti attentati. Del resto, lo stesso Bin Laden proviene
da una famiglia di muratori, anche se poi il padre si
costruì una carriera strepitosa come costruttore di corte.
Dunque, il reclutamento non si verifica, come ci si sarebbe
potuto aspettare, tra le masse dei diseredati che non hanno
nulla da perdere. Ciò è un segno degno di attenzione, che
necessita di essere compreso. E' come se l'ideologia e la
forza della jihad colpisse in determinato modo la
sensibilità dei figli della media borghesia.
Lei definisce Bin Laden un personaggio "assurdo", ma allo
stesso tempo sembra attribuirgli una certa congruenza
ideologica. Per esempio, nei mesi immediatamente precedenti
l'invasione del Kuwait, le "sparate" di Saddam Hussein
indussero Bin Laden a offrire il suo aiuto alla monarchia
saudita per difendere le frontiere. Ma quando re Fahd,
nonostante fosse il "servitore dei due luoghi santi", si
appellò alla coalizione internazionale guidata dagli Stati
Uniti, Bin Laden si unì ai gruppi ostili al potere e ruppe
radicalmente con Riyadh...
Bin Laden è stato educato in Arabia Saudita, ma la sua
logicità ideologica è nata nel milieu salafista ed è stata
ulteriormente rinforzata nei campi di formazione afghani,
enfatizzandosi con i principi della jihad, che egli
concepisce nella sua forma più violenta e minoritaria. A
questa Bin Laden è rimasto fedele, come pure al lavoro
sociale e di formazione delle folle, che ha indirizzato
prima contro i sovietici invasori dell'Afghanistan, poi
contro i nemici americani dell'islam che si erano insediati
nell'Arabia Saudita.
I talebani però, si sono foggiati alla scuola deobandita,
una filiazione dell'islam poco conosciuta, che ha avuto
larga influenza in India e in Pakistan. Quali sono le
origini storiche di questo gruppo?
Quando gli inglesi iniziarono la colonizzazione del
continente indiano, la maggioranza del Paese era indù e la
dinastia musulmana si trovò ad essere contemporaneamente in
una posizione di minoranza e sottoposta al potere degli
stranieri. Bisognava scoprire un modo di applicare la legge
coranica nella vita quotidiana: per se stessi, visto che non
c'era uno stato musulmano di riferimento che la rendesse
d'obbligo. I precetti religiosi furono imposti attraverso
ogni sorta di fatwa e di diverse deliberazioni giuridiche
prese dagli ulema. Dalla reazione alla necessità di restare
buoni musulmani in una condizione di marginalità politica,
si originò la risposta dei deobanditi, i quali edificarono
una sorta di controsocietà senza stato. Al loro insegnamento
si richiamano i talebani, cioè gli studenti di teologia
figli dei rifugiati afghani durante la guerra contro i
sovietici, che vennero educati nelle scuole religiose
pakistane(le madrasse), dove svilupparono un’idea di
controsocietà religiosa. Tornati in Afghanistan, a partire
dal 1994 vennero aiutati a prendere il potere dai servizi
segreti pakistani appoggiati dagli Stati Uniti. Due anni
prima i mujeaddin afghani avevano rovesciato il regime
filosovietico e la situazione era sfociata nella anarchia
più assoluta. Perciò, purché ci fosse un governo stabile, e
senza preoccuparsi di che natura esso fosse, i talebani
vennero istallati alla guida dell'Afghanistan con ingenti
aiuti della CIA.
Secondo lei, quali saranno le ripercussioni degli
attentati dell'11 settembre sulla pace tra Israele e
Palestina?
In questa circostanza le tensioni in Medio Oriente sono
particolarmente esasperate, e ciò fa supporre a contraccolpi
molto pesanti. In effetti, dall'inizio della seconda
intifada, nell'autunno del 2000, si è formata nella maggior
parte degli stati musulmani un’opinione pubblica fortemente
antiamericana. Il governo degli Stati Uniti viene accusato
di non avere posto freni alla politica di Sharon, e questo
ha esasperato gli animi. Si è creato un clima tale che la
solidarietà con l'America è debole. Se confrontiamo la
situazione attuale con quella del '91, all'indomani della
vittoria militare americana in Iraq, la differenza è
evidente. Allora, Bush padre piegò il braccio tanto agli
israeliani che ai palestinesi per costringerli a
intraprendere la logica delle negoziazioni che avrebbe
condotto agli accordi di Oslo. Oggi, invece, pare che
l'amministrazione Bush abbia trascurato del tutto la
questione mediorientale.
Per quali ragioni, secondo lei, i movimenti islamisti del
mondo contemporaneo, non sono mai andati al potere, salvo
che in Iran, e anche qui per un tempo storicamente breve?
La sfida storica di fronte alla quale si sono trovati i
movimenti islamisti del XX secolo si è giocata sul terreno
dei diversi nazionalismi che si opponevano alle occupazioni
coloniali. Una volta conquistata l'indipendenza, gli
islamisti di opposizione, che pure erano presenti nella
coalizione nazionalista, vennero sconfitti e il mondo
dell'islam storico si ritrovò frammentato in diverse
comunità di riferimento, dagli stati arabi alla Turchia, dal
Pakistan alla Malesia e all'Indonesia. All'epoca, due
differenti ideologie si scontravano nei nuovi stati: quella
dei nazionalisti laici, che magnificavano la rottura con il
passato, e quella dei pensatori islamisti più influenti che
la deprecavano. Ma il loro tentativo di promuovere una
rivoluzione culturale fondata sul riferimento religioso
all'islam fallì, travolto dalle ambiguità delle alleanze
sociali o dalla conflittualità di classe. I rapporti di
forza si rovesciarono di nuovo negli anni '70, quando i
movimenti islamisti si riaffermarono sulla scena, proprio in
opposizione alle istanze nazionaliste. Ancora una volta,
però, mancarono di coerenza politica: la loro forza
dipendeva nel dare rappresentanza a una coalizione sociale
eterogenea, com'è avvenuto in Iran. Ma per ottenere questo
obiettivo bisognava rendersi portatori di un ideale
religioso e morale, che non può allo stesso tempo contenere
un progetto politico davvero moderno. Da questa ambiguità
nasce la loro debolezza ideologica.
Lei riferendosi ad un certo estremismo islamico e ai
talebani, parla di milieu salafista, di scuola deobandita,
di madrasse…Può chiarirci questi richiami?
Esistono diverse definizioni del termine “salafismo”, ma il
modo in cui viene interpretato da Bin Laden e dalla gente
della Jihad fa riferimento a una visione molto letterale e
rigorista dell’islam, che assomiglia un po’ a quella che
viene messa in atto in Arabia Saudita; il modello del
wahabismo saudita ha fortemente influenzato la visione del
mondo adottata da persone come Bin Laden che, tra l’altro,
si è formato nel contesto saudita. Alcune brigate
internazionali, nate per respingere fuori dai confini
dell'Afghanistan le truppe dell'Armata rossa, raggiunto
l'obiettivo si trasformarono per operare fuori dai confini e
per dare il proprio contributo alle diverse cause
dell'islamismo radicale nel mondo. La base dottrinale su cui
si mossero i primi militanti fu quella del "salafismo della
Jihad", un ritorno cioè alla tradizione ("pii antenati",
salaf in arabo), prendendo alla lettera le prescrizioni dei
Testi sacri e ricorrendo alla Jihad per raggiungere gli
obiettivi. I 'salafisti della Jihad' presentarono delle
affinità con un altro gruppo dell'Islam locale, i Taleban
che nel 1996 conquistarono Kabul. La differenza risiedeva
essenzialmente nel fatto che i Taleban, di etnia pashtun,
provenivano dalle madrasse tradizionali di scuola deobandita
che non considerano la Jihad una priorità, hanno inoltre uno
scarso senso dello Stato e sono poco interessate alle
questioni internazionali. La Jihad per loro deve essere
soprattutto rivolta contro la società, cui impongono un
rigorismo assoluto.
Le Madrasse - scuole islamiche della setta deobandita -
diventano centri di raccolta, assistenza ed addestramento
politico militare. In questo senso rappresentano un vero
elemento innovativo della strategia di penetrazione del
fondamentalismo islamico. Il Deobandismo, l’ideologia
edificante dei taliban, è una setta sunnita, nata alla metà
del XIX secolo nella città indiana di Deoband (da cui il
nome) a nord di Delhi. E’ caratterizzata dal rigorismo
basato sulla lettera delle scritture (simile al wahabbismo
saudita) con un’impronta decisamente conservatrice. La
struttura della setta si sviluppa attraverso le scuole (madrassa
– scuola e taliban - studente) che hanno lo scopo di formare
ulema capaci di esprimere fatwa sui diversi aspetti della
vita. Inoltre la formazione degli ulema avviene attraverso
il sistema convittuale per cui il giovane viene immerso
completamente nella madrassa e nella sua socializzazione e
sradicato dal suo ambiente sociale. In Afghanistan, dove vi
sono stati migliaia di orfani, la prospettiva deobandita ha
rappresentato una forma di assistenza e di integrazione
sociale.
Fino a che punto è lecito forzare la comprensione di una
cultura “altra”, come è l’islamica?
La risposta è nell’individuo che, di fronte a etnie e
culture diverse si ritrova ad essere egli stesso altro e
diverso, e quindi nella propria volontà non di ri-
conoscere, ma di conoscere e di farsi conoscere,
nell’integrità e nel rispetto che ogni essere umano e quello
che porta con sé merita.
SCHEDA
CHI è: Gilles Kepel, scrittore e professore all'Institut d'études
politiques di Parigi, è tra i maggiori studiosi dell'Islam
politico. E’ invitato a moltissimi convegni internazionali(
a Venezia vi è stato per le giornate di studio alla G. Cini
:“Quale Dio, per quale umanità? nel maggio 2000 e a
Fondamenta( giugno 2002): Nel conflitto. I suoi libri più
noti sono: Jjhad. La rivincita di Dio e L’autunno della
guerra santa: Viaggio nel mondo islamico( Carocci 2002).Si
esprime in un perfetto italiano, oltre che a parlare
correntemente varie lingue.
Maria De Falco
Marotta
GdS 18 XI 03 www.gazzettadisondrio.it