Paura di Dio o delle religioni? Un saggio di Maria De Falco Marotta (x)
Quando Randa Chahal Sabbag, Leone d’argento (Venezia 60,
agosto- settembre 2003) per il suo struggente film Le Cerf
volant alla mia domanda: "crede nel processo di pace in Medio
Oriente?", mi ha risposto: "Mi spiace dirlo, ma penso che
non ci sia nessun processo di pace. Gli animi di tutti sono
sempre inquinati da un modo di comportarsi ideologico che
vuole la guerra, la violenza, la separazione. Israele
rifiuta uno Stato ai Palestinesi e questi rispondono con i
kamikaze", sono rimasta ammutolita.
E lo sono ancora di più ora, dopo la sentenza del giudice di
L’Aquila che estromette dalle aule scolastiche il
Crocefisso, in nome di una laicità dello Stato (sempre e
solo sulla “carta”, tranne che nei Paesi buddhisti),
impossibile da realizzarsi, persino in Francia, dove i
contrasti tra lo Stato e i musulmani integralisti, sono
sempre sulla cresta dell’onda, mai addivenendo ad una
soluzione pacifica. Con un seguito politico- ideologico che,
considerata la debolezza della nostra classe parlamentare,
si appresterà ad accettare le proposte di Adel Smith che
ultimamente ha dichiarato che non è contrario al Crocefisso
nelle aule scolastiche, purché vi si aggiungano simboli
islamici (Cfr. La Stampa, 30 ottobre 2003).
L’incresciosa vicenda ha suscitato un putiferio in Italia e
l’attenzione della stampa internazionale, dove si parla
addirittura che “In Italia si rischia la guerra
religiosa” (sul quotidiano arabo Al Sharaq Al Awsat
egiziano).
Sicché Gesù di Nazareth, simbolo universale del dolore umano
e della povertà più assoluta, ancora una volta “muove” le
acque stagne del perbenismo, consumismo e tutto ciò che
attualmente finisce in “ismo” e fa affermare al giurista
Giuliano Vassalli che “E’ in atto una crociata musulmana,
essendovi centrali musulmane che stanno organizzando una
penetrazione profonda in Europa, volta a capovolgere la
nostra società” (Cfr: Il Giornale, 29 ottobre 2003, p.3).
l’ombra o il
richiamo al nome di Dio
In tanti conflitti, tuttora aperti, si può vedere l’ombra o
il richiamo al nome di Dio: dai terribili avvenimenti
dell’11 settembre alla guerra mediorientale, insensata se
non fosse reale, che dura da mezzo secolo.
Lungo il bacino
mediterraneo non manca il retroterra religioso in tanti
dissidi, anche all’interno della stessa comunità osservante.
I Balcani hanno una dura esperienza del combattimento tra
serbi e albanesi musulmani . In Bosnia questo ha condotto a
una reislamizzazione dei bosniaci nello scontro con i serbi
e nel confronto con i cattolici croati, anche per affermare
la propria identità nazionale voluta da Tito. Inoltre non
sfugge che l’Islam è un riferimento in molti contrasti tra
correligionari. Avviene nelle società arabe a partire
dall’Algeria, un tempo cuore di un nazionalismo arabo laico:
i movimenti islamisti dai molti volti attaccano il potere
costituito (Cfr: M. Giro – M. M.Impagliazzo, Algeria in
ostaggio, Milano 1997).
Ma anche lontano dal Mediterraneo
non sono assenti incidenti con taglio religioso: tra azeri e
armeni, tra russi e ceceni.
Nell’Est asiatico la motivazione
religiosa si ritrova nei conflitti delle Filippine e in
quelli – come nella banda di Aceh- dell’Indonesia, il più
grande Paese musulmano del mondo, retto da una particolare
forma di neutralità religiosa, il panchasila (Cfr: V. S. Naipaul, Fedeli a oltranza, Milano 2001). Oggi si tratta
apertamente di guerra di religione.
Lo si è fatto, ad
esempio, nel lungo conflitto libanese. Dopo l’11 settembre
si disserta di più di religione e si prova a spiegare tanto
con le religioni, così che non pochi intellettuali ribattono
l’inevitabile deriva violenta delle religioni monoteistiche
con la loro pretesa esclusivistica della verità. Dieu est-il
fanatique? (Cfr:Jean Daniel, Dieu est-il fanatique?, Paris
1996), guidano al conflitto. Altri, affermano che solo la
laicità consente la convivenza pacifica tra le religioni, le
quali, altrimenti, sarebbero giunte al combattimento (B.
Spinelli, Il sonno della memoria, Milano 2001).
D’altra
parte, studiosi, credenti, autorità religiose, dichiarano
che la pace, non la guerra, è il messaggio dei monoteismi,
riferendosi ai testi sacri e ad altro.
Guerra di religione
come destino inevitabile
o pace in nome di Dio?
L’autore de
"Il Dio degli eserciti", Peter Partner, scrive: “non ci sono
mai state guerre sante combattute per motivi esclusivamente
idealistici e quella storiografia che stabilisce nella
purezza d’intenti il criterio di definizione di una guerra
santa si basa su metodi di un mal riposto moralismo” (Cfr.
Peter Partner, Il Dio degli eserciti, Islam e Cristianesimo,
le guerre sante, Torino 1997, p. 336). Eppure la fede
religiosa è tanto mischiata nel motivare il consenso, nel
consolidare il pregiudizio, nel promuovere un’identità
conflittuale. Allora, la contesa su Dio dovrebbe essere
spostata sul terreno più appropriato di “Scontro tra
civiltà” (Cfr. S. Huntington, The Clash of Civilisations and
the Remaking of World Order, Simon & Schuster, 1996, trad.
it. con il titolo Lo scontro delle civiltà, Milano,
Garzanti, 1997), , tra i poteri di uno sull’altro, sul
terreno dell’asservimento di un gruppo a quello che ha più
autorità economica, sociale e così via?
Da sempre, la storia
umana è connotata anche da un’incredibile violenza delle
religioni: le Crociate e le guerre europee di religione
ormai sono entrate nell’immaginario mondiale.
Se si considera solo la seconda parte del secolo XX, ci si
accorge che la violenza interreligiosa nel mondo si è
diffusa enormemente.
Violenza fra indù e musulmani in India,
fra buddhisti e indù nello Sri Lanka, fra cristiani e
musulmani nelle Filippine, in Indonesia e nella ex
Jugoslavia, violenza tra cristiani in Irlanda, fra ebrei e
musulmani in Medio Oriente, fra buddhisti e cristiani in
Birmania…
Il mondo è in guerra. Quando si dice ‘guerra’, si pensa al
Medio Oriente o al massimo, a ‘Enduring Freedom’, la
campagna contro il terrorismo lanciata dagli Stati Uniti
dopo l’11 settembre. Ma questi sono solo i conflitti più
seguiti dai mass media. Invece, gli scenari di guerra
censiti oggi nel mondo sono ben 142.
In questi, raramente vi sono cause puramente religiose.
Esistono sempre moventi socioeconomici e politici al fondo.
La religione li giustifica e vi inserisce sue proprie
ragioni.
E allora, per capirne qualcosa, è necessario conoscere la
genesi della violenza religiosa.
Naturalmente, il mio elenco sarà parziale. Ciascuno
l’arricchirà con le sue informazioni.
la genesi della
violenza religiosa:
1) La difesa dell’identità personale- sociale
Una delle radici della violenza religiosa è la ricerca
dell’identità sociale. Le nostre identità sono socialmente
costruite. Gli individui diventano coscienti di quello che
sono attraverso l’interazione con altri individui
significativi, a cominciare dai genitori, dai fratelli, dai
familiari, dai vicini. Allo stesso tempo, costruiscono anche
un’identità sociale mediante l’interiorizzazione delle
strutture simboliche su comunicazione e relazione attraverso
il linguaggio e il rituale. Il ciclo della vita e i riti
delle stagioni contribuiscono, in particolare, alla
costruzione del gruppo. Le cerimonie di iniziazione possono
svolgere un ruolo significativo in un momento cruciale dello
sviluppo personale. Queste sono costitutive della cultura.
L’individuo appartiene a un gruppo che si distingue in
contrapposizione ad altri gruppi: “Noi” contro “Loro”.
Gli psicologi sostengono che, quando ci sono due gruppi,
questi si guardano non solo come diversi, ma come
competitivi, nemici e inferiori. Tale atto si basa sul
sentimento di “appartenenza al gruppo” contro lo “stare
fuori dal gruppo”. Non c’è lo sforzo di conoscere l’altro,
da cui discende , poi, l’ignoranza e i preconcetti.
Codesti impulsi rimangono smorzati in tempi di normalità, ma
si aggravano in momenti di tensione per un qualunque motivo
e le disgreganti idee fondanti l’holding sono ancora più
rafforzate dalla religione. I simboli religiosi si
interessano delle prospettive ultime e, come tali, toccano
livelli più profondi di identità personale e di insieme. Le
liturgie sacre rinsaldano l’appartenenza.
Il culto è una solida forza di associazione. Un gruppo può
sentirsi scelto da Dio e detentore di una rivelazione
speciale o può attribuirsi un’esperienza particolare delle
cose ultime. Gli altri, allora, possono essere visti come
entità che mettono in questione o minacciano la speciale
relazione, particolarmente se rivendicano una differente
esperienza del divino. In una situazione di frizione, le
persone tendono a proiettare nell’altro i propri mali e
problemi. In un contesto religioso, questo miscuglio di
sentimenti/ risentimenti può generare la demonizzazione dei
diversi.
2) Comunanza religiosa
I conflitti fra i gruppi sorgono quando essi sono forzati a
condividere lo stesso spazio geografico, economico e
politico. Tale prossimità implica una questione di potere:
chi controlla la situazione, chi domina. La necessità di
soggiogare sembra essere un’esigenza basilare degli esseri
umani, in quanto animali politici. Il controllo politico,
tuttavia, diventa cruciale quando, nella sfera economica c’è
competizione a causa di risorse limitate. Gli individui,
allora, considerano indispensabile l’appoggio
dell’insieme(clan, tribù, gente…). Esso, naturalmente, sarà
il più forte perché ha Dio al proprio fianco e i suoi
vincoli sono più saldi di quelli di un gruppo di classe.
La credenza, allora, diventa comunione. Essa consiste
nell’uso politico dell’identità religiosa del gruppo. Le
persone che vi appartengono, sono portate a pensare di
condividere anche gli stessi interessi economici e politici.
L’effettiva guerra può cominciare nelle sfere economica e
politica, giustificate dalla religione, così che facilmente
i simboli religiosi sono assaliti. In questi casi,
coinvolgendosi nei conflitti economici e politici, ne
diventano il loro “scudo”. Non è da escludere che nel gruppo
possono esserci persone tangibilmente religiose, capaci di
percepirne la prepotenza e che poi assumono, di conseguenza,
una posizione critica per dirigere verso il bene gli
appartenenti alla comunità.
Di fatto, in ogni gruppo, si trovano i profeti, che
condannano gli abusi e tentano di incanalare la religione
verso la pace, che è, innanzitutto, rispetto dei diritti
umani e attuazione della giustizia.
3) Fondamentalismo
religioso
Spesso, la religione può diventare causa di divisione e di
conflitto. In ognuna, vi sono gruppi fondamentalisti.
Fondamentalisti sono i difensori di quegli elementi che essi
definiscono le basi della loro religione, quando sentono che
sono avversati.
Il fondamentalismo cristiano è sorto negli Stati Uniti, ai
primi del secolo XX°, quando alcuni cristiani sentivano le
loro credenze minacciate dalle emergenti teorie
scientifiche, come quella dell’evoluzione delle specie,
proposta da Charles Darwin, considerata una pura visione
naturalistica del mondo che non aveva bisogno di Dio.
Pensavano che essa criticasse, direttamente, il racconto
biblico della creazione. Difendevano la loro fede religiosa
mediante un’interpretazione letterale della Bibbia. Essi,
più tardi, posero la loro attenzione e la loro azione contro
il comunismo, considerato come propagatore di ateismo.
L’opposizione al comunismo è il nucleo della costruzione di
quella grande macchina da guerra che sono oggi gli Stati
Uniti. Anche prassi di morale liberale come la
rivendicazione dell’aborto, hanno attirato la loro ira.
Esiste una corrente fondamentalista simile anche nell’Islam.
Molti fra i moderni riformatori dell’Islam si sono opposti
tanto all’ateismo secolarista, promosso dalla cultura
consumistica dell’Occidente rappresentato degli Stati Uniti,
quanto all’ateismo marxista delle potenze comuniste. Alcuni
di essi hanno promosso un’interpretazione letterale del
Corano.
Purtroppo, i conflitti fondamentalisti sono diventati comuni
da quando le due correnti cultural-religiose sono state
appoggiate l’una dal dominio politico-militare delle
potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti, l’altra dal
blocco comunista, condotto dall’ex Unione Sovietica.
Ecco che le ostilità sono diventate non solo religiose, ma
anche politiche e militari. Guerriglie e attacchi
terroristici sono le “armi del debole” e la violenza verrà
sempre legittimata come autodifesa.
L’esclusivismo religioso può essere considerato una forma
lieve di fondamentalismo. Gli intolleranti pensano che la
loro religione sia l’unico mezzo di salvezza.
Di conseguenza, sono anche universalisti o globali. Si
sentono responsabili della salvezza di ogni persona. Un
sentimento di tal genere, li spinge a “salvare” gli altri,
se necessario, con la forza.
Oggi, però, l’aggressività non è solo politica, sociale,
economica ma anche dei media e dei mezzi che interagiscono,
senza alcun rispetto per il singolo, nel campo della
comunicazione..
Nel passato, l’Islam e il Cristianesimo non hanno esitato ad
usare la frenesia militare, naturalmente, per il bene ultimo
del popolo.
4) Violenza
religiosa
Il potere della religione è, spesso, cooptato per
legittimare il conflitto.
Di per sé, il fondamentalismo
religioso non sembra divenire violento, a meno che non sia
mescolato con fattori politici e con interessi economici non
tanto occulti.
Si potrebbe dedurre che le religioni, in se stesse, sono
promotrici di pace, personale e sociale. Invece, esse sono
molto ambigue su questo punto.
Un acuto scrittore francese, René Girard (cfr: Renè Girard,
Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987), scrive che la
violenza è alla fonte della religione. La sua tesi è
semplice. C’è una tendenza umana di base a desiderare di
avere quello che hanno le altre persone, cioè l’imitazione.
Uno è pronto ad usare la brutalità contro un persona diversa
allo scopo di appropriarsi di quello che l’altro possiede.
In una comunità, questa tendenza alla violenza reciproca è
proiettata su un capro espiatorio - una persona più debole o
uno straniero - che a questo punto è morto.
L’atto di violenza aiuta la comunità a purificarsi della sua
propria aggressività.
Nel cristianesimo, Dio in Gesù, attraverso l’offerta di se
stesso come capro espiatorio e la ritualizzazione della sua
offerta nell’Eucaristia, libera dalla necessità di scovare
altri capri espiatori, da ulteriore violenza e dalla colpa
conseguente.
Ciò dimostra quanto facilmente la crudeltà possa essere
giustificata e assunta dalla religione.
In realtà, le religioni iniziano come ricerca di una qualche
soluzione al problema del male, in quanto sofferenza
immeritata, considerata una punizione del peccato,
attribuito solo agli umani, non a Dio.
Tuttavia, il peccato pare essere così smisurato che la
maggioranza delle religioni sente la necessità di un potere
maligno come Satana che tenta e provoca gli umani.
Satana può, infine, essere vinto da Dio. Il conflitto fra il
bene e il male è costante, ed assume forma storica, umana e
sociale. La lotta è diretta contro quelle persone e
strutture che sono identificate come agenti di Satana in
questo mondo. La violenza contro di esse non solo è
accettata, ma pure incoraggiata.
E così che una “guerra giusta”, scivola verso una “guerra
santa”: una jihad, una crociata, una rivendicazione, un
gesto terroristico…
Le Scritture delle varie religioni sono dense di guerre.
L’Antico Testamento narra, principalmente, quelle del popolo
di Dio contro i suoi nemici. Spesso, al lettore smaliziato
del nostro tempo, sembrano umanamente ingiustificabili.
L’elezione e il favore di Dio sono l’unica spiegazione. Il
Nuovo Testamento riferisce della lotta fra Gesù e Satana.
Tuttavia alla fine è Gesù che soccombe. La sua morte è
interpretata come una punizione per i peccati dell’umanità.
L’induismo ha le sue guerre epiche fra le forze del bene e
del male, nel Ramayana e nel Mahabharata (famoso il film di
Peter Brook. dallo stesso nome che alla Mostra del cinema di
Venezia, anni fa, riscosse un plauso internazionale).
Nel Corano, Maometto è a capo di un esercito, anche se
l’ultima battaglia in difesa della Mecca si è svolta in modo
non violento.
Solo nel buddhismo il contrasto fra il bene e il male è
inteso come travaglio morale, interiore. Perciò Buddha
sceglie la via mediana fra l’ascetismo rigoroso e
l’indulgenza. Sebbene i buddhisti siano violenti quanto gli
altri, non possono citare il loro fondatore o i suoi
insegnamenti per sostenere la loro aggressività. Di fatto, a
livello mondiale, escogitano varie strategie per il dialogo
interreligioso e le vie pratiche per la pace.
Pertanto, le religioni, tranne il buddhismo, demonizzano il
nemico e giustificano la violenza, e persino la
incoraggiano. I difensori delle guerre giuste sono molto
attivi, anche oggi: in Palestina, in Iraq, in molti Paesi
africani… Basta vedere in TV o leggere i giornali.
5) Violenza
sacrificale
Un altro principio religioso sembra giustificare la
violenza.
Escluso il buddhismo, le religioni trattano del sacrificio.
Nella loro storia, si aggira un fantasma che si estende dal
sacrificio umano al sacrificio “spirituale”. Si disserta di
sacrifici nel contesto del peccato, della colpa e della
propiziazione. Esso è un’oblazione di se stesso, è l’offerta
della propria vita che simbolicamente si dona mediante la
donazione di altre vite, cioè quelle di animali. Essa è
simbolizzata dal sangue, sicché il sacrificio implica
assassinio e violenza. Il giainismo, in India, il buddhismo
e alcune forme di induismo hanno abolito i sacrifici
cruenti. Ma lo hanno fatto ponendo l’enfasi sull’auto-realizzazione (spesso con l’inazione, fino alla consumazione
della persona), attraverso la meditazione in cerca della
liberazione definitiva. Tali fedi non accennano a un Dio che
necessita ingraziarsi o che si deve soddisfare con l’offerta
di sacrifici. I cristiani non hanno abbandonato il
linguaggio votivo nella comprensione della redenzione
realizzata da Gesù. La proposta di se stesso come un segnale
d’amore ha un senso profondo, ma si deve liberare da
qualunque concetto di riparazione o soddisfazione che
implichi la sofferenza come punizione.
6) Le religioni per
la pace
Sebbene le religioni possano, in molti modi, provocare la
violenza, dispongono dei mezzi anche per ispirare la pace:
Shalom!, Salam!, Shanti!
Esattamente in quanto religioni, nel processo di radicamento
in un determinato luogo, tendono a inculturarsi e a
giustificare strutture socioeconomiche e politiche già
esistenti. In esse, però, alcuni dei loro praticanti seri,
sfidano l’ingiustizia e la violenza in nome dell’Ultimo (poveri, malati, affamati, ecologicamente deprivati di un
ambiente sano per la crescita…). Senza farsi troppe
illusioni, sulle strutture economiche e politiche che
saranno sempre guidate dal profitto e dal potere.
Anche quelle che giustificano la violenza propongono sempre
la pace come loro scopo. Come possono nella pratica
promuovere la pace, se non sono in pace tra di loro?
7) Un atteggiamento
positivo
nei confronti delle altre religioni
Prima del Concilio Vaticano II, il cristianesimo si
considerava l’unico mezzo di salvezza e l’unica vera
religione (ma ciò viene predicato anche oggi da nostalgici
del passato). Le altre credenze erano semplicemente false.
L’erroneità non può rivendicare nessun diritto. Di
conseguenza, laddove i cristiani erano maggioranza, i membri
di altre religioni erano, nella migliore delle ipotesi,
tollerati, senza pieni diritti. Nella peggiore, erano
perseguitati, come gli ebrei. Dove era possibile, li si
privava delle loro terre e inseriti nella Chiesa a forza,
come, per esempio, è successo in America Latina. Solo le
culture ricche e le religioni evolute dell’Asia riuscirono a
resistere all’aggressione.
Nel Concilio Vaticano II, è stata affermata la libertà
religiosa.
Le persone hanno diritto di seguire la religione
secondo la loro coscienza. Questa libertà non è basata sulla
“bontà” delle religioni, ma sulla dignità di cui ogni
persona umana, per i credenti, gode essendo creata a
immagine di Dio.
In secondo luogo, c’è stato un approccio
più positivo verso le altre religioni. Dio è visto come
origine e destino comune di tutti i popoli: si riconoscono
nelle altre fedi, stimate come sforzi umani per giungere a
Dio, elementi di bontà e di santità, i semi della Parola. I
cristiani sono incoraggiati a dialogare con loro. Insieme
all’apertura verso le altre religioni c’è stata anche una
energica affermazione della volontà salvifica universale di
Dio. Ogni essere umano ha la possibilità di partecipare del
mistero pasquale di Cristo, mediante l’azione dello Spirito,
pur attraverso cammini sconosciuti agli intelletti umani.
Dopo il Concilio, il progresso teologico ha incoraggiato una
valutazione più positiva delle altre religioni, dicendo che
le persone sono salve nelle e attraverso le loro religioni e
non malgrado esse. I vescovi asiatici, infine, hanno
affermato che, per giudicare i frutti della santità,
necessita riconoscere l’azione di Dio nelle altre religioni.
Un atteggiamento positivo di tal genere nei confronti delle
altre religioni, ha ricevuto il sigillo “ufficiale” quando
Giovanni Paolo Il ha invitato i leader delle religioni a
riunirsi ad Assisi per pregare per la pace nel mondo
nell’ottobre 1986 (ed oggi altri incontri per il dialogo
interreligioso come quello che si sta svolgendo a Roma, sono
continui. Cfr: La Stampa, 30 ottobre 2003) .
Purtroppo, i conflitti cruenti e violentissimi persistono
nel mondo, senza che si possa prospettare una situazione
“fraterna”. Intanto le religioni sono chiamate a dialogare,
a correggersi mutuamente e ad arricchirsi nella loro vita
verso il Regno (per i credenti, è ovvio) Ma tutti concordano
sul fatto che c’è bisogno, oggi, di dialogo fra i credenti
delle differenti religioni, non di conflitto.
Questo dialogo deve verificarsi non semplicemente a livello
religioso, ma anche a livello sociale e politico, dove tutti
sono chiamati a collaborare nella promozione della
giustizia, della solidarietà e della pace nel mondo.
8) Quale dialogo?
La Chiesa, diversamente da altre religioni come l’induismo o
il buddismo o lo stesso Islam, è una istituzione molto ben
organizzata. In questo senso, quello che i suoi leader
dicono è accettato sul serio. Però spesso, si usa un doppio
linguaggio. Da un lato, il Papa invita i capi delle altre
religioni a riunirsi in preghiera per la pace. Dall’altro,
il Vaticano taccia le altre religioni di essere
obiettivamente deficienti (Cfr: Dominus lesus della
Congregazione per la Dottrina della Fede), senza ricordare
che è difficilissimo giudicare gli altri in questioni di
religione. E’ da supporre che ogni credente pensi che la sua
religione sia la migliore. Non è da trascurare la questione
che, genericamente, nella pratica missionaria, si continua
con un atteggiamento e un linguaggio aggressivo, con echi di
una crociata religiosa. Proclamare ad altri uomini dotati di
libertà che hanno una loro propria esperienza di Dio, la
buona novella che Dio ha comunicato ai cristiani, è
possibile solamente in forma di dialogo, tenendo conto della
loro esperienza del divino. A volte, ci si domanda perché
chi si mostra severo nell’imporre la propria versione del
cristianesimo in Oriente o nel Sud non dimostra lo stesso
tipo di zelo nel tentativo di convertire le popolazioni
scristianizzate del Nord e dell’Occidente, le quali
progressivamente sembrano non credere più in nulla.
Le persone serie, rispetto al dialogo interreligioso, non
dicono che tutte le religioni sono la stessa cosa o sono
tutte uguali. Si dialoga non con le religioni, ma con le
persone. I sistemi e le istituzioni religiose, hanno i loro
limiti. Hanno bisogno di essere sfidate, profeticamente, per
convertirsi.
Non aiuta guardare il bene che è in noi, in
teoria, e il male negli altri, in pratica. Se si crede che
lo Spirito di Dio è presente in ogni parte, si deve
discernere la sua presenza attentamente e non emettere
giudizi a priori sul piano di Dio per gli esseri umani,
basandosi sulla sua esperienza “occidentale”. E’ anche
impossibile cercare un denominatore comune intorno al quale
unificare le religioni. Le religioni sono differenti. Dio è
libero di dire parole differenti a popoli differenti. Per
questo il dialogo fra le religioni può essere arricchente
per tutti.
Del resto nella Bibbia c’è scritto:
Quando il Dio Altissimo assegnò ai popoli la terra,
quando distribuì gli uomini nel mondo,
segnò i confini delle nazioni
e diede a ognuna un dio protettore (Deuteronomio 32, 8)
Quindi gli elementi nella soluzione di un qualsiasi
conflitto sono la restaurazione della giustizia e il
rispetto degli altrui credi.. Le autorità sudafricane, al
ritorno della democrazia dopo anni di apartheid,
costituirono la Commissione di Verità e Riconciliazione
(Cvr), un’esperienza che ha propiziato un clima favorevole a
certe proposte.
I conflitti interreligiosi sono spesso provocati da fattori
economici e politici. Le proprietà di alcuni vengono
distrutte e altri ne beneficiano. Anche l’ordine politico è
violato. In tale situazione, non si può parlare di soluzione
di conflitti senza restaurazione della giustizia. Giustizia
non significa vendetta: occhio per occhio, vita per vita.
Non si tratta di giustizia del vincitore, come è successo
con il processo di Norimberga dopo la Seconda Guerra
mondiale. Non si rimette indietro l’orologio della storia..
Per questo la Cvr ragionava di giustizia restauratrice in
opposizione alla giustizia retributiva.
9) Il dialogo della
vita
Come assumere azioni preventive, al fine di scongiurare i
conflitti nel futuro? Come si può superare l’identità di un
gruppo che si oppone ad un altro?..
Come si può superare l’identità conflittuale e come può
essere promosso un senso di convivenza civile?
E’ sicuro che
le differenze di identità, specialmente a livello religioso,
non possono essere abolite. Pertanto, si deve creare una
coscienza del fatto che, nella società contemporanea,
realmente si vivono molteplici identità. Si appartiene a
differenti gruppi in differenti momenti della vita: gruppi
di convivenza, professionali, ricreativi, culturali…
Di questi alcuni possono essere scelti volontariamente. Uno
dei gruppi che, in certo modo, coinvolge tutti gli altri, ci
riunisce come cittadini di un Paese. Come cittadini si
condividono certi interessi economici e politici. Lo Stato
dovrebbe essere una struttura neutra, che non favorisce
nessun gruppo in particolare. A un altro livello, ogni
gruppo possiede e ricerca identità e interessi propri, senza
nuocere i legittimi interessi degli altri. Ma, tra questi
due livelli, esiste una società civile dove le diverse
religioni e gruppi ideologici si impegnano in una
discussione attiva al fine di convergere su obiettivi
comuni, per quanto ogni insieme si basi sulle sue proprie
prospettive religiose e culturali.
Tale dialogo è condotto
in gruppi di discussione, sui media, nelle università, nei
quartieri, nelle famiglie, in Internet..
Il fatto di incontrare gli altri in un contesto sociale,
culturale e politico, rende capaci di scoprirli in quanto
esseri umani, non identificati esclusivamente nei termini
della religione che praticano. Il contatto aiuta a
conoscerli e a coltivare relazioni di amicizia. Ciò induce a
liberare e a sperimentare una solidarietà ad un livello
umano più profondo che trascende le divisioni religiose.
Vivere insieme in una stessa area geografica, frequentare la
stessa scuola o club, lavorare nello stesso ufficio può
aiutare a raggiungere questo scopo.
Ma ciò non sarà automaticamente. Le circostanze possono
riunire, però vanno compiuti sforzi positivi per conoscersi
mutuamente, per relazionarsi.
Il contatto umano personale può, infine, spingere anche a
comprendere alcuni elementi della credenze e della pratica
religiose degli altri, in modo che i pregiudizi nei loro
confronti possano essere ridotti, se non eliminati, così
che, a un livello sociale, si partecipi a feste e
celebrazioni gli uni degli altri, dialogando con la vita.
Dove iniziarlo?
Nella scuola, dove agli studenti vengono presentate le varie
religioni, i loro fondatori, le storie e le dottrine, le
loro feste e le loro specifiche pratiche, le loro opzioni
politiche e morali. Questa presentazione potrebbe includere
i testi e la letteratura, le opere d’arte e i luoghi di
culto, i simboli e i rituali, sostenere le somiglianze, così
come le differenze, in un contesto di dialogo, per una
fusione di orizzonti e di arricchimento reciproco. Si spera
che le conclusioni convergano sull’azione. L’interazione
interreligiosa è sempre esistita nella storia, pur essendo
polemica. Il confronto intellettuale porta sempre alla
chiarificazione e alla crescita, prima o poi.
L’incontro interreligioso conduce alla riforma interna e al
cambiamento.
Nel XIX° secolo, vi sono stati molti movimenti di riforma
nell’induismo, dopo l’incontro con il cristianesimo.
L’atteggiamento cristiano rispetto alle altre religioni sta
subendo una radicale trasformazione a motivo del suo meeting
con l’induismo e il buddhismo. L’Islam, per esempio, ha
generato il sufismo devozionale quando ha gareggiato con la
religiosità popolare e il misticismo dell’India e dell’Asia.
10) Quale domani?
Circa l'influenza positiva/negativa della religione sulla
salute mentale, le ricerche in ambito psicologico dicono che
il 47% evidenzia un influsso positivo, il 23% un influsso
negativo e il 30% delle ricerche non hanno trovato alcuna
relazione tra religione e salute mentale.
E’ ovvio che anche lo psicologo necessita di
contestualizzare la religione del singolo individuo
all'interno della rete di riferimenti linguistici,
culturali, sociali, etnici entro cui il sistema simbolico
religioso trova espressione e alimento. La parola con cui
l'uomo dice Dio sorge al crocevia tra l'evoluzione
storico-culturale e il processo individuale di crescita
delle competenze "linguistiche" e di "dazione di senso". E'
chiaro però che un atteggiamento così personale come quello
verso la religione (sia l'adesione di fede o il rifiuto
della credenza) richiede che i risultati vengano sempre
verificati, il che significa porre particolare attenzione ai
processi individuali ed alle storie personali entro cui
viene strutturandosi ed evolvendo l'atteggiamento religioso
e all'interazione dei vissuti "religiosi" con gli altri
vissuti e fattori di personalità.
Considerando, infine, che le religioni (eccetto il
buddhismo) credono in Dio e nessuna religione è realmente
politeista, il più profondo incontro tra le religioni può
avvenire alla Sua presenza.
Nell’ottobre del 1986 e nel gennaio del 2001 (e in
tantissimi altri incontri), le varie religioni si sono
riunite ad Assisi per pregare per la pace. Per quanto non
abbiano pregato insieme, hanno riconosciuto e rispettato la
preghiera le une delle altre. Decenni prima, in India, il
Mahatma Gandhi promuoveva la preghiera interreligiosa come
mezzo di promozione della pace e dell’amicizia
interreligiosa.
Gruppi praticanti diversi leggevano le proprie scritture,
cantavano i propri inni e pregavano. L’atteggiamento dei
differenti fedeli presenti variava dalla presenza rispettosa
alla partecipazione attiva, secondo i tipi di simbolo
adoperati.
Se si riconoscesse che si prega l’unico Dio, allora si
sarebbe capaci di relativizzare ed entrare nelle strutture
simboliche di diversificate religioni, purché non si ponga
l’accento sullo specifico dei propri miti, fede e storia.
Nel corrente processo, ogni religione scopre la differenza
con i pertinenti simboli e significati, accettandone la
convergenza di senso mediante un suo pluralismo.
E’ bellissimo che la preghiera interreligiosa sta diventando
comune, attualmente, in Asia.
Vi è poi, un’apertura simile ai livelli più alti.
Da alcuni
decenni, i cristiani si sono interessati ai metodi di
meditazione dell’induismo e del buddhismo.
Molti, infatti, praticano Yoga e Zen. Alcuni non vanno oltre
l’uso delle loro tecniche per raggiungere la pace interiore.
Ma altri tentano di toccare le profondità dell’esperienza
alle quali questi metodi conducono. Gli esperimenti e le
esperienze di alcuni pochi mostrano come le frontiere che
separano le religioni non sono tanto impermeabili come i
loro devoti immaginano.
Per concludere, le religioni sono per le persone e per la
loro vita nel mondo; le persone non vivono per la loro
religione.
E, tanto per non dimenticare, ai cristiani sarà chiesto da
il loro fondatore, Gesù, non
a quale Dio le persone hanno reso culto, ma se hanno servito
il povero e il bisognoso (Mt 25).
Dio non è esclusivista; le persone e le loro religioni sì.
Maria De Falco
Marotta
(x)
(x) Giornalista, collaboratrice di
"Dimensioni Nuove" e di vari giornali on line, autrice di testi tra
cui "Verso una globalizzazione etica?" (Elledici, Leumann
Torino, 2002) e "Religioni Culture Dialogo" (Edusc, Roma, 2003).
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