Teatro di Sondrio: FUORI DI ZUCCA
Finale col botto al Sondrio Teatro con “QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO” di Dale Wasserman, per
la produzione della Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini, ispirato all'omonimo romanzo di Ken Kesey -
scordatevi la versione cinematografica del compianto Forman - che ha chiuso quest’ultima Rassegna. “Un
teatro con tutta la forza della denuncia dell’oppressione e il suo grido di libertà, e che sa parlare con lingua
forte, risuonando dentro emotivamente smuovendo le coscienze”, ha detto Marina Cotelli, assessore alla
Cultura del Comune di Sondrio già al lavoro per l’allestimento del prossimo calendario con tutto lo staff
capitanato dal deus ex machina, Fiorenzo Grassi che ha ventilato grandi sorprese per la prossima edizione.
La decalcomania che giganteggia a caratteri cubitali dinanzi al palcoscenico del Teatro Sociale non lascia
adito ad alcun dubbio. Lasciate ogni speranza voi ch’entrate perché queste sono le porte dell’ospedale
psichiatrico, il manicomio di un recente e non dimenticato passato. Purtroppo. Lo spettacolo si apre nel
buio più abbietto di un girone infernale che ospita i malati dell’anima, su cui lentamente raffiche di
pioggia trafitte di luce s’infittiscono, inutile lavacro per le nefandezze consumate nel padiglione dei pazzi
di Aversa, a due passi da Napoli, nel 1982. A reggere le sorti delle umane fragilità lo spietato rigore di
suor Lucia (un’algida e perfetta Elisabetta Valgoi) madre padrona, biancovestita, tra neri, inerti fantocci
di cui secondini aguzzini fanno carne da macello, vessando e imperando con sadica perversione, sedando
e imbracando ogni implacata smania di uscire da quella asmatica alienazione alimentata dalla paura di
cui si è impossessata la loro anima. La stessa instillata nel bieco manicomio del mondo dal terrorismo
psicologico delle falci rotanti dei camion allo sbando o dell’esaltazione di un insano innesco pronto a
deflagrare impastando nell’unica carne sanguinolenta vittime e colpevoli. Nell’ampia sala delle
scorribande incancrenite dei dementi “per scelta”, novelli Amleti, nell’assurda cacofonia di miseri esseri
errabondi, ecco giungere lo spavaldo Dario Danise (il fulminante Daniele Russo), “lo scugnizzo mai
cresciuto”, anzi vissuto a pane rubato a tradimento e ogni risma di ribalderia quotidiana, che rompe gli
assetti dei disequilibri interni presentandosi alla Pino Daniele col suo stravagante, corrosivo, paradossale
“je so’ pazzo!”. Ma qualcosa s’incrina nella spessa cortina di malferme, allucinogene verità del
campionario umano della follia che accoglie borderline e psicopatici o semplici affiliati alla
“edipodipendenza”, affetti da istinti maniacali o suicidi. Nell’angolo più oscuro un Ercole in catene, un
Kunta Kinte grande e grosso, abbattuto, prostrato, annichilito dagli psicofarmaci e dal terrore della
folgorazione disumana dell’elettroshock paventato nel “negozio delle ferramenta” dei malati cronici. In
una notte insonne, però, qualcosa lo risveglia dal suo torpore, una piccola attenzioe, e, dinanzi
all’ennesima provocazione della “Gestapo virulenta” per una festa mancata e una partita mondiale
negata che nessun pazzo avrebbe mai perso, reagisce finendo col suo degno compare al tavolo
dell’orripilante terapia d’urto dello shock elettrizzante. L’irruzione nella monotonia paludosa e devastante
della casa psichiatrica di una svezzata fanciulla di via, getterà infine lo scompiglio, concupita senza freni
inibitori dai fragili avventori di casa portandoli all’ebbrezza compulsiva della trasgressione alle regole
stantie e incartapecorite della madre badessa di un convento dell’assurdo. Soprattutto dall’edipico
fanciullone oppresso dal suo “cupio dissolvi” che, dopo aver consumato carnalmente le sue castrazioni
mentali dietro il paravento di una frigida dislalia, si vestirà da Giuda Iscariota per tradire il suo salvatore
che gli aveva prospettato la fuga, la libertà, il ritorno ad una società che di follia se ne intende, e che vi
rinuncerà per restare con gli unici amici della sua squallida esistenza. Pur senza la contropartita dei
trenta denari, il suicidio del compagno scardinerà infine la violenza ingabbiata di Danise destinato
irrimediabilmente alla lobotomia. Dinanzi al suo sguardo vuoto, allucinato, abbacinato dalla follia,
ridotto come un vegetale su una sedia a rotelle, sarà il mastodonte Ramon (un convincente Gilberto
Gliozzi) a soffocarlo ridandogli la sua dignità di uomo. Ferocemente selvaggia la visione di Alessandro
Gassmann nel drama insostenibile di uno spaccato di oscena insipienza della gestione dei manicomi di un
tempo, e parimenti elegiaca nelle dipintura oleografica delle retroproiezioni del golfo di Napoli, delle
mille lucciole che affollano le notti malsane del buio della mente, ma anche fortemente “laica” nel suo
“j’accuse” dell’ infecondo e inverecondo matriarcato religioso a capo di una espiazione infernale
anzitempo di miseri tapini reietti dalla società, e finanche nel turgido contrappasso erto dall’omone che
avanza come un Hulk inferocito verso il pubblico brandendo la Vergine Immacolata infranta in mille
pezzi. Unico veniale neo nella maratona scenica gassmanniana, la rotacizzazione di una dizione per alcuni
troppo accelerata e non perfettamente udibile nelle ultime file. Ma Mauro Marino, Giacomo Rosselli,
Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Davide Dolores,
Antimo Casertano, Gabriele Granito, con la direttrice in capo del “carcere psichiatrico” Elisabetta Valgoi e
l’irresistibile, effervescente matto da legare, Daniele Russo, hanno saputo ricreare con le loro
caratterizzazioni accentuate le torbide atmosfere di quell’universo esaltato della follia, di natura quasi
divina nell’elogio erasmiano, ma che nella pièce “Qualcuno volò sul nido del cuculo” getta una luce
perversa e inquietante sulla conduzione dei vecchi ospedali psichiatrici. Del senno di Orlando la luna
conservi pure il ricordo sfuggendo alla ricerca del prode Astolfo, perché, come recita un antico adagio, “il
cervello è una sottile sfoglia di cipolla” e non sempre è facile distinguere il savio dal folle. Dipende sempre
dai punti di vista. “Io nun' sò fesso, ma faccio ò fesso, pecchè facenn' o fesso, te piglio pe’ fesso”, amava
elucubrare il buon Totò. Una “fessaggine” sovrapponibile perfettamente alla pazzia. Ma, in fondo,
proprio in fondo, siamo veramente certi di essere noi quelli che vedono il mondo per il verso giusto?