La riforma costituzionale e l'elezione diretta del Premier

di Mario Segni

Per certi aspetti dovrei essere contento. La riforma
costituzionale approvata oggi dal Senato, e che a questo punto
ha forti probabilità di andare in porto, contiene l’elezione
diretta del Primo ministro.

E’ una nostra idea, lanciammo la
campagna per il “sindaco d’Italia”, e buona parte del movimento
referendario ci seguì.

E invece contento non lo sono affatto,
perché ogni grande riforma deve essere calata in quadro
costituzionale armonico, altrimenti diventa una casa di cui si
fa solo un muro. E sta avvenendo proprio questo, giacché un
Primo ministro eletto direttamente, che logicamente è molto più
forte, richiede una rete di garanzie in grado di esercitare un
controllo, richiede insomma una serie di contropoteri. Non è
stato fatto nulla di tutto questo, anzi si è fatto esattamente
il contrario. La Corte Costituzionale sarà più politicizzata,
perché i membri nominati dagli organi politici passano da cinque
a sette (ai cinque del Parlamento si aggiungono i due nominati
dalle Regioni). Al Presidente della Repubblica vengono tolti
molti poteri e non viene aggiunto nulla. Ma sopratutto la
riforma giunge in un Paese che è già estremamente squilibrato su
un settore fondamentale, su cui si dovrebbero anzi avere le
massime garanzie: quello dell’informazione. Ancora più che negli
organi costituzionali le garanzie di rispetto vero e non formale
della democrazia vanno poste su questo terreno. Ebbene proprio
qui l’Italia conosce la situazione peggiore, con il ben noto
fenomeno della concentrazione dei poteri televisivi nelle mani
del Presidente del Consiglio. Lo dico a chiare lettere. Se c’è
una legge in contrasto con la riforma , è la Gasparri, che
invece di garantire il pluralismo dell’informazione ha favorito
le concentrazioni.

C’è poi l’altro aspetto, quello della devolution, sul quale ho
già detto molto. E’ una riforma pericolosa e antistorica.
Pericolosa perché scava fossati tra una parte e l’altra
dell’Italia, con il rischio che diventino un giorno
incolmabili. E’ antistorica, anzi diciamo pure vecchia, perché
le esigenze di oggi richiedono più poteri allo stato nazionale.
I grandi problemi del 2000 sono infatti di portata tale da
essere affrontabili solo su scala nazionale, o più spesso
addirittura su scala europea. Parlo di immigrazione, di ricerca
scientifica e università, di politica estera e militare. Si
danno invece nuove competenze alle Regioni, si aumenta
probabilmente il contenzioso già forte, insomma si va in senso
opposto. E soprattutto lo si fa con uno spirito che è l’esatto
opposto dell’idea nazionale, con l’odio antistatale che ha
caratterizzato in questi anni tutta la politica della Lega.
Insomma l’Italia esce indebolita e non rafforzata da questa
riforma.

Su quest’ultimo punto le responsabilità sono molte e non tutta
la colpa è della Lega e della maggioranza. Perché l’Ulivo ha la
colpa di avere iniziato lo sfascio dell’amministrazione con la
scellerata riforma del titolo V fatta alla fine della scorsa
legislatura, che ha squilibrato la amministrazione pubblica e ha
creato il precedente politico di una riforma costituzionale
fatta unilateralmente a stretta maggioranza, senza ampi
consensi.

E’ questa la ragione per cui l’opposizione è stata
fatta in sordina, a volte in modo imbarazzato, e senza prendere
di petto i problemi. Per farla sul serio l’Ulivo avrebbe dovuto
dire di avere fatto un grave errore, ammettere lo sbaglio, dire
apertamente agli italiani che è una pazzia attribuire tante
competenze alle Regioni, e che questo non avviene nemmeno nei
veri e propri Stati federali (vedi l’ottimo articolo di Pirani
su Repubblica del 23 marzo). Con una linea di questo genere
avrebbe messo in imbarazzo il centro destra, dentro il quale
molti la pensano come Fisichella.

Non avendo il coraggio di
farlo, l’opposizione ha dovuto tacere sul contenuto di molte
follie, ha spesso tenuto un silenzio imbarazzato. La conclusione
è che il dibattito non ha avuto eco nella opinione pubblica, e
oggi in Italia pochi sanno che cosa è successo.

Quasi certamente la riforma passerà in Parlamento. Resterà solo
il referendum per fermarla. Avremo occasione di risentirci, ma
ti dico subito che il mio sarà un no convinto
Mario Segni


GdS 30 III 2005 - www.gazzettadisondrio.it

Mario Segni
Politica