ANTISEMITA E RAZZISTA , IO??? 12.3.20.13
L'Anti -Defamation Leaugue del 20 marzo scorso, ha pubblicato un sondaggio negli USA in cui l'Europa, circa il razzismo e l'antisemitismo, se la vede proprio brutta. Gli italiani non è che sono proprio "cuore e amore" come viene loro insegnato a catechismo durante la preparazione ai sacramenti del dopo battesimo (è molto difficile che una coppia non faccia battezzare il figlio, dichiarando così, di essere cristiano e membro della Chiesa cattolica), tant'è che la loro ostilità nei confronti degli ebrei che vedono troppo invadenti nel campo dell'economia e della finanza, è circa il 61% della percentuale rilevata , dove il primo posto spetta all'Ungheria con il 63%!
Non è che siamo cambiati moltissimo da quando regolarmente ogni anno si celebra la Giornata della Memoria (gennaio) per aiutare le nuove generazioni ad impegnarsi contro ogni odio razziale, specie contro gli ebrei che sono e rimangono i nostri fratelli maggiori perché - come la mettiamo - Gesù Cristo, amato da miliardi di persone nel mondo, era certamente un ebreo pio ed osservante della legge del suo popolo. Mi piange il cuore a leggere di quanta cattiveria e nefandezza siamo ancora capaci, sebbene la Croce dovrebbe averci trasmesso qualcosa. Signore, perdonaci ed aiuta tutti a crescere nell'amicizia.
Per tale motivo, ritengo significativo il corposo Dossier che ha preparato con tanta generosità e solerzia "Una Città", da cui traggo e propongo ai nostri lettori, i passi più significativi.
1) MEMORIA E IDENTITA' (sempre da "Una Città", il caso particolare che sta vivendo la Francia a seguito dell'eccidio di Toulouse).
Parla Michel Wieviorka, sociologo, direttore del Centro di Analisi e d'Intervento Sociologico (Cadis) dell'Ehess di Parigi. E' fondatore e direttore della rivista Le Monde des Débats.
Esiste l'antisemitismo oggi?
Sulla questione dell'antisemitismo è utile intanto distinguere tra la dimensione Stato nazione e quella invece planetaria. Io penso che il fenomeno sia presente ad entrambi i livelli e che però sia evoluto assumendo caratteristiche diverse. E' evoluto nei suoi contenuti, ma anche dal punto di vista degli attori; non solo: è diventato appunto un fenomeno globale. Questo significa che l'antisemitismo in Francia ha a che fare con le trasformazioni interne della società, ma allo stesso tempo è la proiezione sul suolo francese di logiche che vengono dall'esterno.
Allora, la prima novità è che l'antisemitismo ha smesso di essere razziale in senso biologico. Non si sente più parlare di sangue, di razza ebraica, di tratti fisici propri agli ebrei. La "biologizzazione" dell'antisemitismo si è indebolita man mano che il fenomeno veniva portato avanti da attori a loro volta vittime del razzismo, più o meno a sfondo biologico. In Francia, per dire, gruppi di origini algerine o marocchine, fanno resistenza a caratterizzare fisicamente gli ebrei perché sanno che il medesimo meccanismo potrebbe avere un effetto boomerang nei loro confronti.
Una seconda caratteristica importante concerne i suoi contenuti: oggi l'antisemitismo dice quasi il contrario di quello che diceva il vecchio antisemitismo. Fino a cento anni fa l'antisemitismo consisteva nel ritenere gli ebrei un pericolo, una minaccia per l'identità nazionale, per l'integrazione, per il corpo sociale, per l'omogeneità del Paese... Insomma, gli ebrei incarnavano logiche che minavano il gruppo dominante e quindi l'immagine della propria società, della propria nazione, della Repubblica...
Oggi accade quasi il contrario. Gli ebrei non rappresentano più una minaccia di quel tipo, ma al contrario l'occupazione del centro della nazione, della società, della repubblica. Non si dice più: "Gli ebrei sono un pericolo per la nazione, per la repubblica, per lo Stato, per la società" bensì: "gli ebrei si sono integrati"...
Troppo?
Appunto, sono troppo al cuore della nazione, della società. Insomma quello che viene loro rimproverato non è la minaccia che costituirebbero, ma il fatto che sono "entrati" e che occupano posti di potere. E' un cambiamento considerevole. Del resto è vero che gli ebrei oggi in Francia non sono vittime né di segregazione né di discriminazione, in alcun modo, mentre fino a un secolo fa lo erano ancora.
L'altro cambiamento, come dicevo, riguarda i nuovi "attori", coloro che portano avanti i contenuti antisemiti. Beninteso, il vecchio antisemitismo nazionalista, razzista, xenofobo non è sparito, come pure quello cristiano che ritiene appunto che gli ebrei abbiano ucciso Gesù: esiste ancora e lo si incontra oggi nelle aree di destra "dura", di estrema destra.
Da questo punto di vista il vero spartiacque è dato dal fatto che dopo la seconda guerra mondiale l'antisemitismo è diventato "criminale", quindi non può più avere un'espressione esplicita, e tuttavia continua ad apparire, casomai in forma velata. In Francia in particolare è stato risvegliato dall'estrema destra, nella persona di Jean-Marie Le Pen, che ha avuto spesso uscite molto infelici, come nel 1998 all'università estiva del partito, in cui se ne uscì con il gioco di parole "Durafour crématoire", a proposito del ministro ebreo Michel Durafour, o ancora con affermazioni come "la Shoah è un dettaglio della seconda guerra mondiale", per non parlare dell'interesse che ha sempre manifestato il Fronte Nazionale verso i cosiddetti testi "negazionisti".
Quindi il vecchio antisemitismo non solo continua ad esistere, ma negli anni '80 è stato rilanciato.
Un altro elemento, neanche questo nuovo, è la presenza di un certo antisemitismo nell'estrema sinistra, anch'esso erede di una vecchia tradizione, sia marxista che anarchica; sia in Karl Marx che in Proudhon se ne trovano tracce. Il partito comunista è stato anch'esso talvolta antisemita o ha comunque manipolato l'antisemitismo.
Ecco, tutta questa tradizione ha trovato una nuova edizione nell'identificazione politica alla causa palestinese. Il ragionamento è abbastanza semplice: "Israele è il sionismo, un progetto inaccettabile, la dominazione e la distruzione dei palestinesi, la colonizzazione", cose peraltro, a mio avviso, in parte condivisibili, ma da qui si fa un passaggio ulteriore per cui lo Stato di Israele e le sue politiche vengono a coincidere tout court con gli ebrei, e di conseguenza tutto quello che tocca ai palestinesi rimanda al male assoluto incarnato dagli ebrei.
In sostanza, per alcuni il punto di partenza è l'antisemitismo, per altri l'antisemitismo è piuttosto un punto di arrivo.
Ha parlato dell'estrema destra, e di una certa sinistra terzomondista. Che ruolo rivestono invece le popolazioni immigrate di origine arabo-musulmana in questo fenomeno?
Allora, premesso che si può essere arabi e non musulmani, come si può essere musulmani senza essere arabi, qui direi che di nuovo l'antisemitismo nasce da un'identificazione alla causa palestinese. Molti di questi giovani immigrati vivono nei quartieri popolari, dove alcuni discorsi trovano terreno fertile: "io immigrato in Francia mi sento trattato come i palestinesi in Medio Oriente", "io sono vittima del razzismo della polizia come loro dell'esercito israeliano", "io sono escluso socialmente e vivo in condizioni molto dure, come i palestinesi". E' un po' lo stesso meccanismo: chi domina, sfrutta, disprezza, terrorizza i palestinesi sono gli israeliani, gli israeliani sono gli ebrei...
In Francia, l'aspetto interessante è che, a rigore, questo discorso si sviluppa senza alcun riferimento a degli ebrei reali. E tuttavia non si può negare che il discorso comunitario ebraico oggi pone effettivamente un problema. Il Crif (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche Francesi), attraverso il suo presidente, ha spesso dato l'immagine di una diaspora francese solidale con il governo israeliano, qualunque cosa esso faccia. Da questo punto di vista, almeno nel caso francese, non è così bizzarro equiparare la critica al governo israeliano a quella agli ebrei nel loro insieme.
Una seconda logica, che è molto diversa, è quella alla Samuel Huntington(pace a lui, è nell'aldilà da alcuni anni)tra religioni: l'Islam e l'Occidente sono in guerra, io sono musulmano quindi sono in guerra contro l'Occidente. L'Occidente sono gli Stati Uniti, gli Stati Uniti sono governati da degli ebrei, o comunque sono a favore di Israele, di qui l'equazione Israele uguale Stati Uniti. Ecco come viene fuori il discorso antisemita. In questo caso non si tratta di identificazione alla causa palestinese.
Va anche detto che a volte abbiamo una logica senza l'altra, a volte le abbiamo entrambe contemporaneamente. Direi che è questo il nuovo paesaggio.
Tra le novità ha citato anche la "globalizzazione" dell'antisemitismo. Può parlarne?
Oggi bisogna parlare di un fenomeno globale, cioè sostenuto da logiche planetarie, che però si installano sulle dinamiche interne di ciascuno Stato nazione. In realtà nemmeno questa è una novità a tutti gli effetti: l'antisemitismo è globale da molto tempo. Le ricerche che hanno indagato l'odio verso gli ebrei nell'antichità lo registravano già in diverse aree.
La globalizzazione è stata promossa dal cristianesimo: l'accusa mossa agli ebrei di essere un popolo deicida è circolata per una tale quantità di tempo da fornirgli una dimensione globale.
Quello che invece è nuovo, utilizzando una definizione non mia, ma di un marxista americano, David Harvey, è che con l'inizio degli anni '90 si può parlare della globalizzazione come di una "doppia compressione", del tempo e dello spazio, che investe anche l'antisemitismo.
Un esempio: nei paesi del Medio Oriente si accusano gli ebrei di ogni sorta di nefandezza: i crimini rituali (le vecchie accuse cristiane), il complotto per prendere il potere sul mondo; si recuperano i Protocolli dei Saggi di Sion (un testo inventato dalla polizia dello zar alla fine del XIX secolo); si riprendono argomentazioni di tipo nazista, quindi razziali, sorte in Europa all'inizio del XX secolo, ma anche tematiche negazioniste, per cui gli ebrei avrebbero inventato la Shoah, o comunque manipolata a loro profitto, per rafforzarsi.
Insomma, si prende quello che arriva da ogni parte del mondo e lo si amalgama e tutto questo circola un po' dappertutto. E' in questo senso che il fenomeno dell'antisemitismo è globale e non semplicemente locale. Questa è una novità. La domanda è: queste sono logiche che appartengono a una dimensione planetaria che poi prendono corpo nei vari paesi, oppure sono interne a ogni paese?
In Francia c'è stata una recrudescenza di violenze e aggressioni antisemite all'inizio del 2000, in concomitanza con lo scoppio della seconda Intifada. Molti hanno interpretato questo dato sostenendo che l'antisemitismo francese non sarebbe nulla più che la proiezione sul suolo nazionale di quello che succede in Medio Oriente, quindi logiche planetarie. Gli ultimi eventi però non trovano corrispondenza nell'attualità internazionale. Di qui l'idea che l'antisemitismo sarebbe invece l'esito di un disagio sociale, nello specifico, la crisi nelle banlieues, l'esclusione, la povertà…
Ecco, io credo che una buona analisi sia quella che prova a coniugare i due registri, facendoli giocare insieme.
Meno di un anno fa un giovane ebreo, Ilan Halimi venne sequestrato, torturato e infine ucciso da una banda di criminali. E' stato subito evidente, per quanto se ne sia discusso, che quest'azione aveva una connotazione antisemita perché la vittima era stata scelta in quanto ebrea. I rapitori avevano sequestrato un ebreo certi di avere il riscatto: gli ebrei sono il denaro -un pregiudizio antisemita. E se la famiglia non paga, la comunità pagherà. E infatti i rapitori alla fine hanno chiesto il denaro a una sinagoga, a un rabbino. Tuttavia quest'azione non ha nulla a che fare con la globalizzazione. Si è trattato di un gesto criminale e barbaro interno alla società francese. Allora, da un lato ci sono questi giovani che vedono alla televisione un bambino palestinese trattato in modo inumano dall'esercito israeliano e che poi cercano di incendiare una sinagoga -una proiezione sulla Francia del conflitto israelo- palestinese quindi logiche globali, mondiali, planetarie. L'emersione di nuove identità ha investito il rapporto con la memoria, la storia, la stessa nazione…
Facciamo qualche passo indietro. Dalla fine degli anni '60, la Francia, come molti altri paesi, ha conosciuto un "ethnic revival", una rinascita delle identità. E' cominciato con le identità regionali, quella occitana, bretone, più tardi quella corsa, con ricadute anche in ambiti inediti. Gli stessi sordomuti si sono "risvegliati" e hanno chiesto il riconoscimento della lingua dei segni diventando a loro volta un movimento identitario. Anche gli ebrei di Francia in quel periodo si sono conseguentemente allontanati dal modello repubblicano classico, ereditato dall'epoca rivoluzionaria e dall'Illuminismo, fondato sull'idea che si potesse essere ebrei in privato ma non in pubblico. In sostanza possiamo dire che a partire dalla fine degli anni '60 questo modello inizia a scricchiolare aprendo nuovi spazi a queste emergenti identità che fanno appello in primo luogo alla loro memoria.
Aggiungo che non si può capire il risveglio degli ebrei di Francia se non si tiene in considerazione quanto successo durante la Seconda Guerra Mondiale in questo paese: il ruolo della polizia, dello Stato, del regime di Vichy, quindi la messa in causa dello Stato e della storia nazionale.
Gli stessi occitani del resto hanno messo in primo piano il loro essere stati vittime, così i bretoni. Insomma, c'è l'idea che per esistere collettivamente bisogna rintracciare una propria storia specifica, attraverso la memoria.
Negli anni '80 il fenomeno identitario ha preso un'altra direzione, sostituendo la memoria con l'appartenenza religiosa: l'Islam.
Negli anni sempre più "identità" hanno chiesto un riconoscimento, anche dal punto di vista della memoria, a partire dall'appartenenza a un gruppo che avesse sofferto storicamente a causa della Francia. Talvolta si è chiesto alla Francia di ammettere questa sofferenza anche se causata da un altro Paese. E' il caso degli armeni, che hanno chiesto alla Francia di riconoscere il genocidio perpetrato dai turchi contro di loro.
Così arriviamo agli anni '90 e a oggi, con l'emergere di nuovi appelli a memorie e storie fatte di sofferenza, distruzione, sterminio, fino al passato coloniale e allo schiavismo dei neri di Francia. Di qui il dibattito su Napoleone ad Haiti, la tratta dei neri, lo schiavismo, la colonizzazione, la decolonizzazione... Insomma siamo entrati in una situazione in cui sempre di più le radici nazionali, la storia, sono in discussione. Talvolta le rivendicazioni, le affermazioni, sono portate da gruppi che partono da fatti storici molto contestabili, o comunque presentati in modo discutibile, banale, semplificato. Oggi si sente dire che gli antillesi discendono tutti dagli schiavi, che in parte è vero, ma le cose sono molto più complicate. Dopo tutto la tratta dei neri non è "la" tratta dei neri, ma "le" tratte dei neri, e non c'è alcuna ragione per imputare tutte le colpe alla Francia. Il fenomeno ha interessato anche altri paesi d'Europa, Portogallo, Spagna, Inghilterra, come pure alcuni paesi dell'Africa stessa. Se si vuole parlare seriamente di queste tematiche bisognerebbe affidarsi a indagini storiche serie -alcune, per dire, hanno messo in luce anche il ruolo degli africani nella tratta dei neri. Quindi siamo all'interno di un panorama articolato e a tratti scivoloso, specie quando si appella a memorie false.
La Francia oggi è costretta a confrontarsi con l'immagine di un paese tutt'altro che glorioso, che anzi ha perpetrato crimini orribili. Jacques Chirac è stato molto chiaro a questo proposito: la nazione francese per crescere deve riconoscere i torti del regime di Vichy e dello Stato, e la schiavitù. Una posizione inedita rispetto al XIX secolo, quando la bella e grande nazione francese aveva sempre ragione.
In che senso entra in crisi il modello repubblicano alla francese e qual è la posizione degli ebrei?
Tutti questi gruppi rivendicano il diritto di essere riconosciuti pubblicamente, che i libri di storia ne parlino. Queste identità vogliono esistere anche sul piano pubblico, avere mezzi di espressione, risorse, visibilità; non accettano più di essere confinati alla sfera privata.
E' questo il nodo critico, perché il modello repubblicano francese consiste sostanzialmente nel dire: nello spazio privato fate quello che volete, ma in quello pubblico non ci sono che individui, quindi non ci sono minoranze, gruppi, né particolarismi culturali. Ecco, un'applicazione dura e pura di questo principio non è più accettabile.
Stiamo cioè assistendo alla nascita di quello che io chiamerei un modello "neo-repubblicano".
E' in atto una trasformazione del modello repubblicano: questi gruppi si aspettano molto dalla repubblica, ne rispettano pienamente i valori, ma nello stesso tempo vogliono essere riconosciuti come tali.
Qui l'esperienza degli ebrei francesi è molto interessante. I primi ad avere compreso tutto questo infatti sono stati loro. Nel vecchio modello repubblicano si poteva essere ebrei solo in privato. Addirittura non li si chiamava ebrei, bensì israeliti, la parola era scomparsa dal vocabolario. Col tempo però hanno preso le distanze da questo modello e sono diventati visibili, religiosamente, politicamente, nel loro rapporto con Israele, culturalmente, si sono quasi "etnicizzati". Di qui una rottura con il modello repubblicano classico. Allo stesso tempo -è diventato evidente soprattutto in questi ultimi anni- hanno dimostrato di aspettarsi molto dalla Repubblica.
Quando c'è stato l'omicidio del giovane ebreo Halimi c'è stata una mobilitazione che ha espresso la richiesta alla Republique di garantire la sicurezza e il rispetto dei valori democratici. Dopo una fase di grande presa di distanza, oggi gli ebrei francesi, appellandosi alla Repubblica, stanno contribuendo ad inventare questo modello neo-repubblicano, facendosi di fatto portavoce anche delle rivendicazioni degli altri gruppi.
2) NON CI SONO NOMI ARABI
L'antisemitismo, comparso dapprima come odio religioso, nella forma dell'antigiudaismo cristiano, nel XIX secolo diventa odio razziale; la specificità, ma non l'unicità, della Shoah e il problema della "concorrenza tra memorie"; l'antislamismo, oggi più diffuso dell'antisemitismo.
Intervista a Dominique Vidal, storico e giornalista di "Le Monde diplomatique", è autore di diversi libri, tra cui, con Karim Bourtel, Le mal-être arabe. Enfants de la colonisation e Le mal-être Juif.
Dobbiamo parlare ancora dell'antisemitismo oggi.
"Antisemitismo viene da semita, per cui riguarda sia arabi che ebrei". E' vero, tuttavia tra la Francia e gli ebrei c'è un rapporto particolare perché, da una parte, c'è una storia di persecuzione, di sofferenza e di genocidio; dall'altra la Francia è stato il primo paese al mondo che ha accordato il diritto di cittadinanza agli ebrei, a partire dalla Rivoluzione francese, e poi con le disposizioni varate da Napoleone I. La Francia ha poi visto riemergere l'antisemitismo con l'affaire Dreyfus. Certo, Dreyfus ha vinto, ma poi c'è stato Vichy: un regime che è stato l'organizzatore del genocidio degli ebrei francesi..
Quando, nel 2005, ho fatto il tour delle banlieue francesi con Leyla Shahid (che è stata delegata dell'autorità palestinese in Francia) e con Michel Warschawski, concludevo gli incontri dicendo che in Francia si può parlare di vari tipi di razzismo (anti-arabo, anti-nero, anti-cinese, anti-ebraico, ecc.) e tuttavia, per quanto riguarda la storia tra Francia e ebrei, c'è bisogno di una parola specifica. Nessun altro gruppo di cittadini francesi è stato infatti vittima di persecuzioni e genocidio. In Francia, nel 1939, vivevano circa 330.000 ebrei. Di questi 76.000 sono stati deportati. Ne sono tornati 2-3000. E questo è un genocidio che non ha paragoni nella storia di Francia.
L'odio verso gli ebrei, poi, ha assunto forme diverse nella storia: c'è stato prima di tutto un odio di tipo religioso. Per me l'anti-giudaismo cristiano si spiega, prima di tutto, attraverso un complesso molto profondo che hanno i cattolici, soprattutto i più coscienti, di essere degli ebrei "traditori", che si sono convertiti a una religione rimasta per molto tempo una setta ebraica (Gesù era un ebreo, San Paolo era un ebreo... ). C'è, insomma, una specie di legame congenito tra giudaismo e cattolicesimo che spiega la forza del sentimento anti-ebraico e che ha a che fare con la pulsione, presente in tutti i gruppi umani, a odiare quello che più ci assomiglia.
Nei secoli questo è evoluto, soprattutto nel Diciannovesimo secolo, con l'invenzione di quello che si chiama "antisemitismo", che è una teoria razziale. Voglio dire che è molto diverso da quello che avvenne quando, ad esempio, la regina Isabella, la Cattolica, cacciò gli ebrei dalla Spagna nel Quindicesimo secolo. All'epoca, infatti, gli ebrei che decisero di convertirsi non ebbero problemi: diventarono degli spagnoli come gli altri. Si tratta dei "marrani" (un termine che non arriva, come spesso si crede, da "maiali", ma da "haram", che significa "vietato. Allorabastava convertirsi per non essere più vittima dell'anti-giudaismo religioso di Stato.
Cosa è cambiato nel nostro tempo?
Nel diciannovesimo secolo nasce un antisemitismo di tipo scientifico: non c'era infatti solo l'antisemitismo, ma una vera teorizzazione delle diverse razze inferiori. Nasce l'odio razziale, dal quale non c'è scampo: le leggi di Norimberga, così come sono state votate dai nazisti, fanno sì che se si è ebrei lo si resta: non si può fare nulla, né convertirsi, né pregare, né diventare monaci. Si tratta di una differenza radicale che spiega l'estrema violenza della soluzione genocidaria in rapporto ad altri periodi di persecuzione, che pure fecero molti morti.
C'è un libro fondamentale di Enzo Traverso sulla modernità e il carattere occidentale del genocidio nazista, La violenza nazista. Una genealogia, in cui viene messo in luce il legame tra la ghigliottina, usata durante la Rivoluzione francese per decapitare i re e i nobili, il sistema fordista dei mattatoi moderni e la caccia agli handicappati.
Da questo punto di vista va anche ricordato che nella storia del genocidio nazista propriamente detto, le prime vittime in ordine temporale sono i malati mentali. Su 300.000 malati mentali internati negli ospedali psichiatrici, 100.000 vengono uccisi dai nazisti tra il primo settembre 1939 e il mese di agosto 1941, anno in cui teoricamente si ferma (dopo le proteste delle chiese riformate). La maggior parte di queste persone sono state uccise col gas. L'invenzione del gas come mezzo di sterminio da parte dei nazisti è stato realizzato per i malati mentali. All'inizio era un sistema molto rudimentale: si mettevano le persone negli autobus, le si isolava e poi le si gasava, con un procedimento che poteva durare diverse ore. Con l'arrivo della guerra il sistema venne perfezionato, prima con autobus "mobili" e infine con le camere a gas. Enzo Traverso e molti altri specialisti mostrano che il genocidio nazista mirava a eliminare diverse categorie di "sotto-uomini", considerati come non-ariani, tra cui gli "zingari" (non i Rom o i Sinti). Himmler era un uomo che aveva una concezione dell'etnologia molto particolare. Durante tutto il periodo della guerra ci fu una discussione teorica su quali gruppi andassero uccisi. Una parte degli "zingari" venne uccisa con il gas ad Auschwitz, quando arrivarono gli ebrei ungheresi (luglio-agosto 1944). Complessivamente si stima siano morti tra i 170.000 e i 500.000 individui: il numero esatto non si conosce.
Oltre allo sterminio degli zingari, c'è stato uno sterminio massiccio dell'intellighenzia polacca (preti, professori, maestri, ecc.) e, verso la fine della guerra, della popolazione sovietica (non solo dei quadri comunisti). A questo proposito, pare che Göring, alla fine del 1941, abbia ricevuto il conte Ciano, il ministro degli Esteri di Mussolini, e gli abbia comunicato: "L'anno prossimo trenta milioni di sovietici moriranno di fame". Un progetto organizzato, non una constatazione. Parliamo quindi del genocidio di tutta una serie di categorie, e in maniera particolare degli ebrei. L'anti-giudaismo religioso si è dunque trasformato in una forma di razzismo eliminazionista e sterminazionista che non si è limitato a prendere gli ebrei come vittime, anche se quest'ultimo era l'unico gruppo che andava eliminato totalmente. Cioè non tutti gli zingari dovevano essere uccisi, non tutti i preti polacchi dovevano essere uccisi... ma tutti gli ebrei sì. A questo proposito ci sono storie incredibili. In Grecia, mentre il Terzo Reich stava crollando, con il fronte americano e sovietico in arrivo, pare ci siano state delle SS mandate in un'isola sperduta a cercare tre ebrei, oppure a Venezia a negoziare con le autorità del ghetto per recuperare qualche malato mentale ebreo. Soldati che - in piena catastrofe - passano giorni e settimane a cercare questa gente. Per cui non si può negare la specificità, anche ideologica, dell'antisemitismo.
Ciò è un carattere occidentale del genocidio.
Sì, è una cosa di cui discutevamo spesso con Leyla Shahid. Nel mondo arabo-musulmano gli ebrei, così come i cristiani, non erano cittadini come gli altri. Erano dei "dhimmi", che significa "protezione". Essendo l'Islam la religione dominante, c'erano delle regole da seguire: un ebreo non poteva costruire la torre di una sinagoga più alta di una moschea, bisognava essere a piedi se il capo musulmano era a cavallo... cose di questo tipo. Ma nei secoli di coesistenza giudeo-musulmana nel mondo arabo e musulmano ci sono pochi casi di massacri e persecuzioni. E nessun genocidio. Come ricordo sempre: Auschwitz è un nome polacco, Ravensbruck è un nome tedesco... Se prendiamo la lista dei campi di concentramento e di sterminio non ci sono nomi arabi. È proprio questo a rendere quello che è successo dopo il 1947-'48 in qualche modo una formidabile ingiustizia: coloro che non avevano nulla a che fare con quella vicenda (a parte il gran Mufti di Gerusalemme), cioè arabi e palestinesi, hanno pagato le conseguenze di un orrore di cui erano invece complici e colpevoli dei popoli d'Europa.
Nel razzismo c'è sempre anche un aspetto profondo, irrazionale...
Sì, spesso non si considera che il razzismo rimanda a qualcosa di ben radicato nelle zone più cattive e "sporche" dell'animo umano. Nella storia dei genocidi e dei massacri c'è sempre qualcosa che va al di là della politica, dell'economia, del sociale e dell'ideologia. Qualcosa che ha a che fare con l'animo umano. Consiglio, a questo proposito, il libro di Jacques Sémelin, Purifier et Détruire, uno studio dei massacri e dei genocidi che mette in evidenza, appunto, questo "qualcosa" di profondo. Sémelin sostiene che i massacri, i genocidi, per quanto specifici, si iscrivono tutti in una lunga storia di massacri umani di cui bisogna capire l'origine e il funzionamento.
Come può uno dei popoli più colti e civili del mondo fare una cosa del genere?
Io sono stato a lungo in Germania, anche su esplicita volontà di mio padre, che mi ha sempre detto che Auschwitz non è un affare tra ebrei e tedeschi, ma dell'umanità. Per cui mi ha insegnato, fin da subito, a parlare con i tedeschi, cosa che ho fatto per tutta la vita.
Ecco, Sémelin, una persona che ammiro molto, intanto spiega che chi dice che la Shoah non è comparabile, in realtà, proprio perché lo sostiene, la sta comparando. A questo aggiunge che non si può avere una spiegazione mono- casuale per genocidio. Bisogna indagare i tanti e diversi fattori che portano, in un momento preciso, a un massacro, favorendolo e alimentandolo. Il suo libro è un vero viaggio all'inferno, sul modello dantesco. E alla fine si arriva a un capitolo, assolutamente terrificante, sull'animo umano e sul fatto che non si possono capire massacri e genocidi se non si considera che esiste, nell'uomo, una sorta di "piacere" e di "godimento" della morte, della tortura...
A questo proposito è illuminante "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pier Paolo Pasolini, che personalmente ho detestato, ma che diceva una cosa molto profonda, cioè che il nazismo o il fascismo siamo noi. In fondo, è la stessa cosa che sostiene Hannah Arendt ne La banalità del male: i criminali nazisti non sono mostri, ma uomini come gli altri che a un certo punto, per ragioni precise, hanno avuto l'occasione di esercitare le loro pulsioni grazie a regimi e ideologie che glielo hanno permesso. Ovviamente in tutto questo conta anche la personalità di Hitler, che ha giocato un ruolo. Ma non si può capire il genocidio nazista se non comprendendo a fondo la crisi e la miseria dei tedeschi, della classe media tedesca (la classe operaia era abituata alla miseria), la gelosia terribile di questa classe verso la borghesia ebraica emancipata, educata, più tesa verso la cultura di quanto non fosse quella tedesca...
Un altro riferimento per capire questo sentimento è "Shoah" di Claude Lanzmann. Si tratta di un film straordinario, ancora di più per i dettagli. A un certo punto Lanzmann intervista delle donne in un villaggio polacco che ammettono: "Siamo molto contente che le ebree non siano più qui: erano molto belle e i nostri mariti le guardavano e ci tradivano con loro". E lo dicono negli anni Ottanta (il film è del 1985), non negli anni Quaranta. Si tratta di brave mamme, lavoratrici, che a un certo punto vengono animate da una gelosia feroce che le porta ad essere contente dello sterminio delle ebree.
Sempre a questo proposito c'è un libro di un autore tedesco, Frank Bajohr, intitolato Aryanisation in Hamburg. Qui l'autore racconta che ogni volta che ad Amburgo arrivava un treno dalla Francia con i prodotti rubati agli ebrei francesi deportati, la gente si radunava per portarseli a casa. Si trattava di tutto quello che era "sfuggito" ai gerarchi nazisti: cappotti, camicie, libri... Quindi abbiamo l'antisemitismo malato di Hitler, la donna polacca gelosa delle ebree e la tedesca che va a cercare il cappotto di visone senza chiedersi del destino di "Madame Rosemblum" che viveva in rue de Rosiers a Parigi e che nel frattempo è stata gasata ad Auschwitz.
Voglio dire che l'antisemitismo malato di Hitler ha contato, ma fino a un certo punto. E infatti, il Partito nazionalsocialista nelle elezioni tedesche, dal 1925 fino al 1933, gioca l'antisemitismo in maniera molto lieve, perché sa che la società tedesca non è profondamente antisemita. Nonostante le singole specificità, non ci sono razzismi di serie A e razzismi di serie B, per così dire. Non bisogna mai accettare di separare un razzismo da un altro, perché se si guarda al razzismo anti-arabo o all'islamofobia oggi in Francia, o all'odio antireligioso in India, ritroveremo gli stessi fenomeni nella loro diversità. Certo, qualcuno è nero, qualcuno è giallo, qualcuno è rosso, ma nella storia dell'umanità c'è un solo fenomeno, che è il razzismo, che è cosa diversa dalla xenofobia. Questo razzismo ha avuto delle forme diverse, a seconda delle diverse popolazioni presso le quali si è sviluppato. Non si può quindi dividere il razzismo in categorie né, tantomeno, farne una gerarchia. Tutti i razzismi sono pericolosi, in periodi diversi. Se li si isola, non li si combatte. Nel 2006 Hilan Halimi, un giovane di origine ebraica, venne massacrato: fino ad oggi ancora non si conosce tutta la verità. Il gruppo di Youssouf Fofana (il suo aguzzino) se la prese con lui perché era ebreo o perché ricco? Mai, fino all'interrogatorio, Fofana ha proferito una parola anti-ebraica. Secondo l'avvocato di Halimi, Fofana ha invece giustificato la sua barbarie con l'antisemitismo. Con questo io non voglio dire nulla se non che ci vuole sempre grande prudenza nell'interpretazione di questi fatti. Dopo la morte di Halimi ci sono state grandi manifestazioni, le Chiese hanno espresso solidarietà, così le massime cariche dello Stato, il Presidente della Repubblica, il Primo ministro... Non ci sono state però manifestazioni unitarie perché il Crif (Conseil Représentatif des Institutions juives de France) non ha voluto. E però durante la manifestazione c'erano moltissime bandiere israeliane. Che messaggio è arrivato ai giovani delle banlieue?
Non solo, la sera della manifestazione, la Lega di Difesa Ebraica, con una decina di persone ha organizzato una "ratonnade". Questa parola non è traducibile: durante la Guerra d'Algeria gli arabi venivano chiamati "rat", "topi". Per cui quando si fanno azioni di rappresaglia contro gli arabi si parla di "ratonnade". Tre settimane dopo un giovane di origini arabe è stato ucciso vicino a Lione. Nessuna dichiarazione di Chirac, nessuna dichiarazione del Primo ministro, nessuna dichiarazione delle Chiese. Questo è un esempio su tanti. Se una sinagoga viene attaccata, la notizia è ripresa ovunque nella stampa, se capita con una moschea, forse viene il sindaco, ma finisce lì. Non c'è miglior modo di alimentare il razzismo: le vittime del razzismo sentono che non sono trattate allo stesso modo.
La"concorrenza tra le memorie" è una delle cause dell'antisemitismo.
Delle 50 conferenze che faccio ogni anno, circa 15 sono sulla Shoah. Per scelta. Non parlo mai di "dovere di memoria" ma di "lavoro di memoria". Non c'è dovere di memoria: la memoria è qualcosa su cui bisogna lavorare. Come? Con delle cerimonie, delle targhe, con incontri e lezioni nelle scuole. Se, per ipotesi, un professore oggi non parlasse nelle scuole francesi di Shoah, per un giovane ebreo francese sarebbe un dolore. Però non si parla delle violenze della polizia francese durante la Guerra d'Algeria, della schiavitù... Alla tv si trova sempre qualcosa sulla Shoah. Va benissimo, ma perché non si fa altrettanto per altre memorie, come quella della schiavitù, per esempio? Questa sproporzione è una delle cause maggiori dell'antisemitismo. Ed è tanto più grave perché di fatto è la Repubblica stessa a sancire la superiorità di una memoria rispetto ad altre.
Mio padre, Haïm Vidal Sephiha, che è sionista, e che è spaventato dagli episodi di antisemitismo, quando va nelle scuole o nelle università dice la parola "ebreo" una sola volta, quando mostra la sua carta d'identità dell'epoca. La sua lezione è universale: genocidio e massacro non sono una affare tra tedeschi e francesi, ma un problema per l'umanità che ha toccato gli ebrei, gli indiani d'America, il Ruanda, ecc... E non è che non pensi che la Shoah non abbia una sua specificità, ma ha capito che deve fare un discorso che tutti possano capire. Se parla di "unicità ebraica" è finita. Il fatto è che alcuni sono andati talmente lontano in questa sorta di "religione della Shoah" che la reazione di molti è stata: "Adesso basta". Io ne ho parlato con mio padre: "Se si continua così tra venti o trent'anni ci saranno quindici vecchi ebrei davanti al muro del pianto e il resto del mondo smetterà di interessarsene".
A un certo punto, nel 2008, in Francia è stato proposto di far "custodire" la memoria degli 11.000 bambini ebrei francesi deportati durante la guerra assegnandone uno a ciascuno dei ragazzini delle Medie. Simone Weil, la politica francese deportata insieme alla famiglia nel campo di concentramento di Auschwitz, durante una cena del Crif, disse che si trattava di un'iniziativa assurda. I bambini di 10-11 anni non devono portare il peso della morte di un bambino della loro età di cui peraltro non hanno alcuna responsabilità. Non si tratta nemmeno di responsabilità collettiva, ma di una responsabilità dello Stato francese. Potete immaginare? Un bambino di 11 anni che deve portare la storia, che ne so, di David, di 10 anni... e poi perché allora non di un algerino ucciso dall'esercito francese?
Negli ultimi anni in Francia, a fronte di una regressione dell'antisemitismo, è invece in corso un aumento dell'islamofobia.
Con la caduta del Muro, il Comunismo ha smesso di essere il nemico dell'Occidente lasciando il posto all'Islam. Questo è evidente nei discorsi di persone come Geert Wilders, il politico olandese di estrema destra apertamente antislamista che ha cercato di bandire il Corano dai Paesi Bassi. C'è un'islamofobizzazione dell'estrema destra, il cui nemico principale non sono solo gli stranieri o gli immigrati, ma l'invasione musulmana, che starebbe islamizzando l'Occidente. Ora, in Europa solo il 5% della popolazione è musulmana. Voglio dire, per quanto si riproducano velocemente, francamente che questa assoluta minoranza possa islamizzare il 95% dei non musulmani... Eppure in molti ci credono. L'islamofobia, poi, mette assieme la destra più radicale (quella che, dopo il 1967, è diventata filosionista, per vendicare l'onore perduto dall'armata francese in Algeria) e una parte della sinistra che, sotto la bandiera della laicità... In un gruppo come "Riposte laïque", non a caso si trova gente di estrema destra - quella che ha inventato la zuppa popolare al maiale - con persone della sinistra laica.
Purtroppo, specie in tempi di crisi, le persone tendono a chiudersi nell'identità primaria, che è spesso religiosa, oppure vengono sedotti da ideologie che semplificano i problemi.
In questi contesti il razzismo trova il suo posto naturale. Ma è un "razzismo di crisi", quindi di concorrenza verso gli stranieri "che ci rubano il posto di lavoro", è un razzismo che nasce dall'assenza di alternative. Le Pen, Bossi o Wilders sono popolari perché propongono una soluzione semplice che consiste nell'addossare tutte le colpe agli stranieri.
Per venire alla domanda, in Francia in effetti in questi anni abbiamo assistito a un aumento delle violenze anti-arabe o islamofobe e una stabilizzazione del razzismo anti-ebraico. Io sono di origine ebraica e mi è successo due volte nella mia vita di trovarmi di fronte a un atto antisemita. Gli ultimi attacchi di cui sono stato oggetto sono venuti, paradossalmente, da circoli ebraici ultra-sionisti: sono stato attaccato come "animatore ebraico del complotto anti-ebraico".
L'antisemitismo, come ideologia o corrente politica, è un fenomeno in costante regressione a partire dal 1945. Nessun ricercatore può dire che l'antisemitismo sia in aumento in Francia. Gli allarmismi di gente come Bernard Henry Levy o Alain Finkielkraut per me sono paranoici e discutibili, perché questa gente considera antisemita qualsiasi critica al governo Netanyahu. Francamente, se è questa la definizione di antisemitismo, beh, sono in molti che ricadrebbero in questa categoria. I dati invece ci dicono che il razzismo anti-arabo e anti-musulmano è assolutamente maggioritario rispetto a quello anti-ebraico. E quello che si chiede nei sondaggi non è certo: "Lei si sente antisemita?", quanto piuttosto cose come "Accetterebbe che suo figlio sposasse un ebreo?". In Francia, secondo alcuni sondaggi, quasi il 90% dei cittadini dice di essere pronto a votare per un Presidente della Repubblica ebreo. Per un musulmano la media si ferma al 35-36%.
Quanto conta la situazione internazionale, in particolare quella mediorientale, in queste dinamiche?
A partire dal 2000, con lo scoppio della seconda Intifada e la repressione israeliana, c'è stato un aumento degli episodi di violenza anti-ebraica.
Io prendo come riferimento le statistiche annuali della Commissione Nazionale Consultiva dei diritti umani, una fonte riconosciuta che aggrega dati di fonti diverse. La sola variabile che non considera è la paura della gente di andare a dichiarare una violenza. Un "piccolo borghese" ebreo è più facilitato, economicamente e socialmente, ad andare in un commissariato a fare una denuncia, piuttosto che un giovane di origini immigrate.
Quando si parla di minacce o di atti razzisti, tra l'altro, si mettono insieme una scritta su un muro, una lettera anonima, o una bomba contro una sinagoga. Io ho preso in considerazione solo gli atti di violenza. Ebbene, nel 2001-2002 c'è stato un aumento di atti di violenza anti-ebraica. Ma a partire dal 2003 aumentano, invece, gli atti di violenza anti-arabi e islamofobi.
È chiaro che l'esplosione di violenza anti-ebraica dell'inizio degli anni Duemila è alimentata dalle immagini della televisione. Non è solo solidarietà etnica o religiosa, ma solidarietà tra discriminati. Questi giovani vedono per mesi l'esercito israeliano usare violenza contro i palestinesi; al contempo in Francia sono sottoposti a continui soprusi. Io stesso ho assistito al controllo d'identità di un giovane delle banlieue, con il poliziotto che approcciava il giovane dicendo: "Mohammed, i documenti". E il ragazzo si chiama veramente Mohammed. Lo aveva già controllato più volte quello stesso giorno. Questi ragazzi casomai non sanno nulla della storia, ma, da una parte, vedono gli israeliani che maltrattano i palestinesi e, dall'altra, loro stessi si sentono maltrattati dalla polizia.
Le cifre mostrano che dopo l'operazione Piombo fuso a Gaza, nel 2008-2009, c'è stato un altro aumento di violenze anti-ebraiche.
Ma la situazione internazionale conta fino a un certo punto. Nel 2005, come ricorderete, c'è stata una grande rivolta nelle grandi banlieue parigine. È stato un evento molto violento, ed è un miracolo che non ci fossero armi. Gli islamisti non hanno giocato nessun ruolo. Anche la polizia ha riconosciuto che si trattava di "una rivolta sociale e di discriminazione". Non a caso le rivolte erano concentrate nei quartieri popolari, abitati prevalentemente da immigrati e seconde generazioni. Parliamo di circa ottocento quartieri che in Francia si chiamano Zup (Zone urbaine prioritaries) e di sei milioni di persone, cioè un francese su dieci, dove il tasso di disoccupazione è del 20%, mentre la media francese è del 10%. Ecco, lì non c'entrava né Israele, né la Palestina, né tanto meno Bin Laden (Dominique Vidal, UNA CITTÀ n. 192 / 2012 Marzo
Maria de Falco Marotta