INCONTRO CON SALVATORE VECA (x) IL PRESIDENTE DEL PREMIO INTERNAZIONALE BALZAN SALVATORE VECA: QUALE AZIONE COLLETTIVA BISOGNA INTRAPRENDERE IN DEMOCRAZIA? 11 1 30 42
D. Professore, voglio innanzitutto ringraziarLa per la sua disponibilità che potrebbe essere utile non solo a me ma anche agli altri partecipanti del corso e, al di fuori del corso, a tutti coloro che operano nel sindacato e sono alla continua ricerca di spunti di riflessione, soprattutto in questo periodo di forte cambiamento. Vorrei partire, rimanendo in casa Cisl, da un'affermazione di Pierre Carniti il quale, ad una domanda di Giampaolo Pansa, rispondeva testualmente : "se il sindacato usasse soltanto la testa, molte cose non si farebbero. Tentare l'impossibile è l'unica strada per fare il possibile". Ecco, in questo periodo il sindacato è accusato di essere eccessivamente realista. Secondo lei, in qualche misura il sindacato sta perseguendo la strada dell'impossibile di cui parlava Carniti? Tenendo presente di questo processo incontrovertibile che è la globalizzazione e tutto ciò che è ad essa legato…
R. La frase di Pierre Carniti riecheggia una celebre e straordinaria frase di Max Weber che, in una delle due grandi conferenze dei primi decenni del tragico secolo scorso, che consiglio a tutti di leggere, e mi riferisco alla Scienza come professione e alla Politica come professione, dice "se ogni volta non si tentasse l'impossibile non si raggiungerebbe mai il possibile". Non so precisamente quando Carniti abbia detto questa frase, ma credo che l'abbia detto in una fase ed in un contesto nel quale era naturale, si poteva fare bene o male, si poteva fare meglio o peggio, che il sindacato avesse un ruolo di protagonista nelle relazioni industriali e nel rapporto tra capitale e lavoro, non solo gettando il cuore oltre l'ostacolo ma anche estendendo l'area del suo intervento. Allora, facendo un piccolo gioco di flashback, una sorta di confronto intertemporale, proviamo a misurare e a valutare oggi il contesto, o meglio i contesti, in cui si trova ad operare un'agenzia di rappresentanza sociale come è il sindacato, a volte assumendo un ruolo politico, a volte un po' meno, ma ricordando sempre che in Europa continentale il sindacato è stata una delle prime forme di rappresentanza sociale basata su azione organizzata duratura nel tempo, ben prima dei partiti….
D. A proposito di confronti, certamente il paesaggio sociale in cui si trova ad operare oggi il sindacato non è paragonabile a quello di pochi anni fa. I cambiamenti sono veloci e talvolta incontrollabili? Cosa ne pensa professore?
R. Il paesaggio è drasticamente mutato. Il primo grande mutamento, lo sappiamo tutti e ce lo diciamo sempre, è il carattere di interdipendenza o di mondializzazione, ed è molto significativa a questo proposito una manifestazione a Bruxelles dell'altro giorno, una manifestazione organizzata non a caso a Bruxelles e non in un contesto domestico, il che comporta una riflessione sul grande problema della rappresentanza, sia per le organizzazione sindacali sia per i partiti. La rappresentanza sociale e politica, in cui Carniti parlava del possibile e dell'impossibile, erano fondamentalmente nazionali, vale a dire domestiche, con confini che prevedevano una popolazione stabilmente inclusa e una relativa uniformità ed omogeneità delle relazioni sociali entro, per esempio, l'area dell'economia. Oggi si è scassato il rapporto tra confini, appartenenze, inclusione e stabilità degli stessi, si è scassata l'uniformità e l'omogeneità di ciò che usavamo chiamare lavoro subordinato, sappiamo benissimo che oggi siamo di fronte ad una proliferazione di diverse forme di rapporti di lavoro non più riconducibili alla subordinazione, siamo di fronte ad una giungla retributiva e normativa, oltre che a un problema di asimmetria di informazione - e il sindacato è stato ed è un grande operatore di riduzione dell'asimmetria di informazione che è anche asimmetria di potere. Se mettiamo insieme il nuovo, caratterizzato dalla mondializzazione e dal mondo dei lavori, una definizione un po' semplicistica ma che rende bene il quadro, con la persistenza di un vecchio tipo di relazioni industriali, che non sono sparite ma che sono diventate uno tra i diversi casi - e qui voglio insistere sul fatto che non siamo, come dice in modo ormai terribilmente inflazionato Bauman, nella dimensione del tutto è liquido - si ha un quadro molto composito con pezzi vecchi relativamente stabili, pezzi nuovi e pezzi completamente inediti. Di fronte a questa situazione a me sembra del tutto naturale che l'agire sindacale sia inevitabilmente attraversato da una forte incertezza, perché da un lato sfuggono certe condizioni al contorno che facevano da paletti all'azione sindacale; per gettare il cuore oltre l'ostacolo c'è bisogno che vi sia l'ostacolo, bisogna vedere l'ostacolo; ma se l'ostacolo è come dire borderline, se bisogna tappare buchi da tutte le parti, ci si trova nella condizione, e lo dico per amore di verità, di una forza decrescente dell'azione sindacale e percezione della stessa da parte sia del sindacato che delle controparti. Questo non è quello che io mi auguro, ma che registro anche come cittadino. L'ultimo pezzo del grande cambiamento è il rientro dello Stato, un processo di lungo periodo, un processo che non deve portare a domande del genere "no Stato si Stato" ma a "più o meno Stato e dove"; sono queste le domande da porsi in relazione alla pervasività e alla ubiquità dei poteri sociali, come quelli economici; non dimentichiamoci infatti che siamo nella fase della crisi del turbocapitalismo finanziario. In presenza di questa ubiquità e pervasività dei poteri economici le strutture statuali, le istituzioni domestiche e locali hanno rendimenti decrescenti, cioè la risorsa di autorità politica domestica può fare meno cose di quelle che può fare o minacciare chi esercita il potere sociale.
D. Professore, lei ha parlato di realtà frammentata, eccessivamente frammentata, che però fa riferimento per una parte ancora ai vecchi modelli dei decenni precedenti; dall'altro lato lei ha parlato di un potere decrescente di istituzioni pubbliche e anche, a questo punto, delle istituzioni sociali come il sindacato. In questo momento c'è un grosso dibattito, e Pomigliano ne è un caso esemplare, sulla necessità di spostare l'attenzione sulla contrattazione decentrata, qui con l'intenzione in qualche modo di rispondere alle esigenze della realtà frammentata e di dare nuovo potere e nuova rappresentanza al sindacato, puntando sul fatto che l'azione collettiva decentrata può dare in qualche modo nuova fiducia alle persone ed un nuovo senso di identificazione di cui lei molto parla anche nei suoi libri. Vorrei condividere con lei una riflessione su questo punto, ovverosia sull'opportunità di una contrattazione decentrata a sfavore, mettiamola così in modo semplificativo, di una contrattazione nazionale collettiva, considerando anche che questa tendenza potrebbe creare dei modelli più simili ai sistemi di common law che di civil law, infatti si parla anche nell'ambito sindacale di soft law, considerata anche la tendenza dello Stato di affidare alle parti sociali la regolamentazione di molti aspetti della vita dei cittadini-lavoratori.
R. Il quadro in cui ci troviamo, e col quale dovremo abituarci a convivere, è esattamente questo e risponde con una certa coerenza alle considerazioni che facevamo prima. Se uno accetta quel tipo di premessa sui mutamenti del paesaggio sociale, allora effettivamente si trova di fronte a questo dilemma…facciamo una considerazione impressionistica. Il sindacato rappresenta chi oggi? La rappresentanza sociale di chi? Quale è l'ammontare delle persone pensionate che sono rappresentate dal sindacato? Ne parlavo con D'Antoni un po' di anni fa, e già allora si andava al 50% e oltre. D'altra parte, come si accennava prima, il sindacato ha un comparto importante relativo alle aspettative o tutele e diritti degli immigrati. Attenzione, questo vuol dire che il sindacato sta articolando la propria rappresentanza e il proprio esercizio di tutele su fronti molto diversi. Quindi vuol dire che un meccanismo di differenziazione dell'azione collettiva ai diversi livelli già esiste. A questo punto torniamo alla questione che lei poneva. E lavoriamo su un modello astratto: sempre meno contrattazione collettiva a livello nazionale, sempre più contrattazione decentrata a livello di impresa. Questa cosa è molto interessante e bisogna dire, come prima impressione, che è una sorta di ritorno all'indietro. Su questo modello astratto io non ho una posizione di santificazione né di demonizzazione; trovo che bisogna andare per prove ed errori e che non possiamo permetterci il lusso di conservare tutto in un mondo che cambia tutto, perché finiamo per farci fuori, sarebbe un suicidio come quello dei giapponesi delle barzellette o della storia. Quale è il punto? Il punto, a mio modo di vedere, sarebbe quello di mantenere una sorta di equilibrio tra i minima moralia della contrattazione nazionale, allo stesso modo di come sono applicati i minima moralia nel welfare. Ci devono essere alcuni picchetti che devono valere per tutti e poi ci sono cose che valgono via via per qualcuno.
D. Una sorta di principio di sussidiarietà?
R. Esattamente questo. E aggiungo che non è possibile pensare di rispondere con la contrattazione collettiva ad un mondo così frammentato dove ci sono numerose tipologie di contratto, e anche qui ci sono varie proposte di unificazione che vanno, secondo me, nella direzione della sussidiarietà e della flexicurity insomma. Devono esserci alcune regole generali, inclusive ed universalistiche - la stessa cosa avviene per le politiche pubbliche - che valgono dalla Valle d'Aosta sino a Pachino. Poi però bisogna prendere molto sul serio la possibilità per il sindacato di differenziare la propria azione negoziale in funzione degli interessi che sono tipici di quell'impresa che è in quel territorio, che è in quel contesto, che è in quella particolare congiuntura economica….
D. Professore, secondo una parte del mondo sindacale e del mondo accademico, questo potrebbe aprire dei problemi di giustizia. Cosa ne pensa?
R. Certamente aprirebbe dei problemi di giustizia se venisse meno quel pezzo universalistico, perché c'è un principio elementare di eguaglianza nel trattamento che potrebbe venire violato, qualora ci si trovasse in una soluzione che eliminasse completamente tutto ciò che vale per chiunque e lasciasse solo ciò che vale per qualcuno. E' un esercizio di equilibrio difficile, me ne rendo conto, la filosofia è più facile di queste cose. Però quali alternative ci sono? Chiediamoci anche questo. There is no alternative, come diceva la signora Tatcher. Il sindacato non può diventare sordo a possibilità di innovazione, e non può attaccarsi, sbandierandoli, a valori di conservazione di qualcosa che è stato dissipato dal cambiamento del contesto, e dal cambiamento delle aspettative stesse dei lavoratori. C' è un punto che secondo me è importantissimo: la moneta del sindacato, come di tutte le forme di organizzazione e di rappresentanza sociale, dovrebbe essere la fiducia; il capitale è la fiducia. Noi possiamo avere tassi variabili di lealtà e di fiducia, e questo dipende anche dal comportamento di chi dovrebbe riscuotere la fiducia, ma ho l'impressione che in un contesto che abbiamo così descritto, per la fiducia acquista un rilievo fondamentale la percezione dei miei interessi e degli interessi dei miei, dei nostri, di un noi, che non è il noi inclusivo di tutti, ma che è il noi di quelli di Pomigliano o di un'altra determinata realtà produttiva. Non disconosciamo che anche gli altri, in un altro noi, dovranno avere certe garanzie che sono le stesse per tutti quelli che si trovano, per esempio, in un determinato settore produttivo. Ma in una condizione particolare potremmo negoziare un certo tipo di accordo che potrebbe, come è successo, riscuotere consenso da parte dei lavoratori. E cosa facciamo? Ce ne freghiamo del consenso dei lavoratori? Ci sono due problemi: uno, accettare la sfida preservando quel principio di equità di cui abbiamo parlato; secondo, accettare la sfida per mantenere la coesione e la fiducia dei rappresentati. La fiducia viene data da un mix di identificazione e di soddisfazione di aspettative di interessi. Preciso che non sto parlando di forme di identificazione identitaria, la troverei una cosa terrificante o perlomeno non lo apprezzerei, ma c'è un transito di fiducia che dipende dal fatto che riconosco che i miei e i nostri interessi e aspettative sono tutelate e ho chi mi rappresenta, e sento che chi mi rappresenta è meritevole di fiducia, perché l'azione collettiva costa individualmente e per superare i costi dell'azione collettiva ho bisogno di benefici attesi, possono anche essere dei benefici di fiducia o possono essere incentivi normativi o incentivi monetari. Queste sfide vanno raccolte in un quadro in cui non si dovrebbe sostenere che lo Stato si ritrae ma che lo Stato ha un ruolo di arbitrato regolatore.
D. Professore, a proposito di questo, nel suo Dizionario minimo parla di azione collettiva, che è quello di cui stiamo discorrendo, e scelte pubbliche. Secondo lei c'è il rischio oggi, in Italia come altrove, che le scelte pubbliche scompaiano del tutto e che lo Stato si ritragga anche dal suo ruolo di arbitrato regolatore? E' un difficile equilibrio quello dell'azione collettiva con le scelte pubbliche?
R. Questo è un problema che riguarda l'agenda pubblica in questo ambito che stiamo discutendo come in altri ambiti. Io credo che anche qui si tratti di valutare in termini di "più e di meno" e non di "si e no". E' vero che gli Stati hanno perso quote di sovranità, come nel contesto europeo, e questo è un fenomeno interessante, importante e oscillante, ma il regolatore istituzionale per eccellenza, anche in contesti di interdipendenza, resta lo Stato.
D. Dunque le teorie che parlano della totale deriva dello Stato e delle istituzioni che si estinguono?
R. Queste teorie sono leggende metropolitane interessate. In realtà gli Stati dovrebbero fare, come diceva non propriamente un grande pensatore democratico ma certamente un grande leader politico, Lenin, meno ma meglio, che non vuol dire zero. Invece c'è spesso l'idea che fare meno voglia dire dismettere, voglia dire rinunciare al ruolo regolatore, al ruolo arbitrale in ultima istanza. Quella garanzia di giustizia e di equità sociale di cui parlavamo deve avere in ultima istanza la sua corte suprema nella risorsa dell'autorità statuaria. Io sono convinto di questo. E questo non mi vengano a dire che gli stati non possono farlo. Gli esecutivi nazionali sono più vincolati nelle scelte che possono fare rispetto a trent'anni fa, non c'è dubbio; basta pensare a tutta la querelle sul Patto di stabilità che è una querelle sui vincoli rispetto agli esecutivi, però è falso che uno Stato non possa fare una politica dei fattori, come si usa dire. Si può fare una politica alternativa entro questi vincoli, si può fare una certa politica dell'educazione e della formazione piuttosto che un'altra, pure entro i vincoli. Non si può fare qualunque politica di spesa pubblica. Allo stesso modo, per quanto riguarda il mondo dei lavori, deve esserci l'idea di una regolazione in ultima istanza che preservi quella che è secondo me la condizione dell'eguale cittadinanza democratica perché non dimentichiamo che le lavoratrici ed i lavoratori sono cittadini che lavorano, non schiavi che lavorano. Spesso sono schiavi, noi abbiamo mercati schiavistici, i mercati illegali, quelli ombra, sono schiavistici. Ci sono mercati a sudditanza, ed invece noi dovremmo avere mercati a cittadinanza, e allora anche in questo caso pensare che lo Stato si estingua, o dismetta, è una vicenda che non condivido. Ecco, quello che io temo è che potrebbe venir fuori l'idea di una totale supplenza da parte del sindacato che può dare un'euforia protagonistica, ma il passo è molto pericoloso perché, diciamo la verità, la tenuta di un tessuto e di una coesione sociale decentemente democratica è data esattamente dalla poliarchia dei poteri, dal contrappeso, da un equilibrio reciproco. La teoria di Robert Dahl sulla democrazia come poliarchia, resta fondamentale; le democrazie devono poter essere caratterizzate da una certa dispersione delle risorse del potere, non dall'agglutinamento del potere.
D. Ecco professore, anche nel Dizionario minimo lei parla della necessità di combattere gli effetti della lotteria sociale e naturale, e parla anche dell'importanza, in una società realmente democratica, dei corpi intermedi. Ma questi corpi intermedi non possono mai sostituirsi integralmente a quel potere pubblico che dovrebbe essere, come lei ha detto, l'ultimo decisore? E' un modello, che per usare le sue parole, non sarebbe democratico?
R. Non lo sarebbe perché si verificherebbe una distorsione fondamentale. Perché gli interessi e le aspettative, i diritti o le pretese delle persone verrebbero classificati, riconosciuti, premiati o sanzionati, sulla base delle contingenti agenzie di rappresentanza, per cui chi è fuori è fregato. Questo è un fenomeno abbastanza tipico: come si diceva gli interessi si pesano sulla base della capacità di aggregazione e di organizzazione; l'interesse diffuso è un interesse che nessuno ha incentivo a rappresentare, è una classica trappola della scelta collettiva. In questo caso noi avremo una feudalizzazione della società e abbiamo già tendenze di questo…una feudalizzazione della società che avrebbe una serie di cleavages che sono stati studiati a lungo dalla teoria della democrazia, nelle democrazie realmente esistenti. Ci sono cleavages di tipo classico, di tipo religioso o culturale, ci sono cleavages di tipo economico, di tipo razziale, cleavages dovuti alla nascita in un posto del mondo piuttosto che in un altro. Se noi andiamo alla dismissione della risorsa dell'autorità per chiunque, entro determinati confini, noi andiamo appunto alla feudalizzazione, alla tribalizzazione della società.
D. Il meccanismo di cui lei parla mi permette di ricollegarmi a ciò che lei scrive nel suo libro in merito al realismo scettico, vale a dire quel pensiero per cui "le cose stanno così, bisogna prenderne atto e adattarsi". Però lei parla anche di un'utopia concreta. Può mettere insieme, professore, queste due posizioni che sembrano agli antipodi?
R. La mia idea è questa, e possiamo fare un esercizio che spero sia utile come riflessione nell'ambito dei problemi di cui stiamo discutendo. La mia idea di utopia realistica o ragionevole è questa: io devo prendere sul serio i vincoli che respingono lo spazio delle alternative, non posso fare contrattazione come si faceva negli anni '60 o negli anni '70, è inutile, il mondo non concede quello spazio lì ed è stato bene farlo quando lo spazio c'era e quando lo spazio si altera si tratta di trovare possibilità alternative entro i limiti di quello spazio, non in qualsiasi mondo possibile. E però il fatto che cambi la geografia non vuol dire arrendersi perché il destino è cinico e baro, non è affatto vero….qui consiglierei la lettura di un grandissimo che è Albert Hirschmann, il celebre autore di Exit,voice and loyalty, il quale dice che non esiste una condizione in cui non sia possibile una riforma. Non esiste naturalmente una condizione tale che ogni riforma sia possibile. Il tuo dovere politico, civile, sociale, sindacale è quello di cercare la riforma possibile, e non sottostare al ricatto di chi dice il mondo è cambiato, non c'è più spazio per certe cose. Perché sottostando a questo ricatto, in primo luogo, vieni meno alla lealtà, ad una missione, ad una funzione sociale che cambia nel tempo; un tipo di problemi analogo lo abbiamo quando ci interroghiamo oggi su cosa voglia dire la rappresentanza politica, ma non è che sia indipendente questo problema da quello della rappresentanza sociale. Cioè noi abbiamo sotto pressione sia i modi della rappresentanza sociale sia i modi della rappresentanza politica. Interrogarsi sulle forme della rappresentanza politica è esattamente come interrogarsi sulle forme della rappresentanza sociale. I quattro pezzi di cui abbiamo discusso in merito all'azione sindacale, e cioè senso, funzione, possibilità ed efficacia, sono gli stessi pezzi di cui discuteremmo in relazione all'azione politica. Ecco vorrei dire una cosa su cui ho riflettuto negli ultimi anni della mia attività: tutti noi che abbiamo una passione o una motivazione per l'azione civile, per l'impegno politico, per l'azione sindacale, noi che crediamo di poter essere utili a noi stessi e agli altri, evitando eroismi o furori teologici, dovremmo sempre ricordarci che non è il sindacato e non è il partito né tantomeno il sistema dei sindacati o il sistema dei partiti che cambiano la società. Il sindacato risponde ad un mutamento sociale, la politica risponde al mutamento sociale. La società è cambiata da fattori esogeni, lo sviluppo scientifico e tecnologico cambia i nostri modi di convivere; i modi di comunicare cambiano i nostri modi di convivere; le migrazioni cambiano i nostri modi di convivere; i revival religiosi cambiano i nostri modi di convivere. Queste sono le cose che cambiano la pelle della società e le metamorfosi dell'esercizio dei poteri sociali cambia la società. E l'azione di rappresentanza deve rispondere, ma risponde a questi cambiamenti e non risponde ad una società che fa parte del repertorio delle immagini ereditate. Salvo che in condizioni straordinarie come le guerre, la politica non cambia la società, la politica risponde al cambiamento della società,e pure il sindacato deve rispondere al cambiamento della società.
D. Quindi professore mi sta dicendo che in questo momento il sindacato non può cambiare la società ma registrare il cambiamento e in un certo qual modo governarlo? Ha detto pure che le istituzioni politiche sono una parte in gioco ineliminabile. E' così? Aggiungo anche, per rilanciare, che nel nostro modello di relazioni industriali, il sindacato deve governare i cambiamenti insieme alle imprese. E' d'accordo?
R. Certo, se l'impresa cambia, se la governance dell'impresa cambia, se vi è una domanda di contrattazione che risponda a quella impresa, sullo sfondo normativo di quello che abbiamo già chiamato minima moralia, o potremmo chiamarla anche cittadinanza del lavoro, a quel punto tu sindacato cosa fai? Rispondi a questa domanda che deriva dal cambiamento. L'impresa non è che stia in un'isola, è un'azione organizzata che sta in un contesto, che ha relazioni con altri contesti, dove ci sono persone che hanno vite, e segmenti delle loro vite sono là, questa è l'idea della priorità della società sulla politica, sulla rappresentanza politica, sulla rappresentanza sociale. C'è una priorità normativa ed una priorità esplicativa, questo detto in modo un po' gergale. Cioè vuol dire questo, che di fronte a qualsiasi mutamento la politica dovrebbe essere riformista, e ho dedicato un capitolo del mio libro al riformismo. Il problema è in nome di quale riformismo, per che cosa, per rispondere a che cosa e in che modo. Però quando tu, ad esempio, ti trovi di fronte alla necessità della riforma dell'università piuttosto che della riforma del welfare, tu dovresti sempre chiederti, oltre alla manovra o al progetto che tu segui, quale alternative sono in gioco. Come uso dire, cerca di esplorare lo spazio delle possibilità alternative dentro quei confini là. E voglio precisare che un sindacato o un partito politico non sono passivi recettori del cambiamento, sono attori responsabili della risposta, sono agenti e non pazienti.
D. Le sue ultime parole mi fanno pensare alla posizione della Cisl che, anche in un documento di non più di qualche mese fa, propone una sorta di contrattazione di progetto in cui le parti sociali, in un modello comportamentale razionale, si scambiano le informazioni in modo tale che insieme si possa convogliare le energie per il benessere sociale, tant'è che si parla tanto di modello partecipativo, cosa che non è condivisa da tutto il mondo sindacale. Mi viene in mente un libro che immagino lei conosca bene, si chiama Allegro ma non troppo di un professore di Pavia, Cipolla. Ecco, Cipolla dice che non bisogna mai dimenticare che la stupidità umana talvolta può compromettere i modelli razionali e le scelte sottese a principi di razionalità. Professore, come mette insieme tutti questi pezzi?
R. Non c'è dubbio. Io vorrei fare solo una glossa a questa cosa. Questi modelli di cui si parla non sono nuovi, o meglio sono ricombinazioni di vecchie cose in contesti mutati. E' un bricolage che si fa. Questo è il pragmatismo con principi a mio modo di vedere. Questo non vuol dire che il pragmatista è cieco e svende principi, non è affatto vero. Ora, il conservatore della rappresentanza non accetta tutto questo e ti dice semplicemente "pragmatista", ma bisogna sempre aggiungere l'altro pezzo: "pragmatista, ma con principi". Ecco bisognerebbe rispondere che "io innovo per salvare esattamente quei principi che tu ritieni di dover salvare conservando".
D. Questa lettura è molto interessante e, con riferimento alla innovazione e alla conservazione per preservare esattamente gli stessi principi, esemplifica quello che sta succedendo tra la Cisl e altre organizzazioni sindacali. Professore, facendo l'avvocato del diavolo, cosa non le piace di questo o di altri modelli?
R. Si, esatto, credo che stia succedendo proprio questo. Ecco, questi modelli vengono spesso presentati come modelli in cui è escluso il conflitto, cioè sono presentati come il modello puramente cooperativo, tecnicamente si dice che sono schemi di gioco di cooperazione e non di conflitto. In qualche modo alla base di questo schema c'è l'idea della co-appartenenza all'impresa come comunità, anche per superare il problema della asimmetria informativa che poi significa sempre che chi ha potere lo ha perché genera asimmetria di informazione. Anche Marchionne aveva avuto una battuta in questa direzione e cioè a dire "basta con questa storia del conflitto"…ma non è affatto vero. Noi dobbiamo pensare, sempre parlando in gergo, a giochi misti di cooperazione e conflitto. Non c'è nessun bisogno di pensare che la comunità….in Italia abbiamo avuto una grande tradizione legata ad una figura straordinaria come Adriano Olivetti che è stata dimenticata e andrebbe riacchiappata anche dal punto di vista delle relazioni sindacali…ad ogni modo, non vorrei che questo si trasformasse in una vecchia storia in cui in realtà c'è qualcuno a cui conviene sostenere che c'è coerenza e non conflittualità e non distinguibilità tra interessi. Non è vero, tu puoi benissimo impegnarti in un gioco misto di cooperazione e conflitto mantenendo la tua autonomia pur essendo sulla stessa barca. Cioè, io dico non è che sulla stessa barca remiamo tutti allo stesso modo, uno farà una cosa, uno farà un'altra. Il vero problema è riconoscere che siamo sulla stessa barca, questa è la differenza. Cioè non è una logica esterna, è una logica interna. Ma la logica interna all'impresa come a qualsiasi forma di azione organizzata è una logica che può prevedere tanto cooperazione quando chiaramente il risultato del gioco negoziale non è a somma zero ma a somma positiva, quanto casi di conflitto quando il risultato del gioco è a somma zero. E in quei casi lì bisogna tenere…
D. Questi modelli che ha descritto mi fanno riflettere sulla necessità che bisognerebbe eliminare gli apriorismi ideologici che impediscono di aprirsi a nuove esperienze. Oggi non è più possibile affermare "tu fai l'impresa, io faccio il sindacato", vero professore?
R. Non c'è dubbio, in generale dimentichiamo sempre che anche le forme dell'azione sindacale sono in modo importante modellate dalle culture. E' come la path dependence dell'economia, se uno studia la nascita delle culture del lavoro in Europa, o come nasce il sindacato in Germania, pensiamo anche ai lavori di Edward Thompson, The making of the working class in England, si vede che i modelli di comportamento, le logiche delle leadership, le ragioni della fiducia dei rappresentanti sono molto dipendenti da grandi subculture, subculture rispetto all'invenzione delle culture nazionali. Per esempio, nel mondo inglese, la tradizione religiosa è importantissima; pensiamo anche a certe forme di religiosità popolare che si trovano in italia come il Cristo socialista. Insomma nessuna forma di istituzione o di attore sociale nasce nel vuoto pneumatico; c'è sempre una storia, una cultura. Vorrei concludere con una battuta di questo genere: un grande economista che si chiama Schumpeter, autore della teoria dello sviluppo economico, aveva definito la funzione dell'imprenditore dal punto di vista analitico come colui o colei che combina in modo innovativo risorse, metodi di produzione già esistenti oppure si inventa un metodo di produzione che non c'era. Ora gli attori della rappresentanza sociale, e mi riferisco al sindacato, sono imprenditori della fiducia e della tutela quando sanno combinare in altro modo i fattori ereditati. E lo stesso vale per gli imprenditori politici; il leader politico è imprenditore in quanto ricombina in modo nuovo delle risorse e acchiappa fiducia per questo.
D. Professore, un'ultima domanda. Nel suo libro parla di laicità. Un sindacato imprenditore di fiducia deve essere in qualche modo laico perché deve cercare di includere il maggior numero di soggetti possibili, è d'accordo? Diversamente si rischierebbe l'esclusione di certi pezzi di cittadini-lavoratori. Quindi si può parlare, anche per il mondo del sindacato, di laicità?
R. Non c'è dubbio, la laicità non chiede a nessuno di rinunciare alle proprie convinzioni quale che sia la religione o il credo politico che si ha. Come la laicità delle istituzioni pubbliche non chiede a nessuno di dismettere le proprie credenze, così il sindacato è intrinsecamente laico, pensi a cosa vorrebbe dire, in presenza di questo paesaggio sociale cambiato, con la differenza nelle funzioni di tutela e protezione di aspettative o diritti, per esempio con i migranti, escludere in base a principi di appartenenza o di credenza religiosa. E' insensato. Mi è molto piaciuto, e l'ho discusso tanto con lei, quest'ultimo libretto che ha scritto Rosy Bindi, che consiglio a tutte le persone credenti, basato su una vecchia idea che è il "date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio", lei insiste proprio sul fatto che essere cristiani è quello che implica la laicità. E questo è molto bello perché è lo stesso argomento religioso a favore della laicità, un argomento che tende alla non esclusione.
D. Professore, io voglio nuovamente ringraziarla per tutti questi spunti di riflessione che ha offerto. E mi piace concludere questa chiacchierata ricordando alcune parole del suo ultimo libro. Lei scrive che nessun valore è immunizzato, e che anche quelli che più contano per noi possono ad un certo punto essere messi in saldo sul mercato delle idee, delle credenze e delle convinzioni. Le sue parole, che peraltro mi hanno ricordato Solde di Arthur Rimbaud, che lei sicuramente ricorderà, credo siano un esempio per chiunque crede in un impegno politico, civile e, per restare nel nostro mondo, sindacale.
Conclusioni, cuore e azione per saltare l'ostacolo.
Il cambiamento è una delle chiavi di interpretazione per vivere e affrontare il nostro tempo. Che sia considerato buono o cattivo, bello o brutto, è il nostro tempo, ed è quello in cui troviamo a misurarci e ad interagire. Ho avuto modo di riflettere molto sulle parole di Salvatore Veca in relazione al cambiamento. Si rischia a volte di dare per scontate certe situazioni e certe condizioni, saltando però il passaggio intermedio della comprensione di tali situazioni e condizioni, o nella migliore delle ipotesi rischiando di sottovalutarle. Chi vuole conservare rischia di "scordare il presente per l'avvenire", per dirla con le parole di Albert Camus. Se il contesto e il mondo cambia, un'organizzazione sindacale ha l'obbligo di porsi la domanda su cosa fare, in che modo farlo, e di quali pezzi della sua storia e della sua tradizione, e cioè di quale cuore non può fare a meno per andare avanti. E' stata ben evidenziata, nel corso dell'intervista/chiacchierata, la necessità della fiducia dei rappresentati. E questa fiducia viene espressa anche in relazione alle aspettative di chi si rappresenta. Ed è un altro elemento che è impossibile ignorare. Un sindacato può mettere in campo la sua azione ignorando totalmente il contesto, i lavoratori-cittadini che popolano questo contesto, e gli altri contesti che compongono il grande puzzle della mondializzazione?
Mi piace avventurarmi in un esercizio di confronti con un altro mondo, quello di un romanzo, che poi molto spesso non è tanto distante dalla realtà. Il lettore di un romanzo, o più semplicemente di una storia, matura delle aspettative nei confronti dei protagonisti e, più in generale, dei personaggi che popolano quel romanzo o quella storia. Il lettore, per dirla in altre parole, si trova in un contesto dove si aspetta determinati atteggiamenti, determinate risposte, determinati cambi di rotta; ma non si aspetta tutti gli atteggiamenti possibili, tutte le risposte possibili, tutti i cambi di rotta possibili. Il lettore non potrebbe comprendere né tantomeno condividere che un adolescente, che sente musica di tendenza, che frequenta le discoteche tutti i fine settimana, che è magari anche irriverente con i genitori, improvvisamente inizi a parlare come un vecchio lord inglese. L'azione di quel personaggio non terrebbe e non convincerebbe alcun lettore. Allo stesso modo l'azione del sindacato non terrebbe e non convincerebbe i rappresentati se volesse solamente adottare comportamenti e mantenere atteggiamenti di altri mondi e di altri contesti. Non convincerebbe e non terrebbe perché, come è stato detto, è la società che detta in una buona e larga misura il cambiamento; alla politica e alle organizzazioni di rappresentanza sociale spetta il compito di interpretare e governare il cambiamento; accanto a questo compito c'è il dovere di evitare quelle derive che possono generare mortificazioni e sofferenze nelle persone, chiunque esse siano. E la sofferenza morale, quel senso di perdita di dignità, quella frustrazione che pervade le persone quando si sentono abbandonate, quando non hanno la possibilità di far valere se stessi come esseri umani, ferisce e uccide. Un'organizzazione sindacale non può mai tralasciare la diké; fa parte del suo cuore; è l'energia che permette di affrontare l'ostacolo. Per dirla in termini di filosofia politica, in una situazione di poliarchia del poteri, l'azione del sindacato deve contribuire ad eliminare l'ingiustizia distributiva - intesa come una situazione di sproporzione e/o di sovrabbondanza simile alla pleonexìa aristotelica - e l'ingiustizia identitaria che si verifica quando a qualcuno non viene riconosciuta la dignità di persona, mentre ad altri tale dignità non viene negata.
Credo che sia un dovere per un'organizzazione sindacale mettersi continuamente in dubbio, porsi delle domande su quali mezzi siano più opportuni per superare un ostacolo, proprio perché ogni "verità delle concezioni del mondo è nella migliore delle ipotesi un tipo di verità parziale". Come ben ha detto Salvatore Veca, bisogna andare per prove ed errori e porsi continuamente la domanda su quali alternative si hanno a disposizione. Probabilmente chi opera per gli altri, ed in un certo qual modo assume decisioni che si riflettono anche sulla vita degli altri, non può non essere anche fallibilista, ovverosia non può permettersi di credere che non ha alcun diritto di escludere che ognuna delle sue credenze sul mondo potrebbe essere falsa.
La condizione di agenti nella società e nel cambiamento, e non di pazienti, implica il dovere di provare a conoscere il mondo nel quale agiamo, sempre ricordando quella regola aurea che Platone, nel Teeteto, ci ha lasciato in eredità: la condizione della giustificazione. La conoscenza è credenza vera accompagnata da una giustificazione.
Tenendo presente questa regola aurea, bisogna chiedersi le istituzioni politiche quale spazio possono ancora ricoprire per garantire, insieme alle forze sociali, determinati obiettivi di perequazione, di equità e di giustizia. Il sindacato, come qualunque altra forza o organizzazione sociale, non può sostituirsi integralmente allo Stato; questo non perché la giustizia e l'equità corrispondono ad una verità che implica necessariamente l'intervento dello Stato, ma perché esse sono requisiti indispensabili di una convivenza realmente democratica. Il principio di sussidiarietà deve essere costantemente monitorato affinché mani interessate non lo manipolino sino a trasformarlo in una totale disfatta dei poteri dello Stato che deve restare, invece, l'arbitro in ultima istanza. Non possiamo permetterci che tali mani manipolino il valore della solidarietà sino a farla diventare qualcosa che implica una relazione impari tra le parti, una liberalità che i più ricchi fanno ai più poveri: questa è carità, una virtù morale indubbiamente apprezzabile che però non ha nulla a che fare con la solidarietà, intesa come "l'atteggiamento di chi è sensibile al dovere etico sociale della reciproca assistenza tra appartenenti ad una comunità politica che si riconoscono come eguali".
Io credo che il valore della solidarietà, ricomprendendo anche la comunità dei lavoratori di un determinato settore produttivo, o di una determinata fabbrica, può essere efficacemente perseguito attraverso la bilateralità e la contrattazione decentrata. Ovviamente, in tale dovere etico sociale sono coinvolte anche le imprese. E a proposito di dovere etico sociale è molto interessante il caso della Holcim che è stata ospitata, nella persona del suo HR Director, alla fiera della contrattazione organizzata a maggio di quest'anno dalla Cisl Lombardia. Infatti Mauro Bonafè ha illustrato il sistema di responsabilità sociale della sua azienda, che brilla per la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, mettendo in evidenza come le buone prassi hanno portato a risultati eccellenti in quest'ambito, anche grazie all'obiettivo di farle percepire come vincolative. Questa è la dimostrazione di come la responsabilità sociale d'impresa è uno strumento di solidarietà che, andando oltre il fine dell'esasperazione del profitto, tiene nella massima considerazione gli interessi degli stakeholders. Allo stesso modo, chi opera nel sindacato, proprio perché osserva e vive nella realtà, è consapevole che il mondo delle imprese, come in generale il mondo degli uomini, è variegato e non è popolato soltanto da virtuosi.
In questo mondo così composito, bisogna avere il coraggio e la determinazione, per usare ancora le parole di Albert Camus, di scegliere "il pensiero audace e frugale, l'azione lucida, la generosità dell'uomo che sa". Affrontiamo ed agiamo nella realtà, pronti a saltare ogni nuovo ostacolo con la storia e la forza del nostro cuore, quello che palpita di passione e dovere, quello che ci rende consapevoli sempre e comunque, usando le parole di Eugenio Montale, di "ciò che non siamo, (di) ciò che non vogliamo".
(x) Salvatore Veca, nato a Roma il 31.10.1943, ha studiato Filosofia all'Università degli Studi di Milano, dove si è laureato nel 1966 con una tesi in filosofia teoretica, condotta sotto la guida di Enzo Paci e Ludovico Geymonat. Attualmente insegna Filosofia politica all'Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, di cui è vicedirettore. Nel 1974 Veca ha assunto, grazie a un invito del prof. Giuseppe Del Bo, la direzione scientifica della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Dal 1984 al 2001 è stato presidente della Fondazione Feltrinelli, promuovendo lo sviluppo del suo Centro di Scienza politica. Salvatore Veca ha svolto un'intensa attività di consulenza e direzione editoriale. E' stato condirettore di "Aut Aut" con E. Paci e P.A. Rovatti dal 1971 al 1973. Ha diretto dal 1974 al 1981 la collana Readings per l'Università della Casa editrice Feltrinelli, di cui è consulente per la saggistica nel campo della filosofia e della teoria politica e sociale. Dal 1977 al 1992 è stato consulente della saggistica de il Saggiatore, di cui ha diretto, con Marco Mondadori, la collana "Theoria".Fa parte o ha fatto parte del comitato scientifico di riviste quali "Rassegna italiana di sociologia", "Teoria politica", "Biblioteca della libertà", "Transizione", "Etica degli affari", "Iride", "European Journal of Philosophy", "Filosofia e questioni pubbliche", "Reset", "Quaderni di Scienza politica", "Il Politico", "Rivista di filosofia", "Italianieuropei". E' direttore de "Il giornale di Socrate al caffè. Bimestrale di cultura e conversazione civile". Fra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: Dell'incertezza (1997 e 2006), La filosofia politica (1998 e 2007), Cittadinanza (2000 e 2008), La bellezza e gli oppressi (2002), La priorità del male e l'offerta filosofica (2005), Dizionario minimo, le parole della filosofia per una convivenza democratica (2009).
(xx) Gennaro De Falco è nato nel 1976 a Napoli. Avvocato, attualmente vive a Milano dove è impegnato prevalentemente in attività sindacali nell'area legale. Collaboratore di riviste letterarie, è recensore di testi di filosofia e di diritto (http://www.recensionifilosofiche.it/ http://bfp.sp.unipi.it/). Autore di una raccolta di poesie dal titolo Panchine d'inchiostro (2006), ha vinto diversi premi letterari. La sua raccolta è presente in diversi Istituti di Cultura Italiana all'estero.