10 10 29 SOLE MALEDETTO
Parlo di esistenze nascoste e ambigue, passioni tristi, seduzioni basse e chiacchiere da cuscino; su binocoli e cannocchiali, voyeurismi pericolosi e cleptomanie gaglioffe.
Non riesco ad agire perché per tutto il tempo, nonostante gli scoppi d'indignazione, penso di commettere un terribile errore, una sequela di terribili errori.
Le cose non possono stare come io sono sempre più certo che stiano.
"Che cosa sto facendo?" mi chiedo sgomento mentre ritraggo il pugno che ha appena sfiorato la parete, contrito; mentre distruggo deliberatamente la mia carriera.
Ricordo i cortili della Garbatella quando noi bambini giocavamo a calcio, con i pantaloni corti, le bretelle, il pallone supersantos comprato alla bottega facendo una colletta. Ricordo il Parco dell'EUR. Mi sembra si sentire il profumo dei suoi alberi di eucalipto. Ah, gli anni sessanta!
Qualcuno mi minaccia? Non siamo arrivati a quel punto. Qualcuno mi tormenta. Ma c'è dell'altro. Qualcosa mi turba. Sono disorientato da come va il mondo e cerco delle risposte. Forse sto guardando nei posti più sbagliati, ma intanto guardo. Vedo un futuro per niente roseo davanti a me. Scuoto la testa. Non lo so. Potrebbe essere tutto diverso. Oh, sì. Suppongo. Per tutti gli dei, l'unica soluzione è alzarsi e provare a fare qualcosa per distrarmi.
Fin da piccolo mi sono posto alcune domande che non hanno risposta: da dove vengo? a chi appartengo? chi sono? sono domande che possono sembrare banali ma non è così.
Mi sono sempre chiesto cosa c'era prima di me, da dove veniva chi mi ha voluto. A quale luogo mentale appartengo? Mio padre, mia madre, la loro città, Roma, sono stati il principio della mia vita, ma sento di venire da molto più lontano forse da un altro pianeta; in me ci sono tanti interessi che non trovano una corrispondenza familiare. Tutte queste cose mi fanno pensare che sono anche figlio di un mondo senza confini geografici e nel contempo figlio di un'infanzia che mi ha fatto essere l'uomo che sono.
Ma troppe domande rimangono insolute e allora ho pensato di cercare le risposte nelle storie della mia famiglia. Ho forse ereditato qualcosa del D.N.A. dei miei antenati? Chissà se loro amavano scrivere poesie, se amavano il bello, il colore, i fiori, la natura... insomma le cose che piacciono a me? Chissà se erano etruschi, tutto è possibile. La mia anima non sembra tormentata ma lo è perché tutte queste domande non mi fanno esser tranquillo. .Io amo definirmi una mente pensante non una persona perché così mi vede la gente che mi sta intorno.
Naturalmente non i miei amici veri perché quelli mi considerano come uomo e come persona! Ma sono pochi quelli che la pensano così. Vedete quante domande mi pongo. Da piccolo ho sempre sentito il bisogno di raccontarmi favole. Ho tante cose da dire ma non so dove né come le vado a trovare.
Sembra quasi che tutto voglia parlare di un passato da raccontare, ma io che posso raccontare se non quello che ho sentito fabulare? Mi sarebbe più facile raccontarmi per quello che sono stato e per quello che sono attraverso ciò che provo, ma quello che mi appartiene sarebbe un mondo di tristezza mescolato all'allegria che ha sempre un bambino o uno dotato di un carattere gioioso. Scende ancora la pioggia ed io sono qui davanti alla mia finestra lidense a ricordare le mie domande iniziali. Con questa vita frenetica si può solo ricordare con rimpianto il bel mondo antico dove la tranquillità era di casa. Ora questo solo rimpiango: non essere più figlio di quel tempo! Di quel tempo che permetteva anche molte ipocrisie oggi meno facili!
Credo di aver dato a me stesso delle risposte significative sul mio passato e sul mio futuro, sugli amici vecchi e nuovi su chi mi crede una mente pensante, cioè quasi un robot senza un cuore, né un passato né futuro. Da queste risposte è emerso che io un cuore ce l'ho e che dev'essere tenuto a bada. Ho scoperto che ho un passato, un presente e un futuro.
Ma intanto la pioggia se n'è andata, e non penso più di provenire da un altro pianeta. Ora so di appartenere a questo mondo. Di essere stato voluto da mio padre e da mia madre. Di avere molti amici anche se alcuni non mi hanno meritato o forse non mi hanno capito. Non sono venuto da qualche galassia sconosciuta: sono uno di voi, e questo mi conforta!
Dopo aver passato la giornata a Roma, in tarda serata torno a Ostia. Seduto in veranda, sento i canti serali degli uccelli nascosti tra gli alberi. L'aria tiepida risuona dei loro canti. Sono le nove di sera. E' una magnifica serata di inizio ottobre, e la giornata è stata bella. Rifletto: ho cambiato punto di vista sulle cose. Ero fortunato. Il lavoro mi dava stimoli. Ora non più. Credevo nella giustizia. Ora non più. Credevo negli ideali. Ora non più. Avevo un sacco di carne al fuoco. Si è bruciata.Ero coinvolto in progetti interessanti. Sono svaniti nel nulla. Il cibo mi ha fatto venire la nausea. Sospiro con aria dolente. Pensare mi manda in paranoia. Scuoto la testa. Mi trovo insopportabile, e perdo il controllo: "Mario, sei solo un cinico cantastorie" sibilo, tanto forte da farmi sentire. Gabriele rimane senza fiato. Il mio auto-insulto è sbalorditivo. "Che dici, papà?". Se ne va via disgustato, rivolgendomi un ghigno insolente.
Ho le mani fredde. Fisso la luna. Schiocco le dita colto da un'illuminazione.
Domani vado al mare. Mi pare una bella cosa. Lo è. Mi stringo le mani. Rientro a casa. Auguro buona notte a Alessandro.
Gabriele mi guarda e fa dei gesti goliardici con le mani. Simonetta mi tiene gli occhi addosso. Non ricambio il suo sguardo.
Faccio una doccia; il bagno è piccolo e pulito. L'acqua è calda, il sapone ha un ottimo profumo. Rimango sotto il getto e mi levo la puzza di sudore e rabbia dalla pelle. Prendo la schiuma da barba. Mi rado con vari movimenti verso il basso. Mi guardo allo specchio. Indugio ad ascoltare le voci in salotto, all'altro lato della casa. Entro in camera.
Mi sdraio sul letto. Incrocio le braccia e fisso il soffitto. E poi mi addormento.
Mario Pulimanti