Lo stupro, una parola di cui si sentiva l’assenza (ma dove!)
Ogni sera non manca da nessuna televisione un più o meno ragguardevole dibattito sullo stupro, dopo l’agghiacciante scenata di Beppe Grillo in cui difende il figlio indagato insieme ad altre tre persone per violenza sessuale di gruppo. Lo “spettacolo” è stato usato in vari modi. C’è chi l’ha ripreso per attaccare politicamente Grillo, chi per difendere le leggi che il proprio partito ha promosso e fatto approvare e chi ha chiesto o preteso una presa di posizione da parte delle donne che fanno politica nel Movimento 5 stelle.
I collettivi femministi, i centri antiviolenza e alcune giornaliste vicine ai movimenti delle donne sono invece partite dal singolo caso: per superarlo. Per spiegare, di nuovo, quali sono i meccanismi costanti, centrali e strutturali che le parole di Grillo hanno reso evidenti quando, sempre, si parla di stupro.
Che cosa ha “gridato” Grillo
In un minuto e mezzo, Beppe Grillo è riuscito a mettere insieme tutti i pregiudizi che hanno a che fare con la violenza di genere. Ha confermato come la narrazione dominante sullo stupro non la stabiliscano coloro che lo stupro lo subiscono, ha usato la propria posizione di potere per delegittimare chi ha denunciato, e ha negato gli abusi facendo leva sul presunto ritardo della denuncia o sulla reazione non consona di lei.
Non solo. Grillo ha citato un video dove a suo parere i rapporti erano consensuali e dove si vedono solo dei “ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così… perché sono quattro coglioni”, e si è chiesto perché i quattro non siano stati immediatamente arrestati, se erano colpevoli, sorvolando sul funzionamento della legge che in questi casi prevede l’arresto in flagranza, e la misura della custodia o gli arresti domiciliari solo in alcune circostanze.
Ha infine ricordato alle donne, come hanno scritto molte giornaliste cosa le attende se anche solo provano a considerare l’ipotesi di denunciare uno stupro, soprattutto se il loro stupratore è ricco e potente o figlio di potenti.
Caccia alle streghe “Mio figlio è su tutti i giornali”, esordisce Grillo, e con queste parole sposta il centro del discorso dal figlio alla ragazza: proprio mentre si sta decidendo per i quattro indagati il rinvio a giudizio o il non luogo a procedere, innesca un processo mediatico nei confronti di lei.
Grillo difende la presunzione di innocenza per suggerire automaticamente che le colpevoli siano le donne, che infatti purtroppo nei casi di violenza vengono comunque giudicate, sia perché sono state zitte sia perché a un certo punto hanno deciso di parlare.
Nella presunta “caccia alle streghe” invocata da Grillo il posto delle streghe viene dunque usurpato. Il meccanismo ha funzionato in modo molto efficace durante il #MeToo, quando anche sui giornali italiani circolavano espressioni quali “tribunale del popolo contro tutti gli uomini” o “maccartismo da cerniera lampo” e quando, nel discorso dominante, gli uomini hanno, di fatto, cercato di prendere il posto delle vittime.
Sindrome di Cassandra
Nel libro Gli uomini mi spiegano le cose, Rebecca Solnit, scrittrice, giornalista e femminista, spiega cos’è la sindrome di Cassandra. Cassandra è la giovane donna sorella di Ettore e Paride desiderata da Apollo. Inizialmente Cassandra sembra compiacerlo e il dio, in cambio, le fa il dono della profezia. A quel punto, Cassandra cambia idea, ritira il proprio consenso e lui le sputa in bocca, condannandola a non essere creduta mai. (Di fatti, anche donne serissime e ben lontane dai boccacceschi incontri nelle discoteche, non sono rese attendibili in un racconto di aver subito uno stupro).
Nei conflitti di genere, il mito di Cassandra ci insegna tre cose: la perduta credibilità di una donna è fin dall’inizio legata alla rivendicazione dei diritti sul proprio corpo; c’è in gioco una dinamica di potere e di controllo (lui è un dio dell’Olimpo, lei una donna figlia di mortali); lei non viene creduta a prescindere, nemmeno quando dice la verità, mentre lui sì, e non è un caso che la sua storia non sia altrettanto conosciuta quanto quella del pastorello che gridava “al lupo al lupo”, e le cui bugie all’inizio erano state credute più di una volta.
La sindrome di Cassandra funziona da sempre e funziona sempre, anche a livello di giudizio collettivo. Viene attivata ogni volta che la storia di lei viene raccontata, ogni volta che una donna mette in discussione un uomo, magari potente o famoso, e specialmente se c’entra il sesso. E agisce non solo mettendo in dubbio la verità di quello che lei sta dicendo, spiega Solnit, ma la sua stessa facoltà di parola e il suo diritto a esprimersi. Viene accusata di essere delirante, confusa, manipolatrice, maligna, esagerata e spesso tutte queste cose insieme. Viene accusata, infine, di non essere una vittima perfetta: esattamente come Cassandra, che all’inizio della storia sembrava volersi concedere ad Apollo.
Il mito dello stupro
Sullo stupro esistono diffuse e radicate aspettative: nel mito dello stupro si urla, si piange, ci si difende con tutte le proprie forze, e si denuncia immediatamente. Nel suo mito, la vittima è vestita in un certo modo, è sobria, non ha avuto molti uomini nel proprio passato e non si trova in certi posti a determinate ore della notte. La vittima ideale di stupro, per essere credibile e creduta, deve corrispondere dunque all’idea e al ruolo che alla donna è stato assegnato dentro un preciso sistema di potere: il patriarcato.
Il patriarcato funziona su un meccanismo piuttosto semplice: la differenza di sesso biologico viene trasformata in una differenza di ruoli (di “genere”): gli uomini sono incaricati alla produzione, al lavoro e alla vita pubblica, le donne alla riproduzione, al lavoro di cura e al focolare. A sua volta, questa differenza di genere diventa una gerarchia, un’asimmetria tra i sessi, e porta con sé dei modelli e dei ruoli più o meno fissi a cui attenersi: a cui un maschio pienamente maschio o una femmina pienamente femmina devono uniformarsi. Chi si pone fuori da questa norma, chi non corrisponde a quel modello di maschilità o femminilità, o chi non vi obbedisce, diventa immediatamente qualcuno o qualcuna da umiliare, aggredire, giudicare, colpevolizzare e delegittimare.
In questo contesto (alimentato dall’educazione, dai libri di scuola, dai giocattoli, dal linguaggio, dalle rappresentazioni sui mezzi d’informazione, nella pubblicità e così via) viene automaticamente tramandato anche un modo di vivere le relazioni e i rapporti sociali. Che è basato sul possesso, su determinate dinamiche di potere e sul rispetto di quei ben definiti ruoli di genere.
Cultura dello stupro e vittimizzazione secondaria
Il patriarcato si auto conserva attraverso la cosiddetta cultura dello stupro, un processo in cui lo stupro e le molestie sessuali sono banalizzate e giustificate, in cui sono normalizzati anche gli atteggiamenti e le pratiche che minimizzano e sostengono quella violenza e in cui sul corpo della donna viene esercitato un costante dominio politico che usa la sessualità come arma.
Sorreggono la cultura dello stupro, per esempio, le battute sessiste, il dare la colpa alla vittima dicendo “potevi lasciarlo”, l’oggettivazione sessuale, l’usare la mancanza di coscienza come attenuante e non come aggravante, o la cosiddetta goliardia: non vuol dire che chiunque faccia battute sessiste automaticamente stupri le donne; vuol dire che chiunque faccia delle battute sessiste, o ne rida, o rimanga in silenzio, alimenta la cultura dello stupro.
La cultura dello stupro è molto diffusa. Da un sondaggio dell’Istat uscito nel 2019 risulta che il 39,3 per cento delle persone intervistate pensa che le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescano comunque e sempre a evitarlo; il 23,9 per cento degli intervistati crede che siano le donne a provocare, per il loro modo di vestire, la violenza sessuale; e il 15,1 per cento è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Risulta cioè, commenta l’Istat, che il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita è ancora oggi molto persistente.
Questo pregiudizio ha un nome. Si chiama vittimizzazione secondaria, è citata anche nella Convenzione di Istanbul, e significa che la vittima lo diventa due volte. La vittimizzazione secondaria silenzia le donne, sottovaluta la violenza di genere e quel che rappresenta, colpevolizza la vittima e fa leva sui miti dello stupro e della vittima perfetta.
È un meccanismo molto potente e pervasivo, che funziona nei tribunali, nei percorsi legali, nei mezzi d’informazione, nel contesto sociale, nel giudizio collettivo ed è uno degli elementi che sta alla base delle mancate denunce per violenza sessuale: l’idea di esporsi diventa insostenibile davanti all’idea che questa esperienza venga minimizzata o negata o addirittura che la sua responsabilità venga attribuita proprio a te che l’hai subita.
Nel patriarcato e nella cultura dello stupro siamo tutte Cassandre e sono tutti innocenti a prescindere, come Grillo ha tenuto a ricordarci. Ed è per questo che i movimenti femministi, riportando al centro le donne che decidono di prendere la parola o di denunciare, hanno reagito in queste ore con un messaggio ben preciso. Le donne che raccontano di aver subìto uno stupro vanno ascoltate e sostenute, aiutate, fine al termine, quando lo stupratore è in prigione.