La Pasqua di Gatti

Per Pasqua un ritorno all'indietro, lassù, nella verde conca di Triangia

Mica quattro i gatti della omonima, piccola contrada a ridosso della verde conca di Triangia, dove un tempo  si respirava il fermento dei  sentieri tirati a secco dal passaggio degli alacri agricoli che si riversavano di primo mattino tra le vigne sciorinate al sole,  tra le lievi ondulazioni della segale brunita, tra i covoni affastellati sul pianoro; tra le sue quattro case di sasso e di malta abbarbicate sullo sperone roccioso su cui si è ancorato qualche sparuto masso erratico; tra le sue botteghe animate di gente, la vecchia scuola della penna e il calamaio, il campetto di bocce a caccia del sorso ribelle di un buon vino, e l’osteria si ritrovava un frascume di monelli che, puntualmente alle cinque “de la tarde”, sotterravano l’ascia di guerra intestina con le bande rivali, interrompendo le loro ribalderie quotidiane per ritrovarsi ballonzolanti su una vecchia panca di castagno a seguire la Tv dei Ragazzi, in bianco e nero, praticamente afona, soverchiata dalla caciara cicalante degli avventori persi nel mare vaporoso di un fumo acre. Poi, lentamente, senza un valido perché, è giunto l’amaro momento dell’abbandono. E’ questa la visione  del piccolo borgo di Gatti, quasi vagheggiata, ma non troppo nostalgica, tracciata da Nella Gatti, passionale e appassionata scrittrice dall’anima candida, gli occhi sognanti di una bambina che si stupisce del fluire del tempo che sembra essersi fermato nei ricordi di una masnada di discoli incalliti in cerca di avventure tra boschi di fragole e mirtilli, a rubare l’avido sapore delle prime ciliegie, delle pere ancora asprigne della sciura Margherita o le marmellate della Giuseppina, zitella per vocazione. E sempre a caccia di giochi infantili fatti di niente, ma che bastava la fantasia per accenderli. “Le rigide regole educative in casa e a scuola facevano a botte con la sconfinata libertà del gioco, della fantasia -  ricorda Gatti - I nostri giocattoli erano costruiti con rudimentali attrezzi trovati nelle soffitte, per strada, nelle discariche”.  E così un pezzo di legno era un fucile o una spada, un legnetto era perfetto per spingere un cerchione di ferro spolpato della camera ad aria, una semplice corda era una magnifica altalena, e i bottoni erano perfetti per  gli occhi di un bel pupazzo di neve. Per non parlare delle stecche di ombrelli irrivoltabili, appuntite con cura e scagliate contro il tronco degli alberi con un flessibile arco teso allo spasimo da un filo di spago. E potevano essere tutti o nessuno. “Noi, i ragazzi della Via Gatti” è nato quasi per caso. A raccontarlo è la stessa autrice: “Galeotta una tipica serata estiva in un piccolo borgo toscano. Ero a Casole d’Elsa a due passi da Siena. Eravamo in tanti ad ascoltare le parole del racconto “Il taglio del bosco” di Carlo Cassola”. Lo scrittore che aveva consacrato la sua ragazza di Bube affidandola al grande schermo aveva colpito nel segno risvegliando una congerie emozioni fatte di suoni, di titillanti onomatopee. Ma soprattutto  la visione della natura del protagonista, quel taglialegna-carbonaio che tanto si era sedimentato nella mente fanciulla e nel cuore dell’autrice con l’ immaginifica narrazione paterna. Inevitabile soggiacere al fascino evocativo di un’infanzia che balenava di colpo in un rivolo di aneddoti gustosi tutti da immortalare, e impossibile sottrarsi alla prensione persecutrice di un racconto scritto di getto in preda all'emozione, semplice, diretto, fresco e innocente come il sorriso  di una bimba: quella che in fondo è rimasta sulle strade polverose di Gatti e di cui si avverte quasi l’eco della voce fuori campo che narra la sua visione ingenua della vita. “Ho raccontato un anno intero vissuto insieme nel susseguirsi lento delle stagioni, in armonia perfetta, da veri amici fatti l'uno per l'altro, mai in competizione se non contro bande rivali, che non si sono mai traditi e che avrebbero preferito finire al muro piuttosto che fare i delatori, senza un vero capobanda, che soffrivano in silenzio le pene collettive per la colpa di un singolo. Ed è stato bello rivederli, uno ad uno, dopo tanti anni in cui ognuno ha intrapreso la propria strada, e vedere che a tutti si illuminavano gli occhi”, rivela Gatti. Non uno di meno.  “Anche io ero una bella discola, combattiva più che caparbia, ma a domarci bastavano gli anziani che vigilavano su di noi con uno sguardo, una parola, mentre i nostri genitori erano presi da mattina a sera dal lavoro. Dalla vita in fondo non ci aspettavamo niente, e quel che arrivava, raramente, era un di più”, continua l’autrice con una disarmante semplicità che affonda però lampi guerreschi sull’emarginazione delle riserve indiane o sulla cupa concezione femminile di un medioevo arcaico di cui scrollarsi nel tempo. “La condizione femminile… una lunga conquista per mamme stanche, sempre curve sotto pesanti gerle che portavano quasi come un ornamento, che si svegliavano presto per accudire i figli e le bestie, per dissodare i campi, lavare i panni nell’acqua gelida per stenderli poi su un filo che “sembravano bandiere che garrivano” in mezzo ai prati, dove spesso ghiacciavano in inverno. Le donne d’un tempo erano formiche, dovevano essere api laboriose, lo avevano nel loro Dna, a dispetto del boom economico degli anni 60”. E che dire di quei vestiti di terza generazione, troppo corti e troppo stretti, i calamai traboccanti delle pluriclassi, le pannocchie rossogialle stese sui balconi al vento, le corse a perdifiato nelle vigne, le nuvole multiformi che correvano veloci in una carrellata, viso al cielo, distesi nell’erba appena falciata.  E ancora le marachelle societarie  a cui nulla bastava per scontare il danno, nemmeno un fugace “O Gesù d’amore acceso” quando si fingeva di pregare per fare la I Comunione, o quando, inopinatamente, si spillava il vino novello delle botti altrui. E allora sì ch’ erano botte, randellate, sberle, e tirate d'orecchie. Per tutti. “Erano i tempi in cui gli scalpitanti puledri erano alla doma, e le ragazze cominciavano a pettinarsi, avere pretese nei vestiti, cominciavano a guardare i ragazzi con occhi diversi. Erano sempre complici, ma diverse.  Ancora oggi nella mente ci saremo sempre noi: Elvi, Jair, Scrutillo, Mary, Petula, Susanne, Morandi, Coppi, ( pseudomini per Ivana, Paola, Olimpia, Graziella, Ermanno, Arno, Claudio, Ennio, Tiziano, Nicolaus, Daniela, Adriana, Simone,) svezzati a burro, uova e vino rosso, e resteremo per sempre i mitici ragazzi della Via Gatti!”  

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