TORNA LA MESSA IN LATINO. SIAMO D’ACCORDO

Che il Pontefice Benedetto XVI avesse le sue idee, non collimanti con molte in circolazione, sugli aggettivi da attribuire alla Chiesa lo si sapeva. Niente quindi “Chiesa post-conciliare”, inevitabilmente se non in contrasto quantomeno diversa dalla pre-conciliare. Abbiamo trovato in questi giorni una sua affermazione ufficiale che va in questa direzione: “Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo”. Non è vero quindi quello che ha affermato qualche commentatore, peraltro della schiera di chi non è tenero nei confronti della Chiesa qualsiasi cosa essa faccia, salvo sorvolare, all’insegna del “non c’era e se c’ero dormivo” di fronte a grandi opere di carità cristiana nel mondo, e cioè che veniva stracciato il Concilio Vaticano II, ventunesimo nella storia della Chiesa, indetto ancora da papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, apertosi quasi quattro anni dopo (11 ottobre 1962) e concluso dopo nove sessioni il 7 dicembre 1965. Questo in relazione alla decisione di allora, fra quattro Costituzioni, tre Dichiarazioni e nove Decreti.promulgati, in base alla “Sacrosanctum Concilium”, di celebrare la Messa non più in latino ma nelle lingue nazionali. Con il Motu proprio Summorum Pontificum non cambia la liturgia ma in relazione alle richieste dei fedeli è possibile tornare alla celebrazione nell’antica lingua latina.

Subito i pro e i contro, i fautori dell’una o dell’altra tesi, anche se tutti dicono che non debba esserci divisione. Concordiamo il che però non esclude di poter avere idee diverse in argomento.

PER LA MESSA IN LATINO

Noi siamo per la Messa in latino. Non è che conti il nostro parere e che il Papa o il Vescovo o i parroci provvederanno in un modo o nell’altro assumendo i fondamentali ragionamenti e le argomentate convinzioni di chi scrive queste note. Ma è pur lecito questo parere esprimerlo, ancorché del tutto soggettivo.

Latino SI per due ragioni,.

- La prima per riflettere l’universalità della Chiesa. Negli anni 60 nella cattedrale di Siviglia poi nella chiesetta di un paesino dalle parti di Gibilterra, altra volta a Notre Dame piuttosto che nella Cattedrale di Colonia e dappertutto sentire, ad esempio “introibo ad altare Dei” piuttosto che al termine “ite, Missa est” dopo essere passati nel momento, per dirla in latino, per un credente quam qui maxime, quello della elevazione con “HOC EST ENIM CORPUS MEUM” e poi “HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI”. Un messaggio universale con un linguaggio universale, che pur non costruisce “una lingua sacra” in quanto, come sosteneva Carlo Cardia sull’Avvenire, “il cristianesimo non conosce una lingua sacra, perché ogni parola e ogni lingua è santa quando si rivolge al Signore”. Non sacra, ma “sensore del sacro”.

- La seconda per un tocco esteriore “di mistero” nel mistero più grande.

E questo senza il timore che qualcuno ha di una perdita di contatto con il messaggio, inconoscibile a molti in quanto appunto in latino. Non è così. Il significato del PATER NOSTER, DELL?AVE MARIA, DEL KYRIE ELEISON O DEL DOMINUS VOBISCUM e via dicendo è assai più comprensibile di quanto non sia il linguaggio corrente di uno della Val Brembana per un siciliano dei Monti Erei o viceversa.

Non ne faremmo affatto una querelle tra tradizionalisti e innovatori. Questa è definizione molto “umana”. Nel trascendente tradizione e innovazione coincidono.

a.f.

a.f.
Fatti dello Spirito