Tu conti i passi del mio vagabondare, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: tutto è scritto nel tuo libro (Sal 56, 9)

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Avrà avuto un sacco da fare Dio nel raccogliere nel suo otre le
tante e sincere lacrime d’addio dell’umanità per la morte di
Papa Giovanni Paolo II!
Come si sarà stupito di vedere attorcigliato alle mani della
gente di ogni razza, silenziosamente in fila per ore e ore per
portare il loro ultimo saluto al Pontefice così amato, specie da
tanti giovani, il rosario, una forma di preghiera considerata
demodè da intellettuali e sociologi del nostro tempo.
Sorprende, però, anche che quasi a nessuno è venuta voglia di
cantare perché Papa Wojtyla ha finito di liberarsi delle sue 108
pene dell’anima, secondo la dottrina buddhista cinese, per
raggiungere la Casa del Padre.

Forse che la morte è la parola fine all’esistenza umana?

“Quando morì la moglie di Chuang Tzu un amico venutogli a
portare le condoglianze, lo trovò che cantava.

Egli così rispose alle sue critiche:- Quando è morta, nel primo
momento come non potevo essere addolorato?

Ma poi ho riflettuto ed ho capito che la sua vita è stata come
la primavera e l’autunno, l’inverno e l’estate nel corso delle
quattro stagioni. Ora riposa dormendo nella Grande Casa.

Se io l’accompagnassi con i singhiozzi e la piangessi, mostrerei
di non aver compreso il segreto celeste. Per questo ho
desistito” (Cfr.: Chuang Tzu, cap. XVIII, testo del taoismo).


Una convinzione simile, seppure con parole diverse, è espressa
da un racconto della Fallaci.

“Era entrata con piccoli passi esitanti, la prudenza dei bambini
quando vogliono qualcosa. Appoggiata ad una valigia, s’era messa
a fissarmi dondolando un piede su e giù. Fuori era novembre, il
vento invernale gelava i boschi della mia Toscana.

“E’ vero che parti?”.

“Sì, Elisabetta”.

“Allora resto a dormire con te”.

Le avevo detto va bene, era corsa a prendere il pigiama e il suo
libro dal titolo “La vita delle piante”, poi m’era venuta
accanto nel letto: minuscola, indifesa, contenta. Fra qualche
mese avrebbe compiuto cinque anni. Tenendola stretta m’ero messa
a leggerle il libro, d’un tratto m’aveva puntato gli occhi negli
occhi e posto quella domanda:

“La vita, cos’è?”.

Io coi bambini non sono brava. Non so adeguarmi al loro
linguaggio, alla loro curiosità. Le avevo dato una risposta
sciocca, lasciandola insoddisfatta.

“La vita è il tempo che passa fra il momento in cui si nasce e
il momento in cui si muore”.

“E basta?”.

“Ma sì, Elisabetta. Basta”.

“E la morte cos’è?”.

“La morte è quando si finisce, e non ci siamo più”.

“Come quando viene l’inverno e un albero secca?”.

“Più o meno”.

Però un albero non finisce, no? Viene la primavera e lui
rinasce, no?”.

“Per gli uomini non è così, Elisabetta. Quando un uomo muore, è
per sempre. E non rinasce più”.

“Anche una donna, anche un bambino?”.

“Anche una donna, anche un bambino”.

“Non è possibile!”.

“Invece sì, Elisabetta!”.

“Non è giusto!”.

“Lo so. Dormi”.

“Io dormo, ma non ci credo alle cose che dici. Io credo che
quando uno muore fa come gli alberi che l’inverno seccano ma poi
viene la primavera e loro rinascono, sicché la vita deve essere
un’altra cosa”.

(Da “Niente e così sia” di Oriana Fallaci)


Come Elisabetta gli uomini si sono sempre domandati se con la
morte è veramente finito tutto. I Cristiani sono convinti che
l’ultima parola della storia degli uomini non è la morte, ma la
vita.

Una vita nuova, una vita che non finisce, una vita che viene
donata da Dio, padrone e Signore della vita.

La morte nelle religioni e nelle tradizioni dei popoli


In ogni tempo e presso tutti i popoli i “morti” furono trattati
con grande venerazione e rispetto e il loro corpo veniva
affidato al luogo del suo riposo con riti commoventi che
rivelavano una diffusa e comune credenza che la morte è solo la
porta spalancata su un’altra vita.
Gli antichi Egizi

Gli antichi Egizi credevano in una vita dopo la morte. Essi
pensavano che l’immortalità felice dipendesse dalla
conservazione del corpo del defunto e per questo adoperavano la
tecnica della imbalsamazione, accanto al defunto collocavano
anche gli oggetti che erano stati da lui usati in vita e gli
alimenti per nutrirsi. Gli Egizi credevano, ancora, che il
defunto intraprendesse, a bordo di una navicella, un viaggio nel
cielo per arrivare al dio del Sole per esser giudicato. Una
bilancia decideva del suo destino. Infatti su uno dei piatti
della bilancia era posto il cuore del defunto, e solamente se
risultava più leggero dell’immagine della dea della verità gli
era concessa la vita eterna. Per coloro che non si erano
comportati bene e il cui cuore risultava pesante non c’è luogo
di pena, ma c’è una seconda morte, questa volta, però,
definitiva.

I Greci

I Greci pensavano che dopo la morte i defunti continuassero a
vivere come delle “ombre” nel regno della morte, in un mondo
sotterraneo che chiamavano gli Inferi. Prima di arrivare negli
Inferi il defunto doveva attraversare il nero fiume Stige. Per
questo i parenti collocavano una moneta in bocca al defunto che
era come la paga per Caronte, il barcaiolo che attraversava lo
Stige. Dopo, il defunto beveva alle acque del fiume Lete (=
“dimenticanza”).

Da questo punto in avanti egli non ricordava più nulla della sua
vita passata; né i momenti di felicità, né i dolori e le
sofferenze. Davanti all’entrata del regno dei morti montava
guardia Cerbero, il cane degli Inferi. Egli permetteva alle
anime dei morti di entrare, ma impediva e bloccava quelle che
volevano tornare sulla terra. In questo modo i defunti vivevano
come “ombre” nel regno del dio Ade e della sua sposa Persefone.

I Romani

I Romani baciavano i loro morti prima di deporli nel sepolcro e
gridavano ad alta voce: “Vale!” che vuol dire: sta’ bene!.

Il più delle volte sul luogo della sepoltura imbandivano un
banchetto funebre. In esso c’era sempre un posto vuoto, quello
del defunto: qui venivano portati cibi e bevande che dovevano
servire come viatico per il viaggio del defunto.

I musulmani

I seguaci di Maometto credono che essi durante la vita devono
assolvere molti doveri, perché subito dopo la morte possano
essere accolti nel Paradiso. Innanzitutto, devono applicare le
cinque regole fondamentali: la preghiera giornaliera,
l’elemosina, il digiuno, la professione di fede in Allah e il
pellegrinaggio a La Mecca

Il loro Paradiso è posto in un meraviglioso giardino nel quale
regna un’eterna primavera, con fiumi di vino( visto che in terra
è proibito) e con tante bellissime ragazze che li sollazzeranno(
anche lì le donne saranno di serie B???)

In questa maniera Allah li premia.

Gli Induisti

Gli Induisti, pur adorando molte divinità, credono un Dio
presente in ogni cosa a cui ogni essere vuole unirsi dopo la
morte.

Tuttavia essi sono persuasi che prima di arrivare alla profonda
unione con Dio dovranno rinascere molte volte (reincarnazione).

Essi sono convinti che ciascuno di loro ha già avuto una vita
precedente e reputano che la “migrazione” da una vita all’altra
durerà fino a quando avranno compiuto il bene necessario per
essere uniti a Dio: a questo punto uno è salvo e liberato dal
male.

Gli ebrei-giudei

Ultimo rito nella vita dell'ebreo è quello funebre. I parenti
iniziano il lutto facendo l'atto di stracciarsi i vestiti e
astenendosi dal culto pubblico. Dopo essere stata deposta sul
pavimento, lavata e avvolta in un abito speciale, col volto
coperto, la salma viene seppellita, entro 24 ore dalla morte,
nella terra: vietati la cremazione, i loculi e le sepolture
temporanee. Dopo un anno cessa il lutto e si pone la lapide
sulla tomba. Il lutto stretto dura una settimana, durante la
quale i parenti siedono su sedie basse o anche sul pavimento.
Poco significativa nell'ebraismo la dottrina dell'immortalità
dell'anima o della resurrezione dei corpi. Scarsissimi i
riferimenti alla vita ultraterrena.

I buddhisti

Premettendo che la morte fa parte della prima nobile verità
enunciata da Buddha(la nascita è dolore, la malattia è dolore,
la vecchiaia è dolore, la morte è dolore) il Libro tibetano dei
morti, o Bardo Thodrol, dà istruzioni su tradizioni,
insegnamenti, scritti e orali che costituiscono il mondo del
buddhismo tibetano. Il termine bardo( la TV spesso inquadrava a
Piazza s. Pietro una bandiera con su scritto Bardo il 2- 3
aprile 2004) significa ‘periodo intermedio tra due eventi o
situazioni’, come, solo per fare un esempio, il sonno e la
veglia. Secondo il buddhismo tibetano i momenti di passaggio, o
bardo, hanno un’importanza particolare, perché proprio
nell’intervallo tra uno stato mentale e un altro, tra
un’emozione e l’altra, si può intravedere la natura
incontaminata e primordiale della nostra mente. Il Bardo Thodrol
si occupa del momento di passaggio per eccellenza, quello dalla
vita alla morte, e, nel buddhismo tibetano, dalla morte alla
rinascita.

Il bardo di questa vita, compreso tra la nascita e la morte, il
bardo del processo della morte, il bardo delle esperienze dopo
la morte, e il bardo della ricerca di una nuova vita.

Il bardo di questa vita è fondamentale perché è l’unico che ci
consente la pratica effettiva degli insegnamenti spirituali in
vista di quel brevissimo momento di passaggio in cui, se ci
siamo preparati adeguatamente, saremo pronti a riconoscere la
saggezza illimitata ed eterna della nostra mente( e di Dio).

Il Buddhismo raccomanda la cura dei moribondi , poiché la morte
è un momento decisivo in rapporto alla reincarnazione e deve
avvenire in modo sereno .

La vita è un continuo fluire, e colui che si aggrappa a
qualsiasi forma, per quanto splendida, soffrirà resistendo alla
corrente.

Uno dei modi in cui i monaci si rivolgono alle persone in
Thailandia è dicendo: “Fratelli e sorelle in vecchiaia, malattia
e morte”. È interessante pensare che siamo tutti fratelli e
sorelle perché condividiamo le stesse cose: vecchiaia, malattia
e morte. La sofferenza, perdere ciò che ci piace, essere
irritati da ciò che ci fa inquietare, volere qualcosa che non
abbiamo, tutti condividono queste cose, che si tratti di
africani, sudamericani, europei, australiani, giapponesi, cinesi
o di qualsiasi altra nazione. L'insegnamento buddhista parte dal
presupposto che ogni essere umano ha un'enorme quantità di karma
negativo ereditato dalle vite precedenti e, per questa ragione,
incoraggia i propri fedeli a recitare tutti i giorni la
"Preghiera di Penitenza" che dice: "Affinché siano cancellate le
colpe e gli impedimenti da me accumulati sin dal più remoto
passato a causa delle mie offese al Dharma (Legge)”.

Cristiani

Anche per il Cristianesimo la vera posta che si gioca con la
religione è la morte. Si potrà fare del Cristianesimo
un'ispirazione di tipo sociale, di tipo umanitario, di tipo
etico, solidarista, ecc., ma questo sarà solo un modo per
rimuovere la questione fondamentale. La questione fondamentale
della religione e, quindi, del Cristianesimo è la finitezza
umana e il suo senso.

Di questa, la prima forma religiosa si ritrova nella religiosità
greca arcaica e nella sua espressione sapienziale, nella
tragedia, nello sfondo di certe filosofie che Aristotele
ribattezzò come "naturalistiche"; si ritrova nelle religione
"civile" delle città elleniche e di Roma; nella religione
oracolare; la rinveniamo, infine, nel mondo biblico, dal
racconto del Genesi alla legislazione mosaica, ai libri
sapienziali ecc.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo, il Coro delle Oceanine
invoca: "Gli dei, i grandi signori, / non gettino l'occhio su di
noi / se al loro amore non si può sfuggire; / è guerra non
guerreggiabile, / via che chiude ogni via, / non si sa che si
diviene, / non si vede per dove / si può scampare a un pensiero
di Zeus" (terzo stasimo).

Nel suo lungo monologo il sapiente biblico Qohèlet insegna:
"Così ho compreso che non c'è alcun bene per l'uomo se non che
egli goda di quello che fa, perché solo questo gli è concesso,
Nessuno infatti lo porterà a vedere ciò che accadrà dopo di
lui". E così pure il lungo duello tra Giobbe e il Signore si
conclude con il riconoscimento della nullità umana dinanzi
all'onnipotenza divina: "E' vero, senza nulla sapere / ho detto
cose troppo superiori a me, che non comprendo".

La seconda forma religiosa si ritrova nelle forme estatiche
delle religioni arcaiche, nelle religioni misteriche, nella
filosofia platonica e successivamente nel misticismo
neoplatonico, e infine nel cuore della religione cristiana, cioè
nella risurrezione.

Nel Prefazio del Natale il celebrante invoca: "Accetta, o Padre,
la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo
misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo figlio,
che ha innalzato l'uomo accanto a te nella gloria".

Nella religione greca arcaica è forte il senso del limite della
condizione umana. Esso, raggiunge la paradossalità della pura
contraddizione nella tragedia, dove l'eroe soccombe non ad
avvenimenti eccezionali ma alla stessa impossibilità di
un'armonia tra l'esistenza e il suo senso. Le religioni civili,
sia in Grecia e a Roma che presso il popolo biblico, si
procacciano il favore e la protezione degli dei (o del dio
etnico) attraverso l'offerta sacrificale. Le letterature
religiose di questi chiedono scampo, salvezza, felicità entro la
finitezza dell'esistenza temporale. Quello che conta è il
rispetto del limite, il riguardo delle norme, la sottomissione
(più accentuata in oriente che in occidente). Da queste deriva
una sorta di conciliazione fra gli uomini e le loro divinità,
che può arrivare anche a una vera elezione collettiva (che
comporta soprattutto la sconfitta e lo sterminio dei nemici)
oppure in certi casi eccezionali a un favore personale ( Edipo a
Colono, Oreste, Abramo, Giobbe). A Roma non si faceva nulla, sia
in pubblico che in privato, senza aver prima ottenuto con dei
riti il favore della divinità.

Invece nelle forme estatiche arcaiche il contatto con la
divinità viene cercato attraverso veicoli come la danza, il
canto, l'esaltazione individuale o collettiva stimolata anche
con sostanze stupefacenti ecc. Si può dire che queste forme
abbiano interessato praticamente le religiosità arcaiche
dell'uomo( e non solo ieri).

Le religioni misteriche, legate a svariate divinità come per
esempio Dioniso o Demetra, praticavano l'unione fra la divinità
e l'iniziato mediante riti e conoscenze. Nella lampada orfica
scoperta a Turii (IV sec. a.C.) il defunto è guidato nell'aldilà
con queste parole: "..Sfuggii al cerchio, che dà pesante dolore,
e aspro, / salii fino alla bramata corona con i veloci piedi, /
e mi immersi nel grembo della signora, regina sotterranea; / poi
scesi dalla bramata corona con i veloci piedi: "O beato e
felicissimo, sarai un dio anziché un mortale."". E nel Libro dei
Morti del Nuovo Impero d'Egitto il defunto viene assimilato a
Osiride, colui che avendo vinto la morte è risorto nell'apoteosi
dell'immortalità. Le forme di platonismo si basano sul
raggiungimento sovrarazionale di un contatto con il divino, anzi
di una vera immedesimazione.

Ma è il Cristianesimo, con il "mistero" dell'incarnazione, della
morte/sacrificio e della risurrezione/comunicazione del Dio, a
rappresentare la forma perfetta della religione che oltrepassa
il limite dell'esistenza, anzi lo distrugge per offrire ai
"salvati" l'unione con sé.

Sono queste due grandi dimensioni del religioso, non raramente
frammischiate in parte tra di loro, ma in definitiva, non
facilmente compatibili in assoluto, benché si possa facilmente
avvicinarle in superficie. Perché la prima si basa sul contatto
col divino per riaffermare la distanza, la differenza, la
separazione. Il secondo fa del contatto col divino un semplice
mezzo per raggiungere una diversa condizione, che consta
nell'identificazione e nel raggiungimento del possesso delle
caratteristiche della divinità.

Niente è più distante dalla mentalità di un greco della
tragedia, o di un ebreo del Pentateuco o dei Sapienziali, o di
un romano della "religio", della concezione degli evangelisti.
Là vi domina una pietas attenta soprattutto a rispettare la
potenza della divinità e a non comprometterne il favore. Qui il
motivo dominante è il dono di sé del dio/vittima/vittorioso per
unire a sé l'umanità separata.

Questa distinzione in due forme serve poi naturalmente a capire
l'atteggiamento religioso nei confronti della morte. Infatti la
morte è il senso radicale del limite umano, ed è perciò nei
confronti della morte che ogni forma religiosa rivela la sua
vera ragione d'essere. Proprio riguardo la morte, perciò, le due
tendenze manifestano la loro differenza in modo netto. La prima
tendenza concepisce davvero la morte come il punto invalicabile
e perciò dalla morte tende a trarre il significato e il valore
dell'intera esistenza. Ciò vuol dire che la morte non è solo la
fine di un individuo, ma soprattutto che la vita di un individuo
viene esaltata e resa unica e preziosa dal suo dover morire.
Naturalmente la morte può anche portare un senso di sconfitta,
di catastrofe nei confronti dell'esistenza, ma questo accade nel
non accettare il suo limite e destino. Nella dodicesima tavola
del Poema di Gilgamesh, l'eroe mesopotamico raggiunge l'ombra di
Enkidu condotta fuori dalla cupa dimora dei morti ed esclama
"Parla, amico mio! Parla, amico mio! Annnunziami la legge di
quella terra che tu hai veduto!". Ed Enkidu "Se ti rivelassi la
legge della terra che ho veduto, ti sederesti per piangere".
Gilgamesh insiste, e allora così gli risponde Enkidu:" L'amico
che tu hai afferrato per rallegrarti con lui è mangiato dai
vermi, come se fosse un abito smesso. Enkidu, l'amico che la tua
mano ha toccato, è diventato come della terra argillosa; è pieno
di polvere, è diventato polvere". E il biblico Salmo 88 lamenta
a Dio: "Fra i morti è la mia dimora, / di essi tu non hai più
alcun ricordo, / sono tagliati fuori, / lontani dalla tua mano…
Forse tu compi prodigi per i morti? / O sorgono le ombre a
celebrare le tue lodi? / Si parlerà forse nel sepolcro della tua
misericordia? / O della tua fedeltà nel luogo della distruzione?
Forse nelle tenebre si annunzieranno le tue meraviglie?".

L'accettazione invece porta alla saggezza di certe filosofie,
alla sottomissione religiosa dell'uomo che riconosce l'ordine o
la volontà di chi gli ha fatto dono della vita e perciò gliela
toglie. Molte religioni hanno insegnato nei confronti di tale
concezione della morte un comportamento valoroso ed eroico.
Nella tragedia la morte è spesso invece una liberazione dal
dolore. "Venga, venga la morte, adesso, e sarà bella: ultima
sventura dell'ultimo giorno. Venga, venga: mi porti l'ultimo
giorno, la sorte migliore". Così esclama Creonte nell’Antigone
sofoclea. Il mondo biblico esalta la morte serena in pace con
Dio, ma il regno della morte, lo sceòl, è così descritto nel
Libro di Isaia: "Perché lo sceòl non ti loda né la morte ti
celebra. / Non sperano nella tua fedeltà / coloro che scesero
nella fossa.".

Invece il Cristianesimo sfonda il muro della morte e ciò è il
centro di tutto. La risurrezione del Cristo si comunica ai
credenti e la vita, come per lui, significa per “sempre”.

Un Cristianesimo volto a questo mondo, per migliorarlo e
renderlo più felice, contiene un compromesso con l'altra forma,
inestinguibile nel cuore dell'uomo: la paura, il bisogno di
sicurezza, il desiderio di successo, la felicità, qualcosa che
sia eterno. Ciò viene appagato nell'identificazione con la
divinità.

La sua storia è un continuo smascheramento del desiderio, nel
modo che insegna a riconoscere che il vero senso del desiderio
umano non sono le cose di questa terra, ma è Dio.

Per tale motivo è spiegabile il “successo” di Papa Giovanni
Paolo II: ha intuito che l’umanità sofferente della nostra
contemporaneità ha sete di “assoluto”, di speranza in qualcosa
che vale.

Ma non solo per l’oggi.
Maria De Falco Marotta

GdS 10 IV 2005 -
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Maria De Falco Marotta
Fatti dello Spirito