NATALE: Lamento del popolo in tempo di fame e di guerra

Siamo vicini al Natale, Giorno di pace per
antonomasia e soffiano venti di guerra. Siamo vicini al
quarantennio (il prossimo 11 aprile) dell'Enciclica "Pacem in
Terris" di cui vogliamo riportare alcuni passaggi:

"87. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito
immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza
nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i
rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i
cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse
comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e
comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità
mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera
pace nell’ordine stabilito da Dio.

88. Certo, coloro che prestano la loro opera alla ricomposizione
dei rapporti della vita sociale secondo i criteri sopra
accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno
apprezzamento, il nostro pressante invito a perseverare nella
loro opera con slancio sempre rinnovato. E ci conforta la
speranza che il loro numero aumenti, soprattutto fra i credenti.
È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni
credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di
luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa:
e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso,
vive in comunione con Dio.

Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in
ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso
l’ordine voluto da Dio. "Vuole l’anima tua - si domanda
Dant’
Agostino - vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in
alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera,
sicura, ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio
comanda all’anima, l’anima al corpo; niente di più ordinato"...


Con queste parole
i consueti voti augurali.

Auguri, certo, ma abbiamo ritenuto che il migliore voto
augurale sia stato il discorso tenuto dal Sommo Pontefice
all'udienza generale di
mercoledì, 11 dicembre scorso. Lo
pubblichiamo integrale:


Cantico: Ger 14,17-21 - Lamento del popolo in tempo di fame e di
guerra Lodi del venerdì della 3a settimana

(Lett. Ger 14,17.19A.20b-21)



1. È un canto amaro e sofferto quello che il profeta Geremia,
dal suo orizzonte storico, fa salire fino al cielo (14,17-21).
L’abbiamo sentito ora risuonare come invocazione, mentre la
Liturgia delle Lodi lo propone nel giorno in cui commemora la
morte del Signore, il venerdì. Il contesto da cui sorge questa
lamentazione è rappresentato da un flagello che spesso colpisce
la terra del Vicino Oriente: la siccità. Ma a questo dramma
naturale il profeta ne intreccia un altro non meno terrificante,
la tragedia della guerra: «Se esco in aperta campagna, ecco i
trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della
fame» (v.18). La descrizione è purtroppo tragicamente attuale in
tante regioni del nostro pianeta.


2. Geremia entra in scena col volto rigato di lacrime: il suo è
un pianto ininterrotto per «la figlia del suo popolo», cioè per
Gerusalemme. Infatti, secondo un simbolo biblico molto noto, la
città è raffigurata con un’immagine femminile, «la figlia di
Sion». Il profeta partecipa intimamente alla «calamità» e alla
«ferita mortale» del suo popolo (v. 17). Spesso le sue parole
sono segnate dal dolore e dalle lacrime, perché Israele non si
lascia coinvolgere nel messaggio misterioso che la sofferenza
porta con sé. In un’altra pagina Geremia esclama: «Se voi non
ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra
superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà
deportato il gregge del Signore» (13,17).


3. Il motivo dell’invocazione lacerante del profeta è da
cercare, come si diceva, in due eventi tragici: la spada e la
fame, cioè la guerra e la carestia (cfr Ger 14,18). Siamo,
dunque, in una situazione storica travagliata ed è significativo
il ritratto del profeta e del sacerdote, i custodi della Parola
del Signore, i quali «si aggirano per il paese e non sanno che
cosa fare» (ibid.).


La seconda parte del Cantico (cfr vv. 19-21) non è più un
lamento individuale, alla prima persona singolare, ma una
supplica collettiva rivolta a Dio: «Perché ci hai colpito, e non
c’è rimedio per noi?» (v. 19). Oltre alla spada e alla fame,
c’è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio,
che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo,
quasi disgustato dell’agire dell’umanità. Le domande a Lui
rivolte si fanno perciò tese ed esplicite in senso tipicamente
religioso: «Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure ti
sei disgustato di Sion?» (v.19). Ormai ci si sente soli e
abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. Il popolo,
lasciato a se stesso, si trova come sperduto e invaso dal
terrore.


Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda
di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri?
Tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro
origine nell’aver abbandonato Dio, roccia di salvezza.


4. A questo punto ecco la svolta: il popolo ritorna a Dio e gli
rivolge un’intensa preghiera. Riconosce innanzitutto il proprio
peccato con una breve ma sentita confessione della colpa:
«Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità… abbiamo peccato
contro di te» (v. 20). Il silenzio di Dio era, dunque, provocato
dal rifiuto dell’uomo. Se il popolo si converte e ritorna al
Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro
per abbracciarlo.


Alla fine il profeta usa due parole fondamentali: il «ricordo» e
l’«alleanza» (v. 21). Dio viene invitato dal suo popolo a
«ricordarsi», cioè a riprendere il filo della sua benevolenza
generosa, manifestata tante volte nel passato con interventi
decisivi per salvare Israele. Dio è invitato a ricordarsi che
egli si è legato al suo popolo attraverso un’alleanza di fedeltà
e di amore. Proprio per questa alleanza il popolo può confidare
che il Signore interverrà a liberarlo e a salvarlo. L’impegno da
lui assunto, l’onore del suo «nome», il fatto della sua presenza
nel tempio, «il trono della sua gloria», spingono Dio - dopo il
giudizio per il peccato e il silenzio - ad essere di nuovo
vicino al suo popolo per ridargli vita, pace e gioia.


Insieme con gli Israeliti, anche noi possiamo dunque essere
certi che il Signore non ci abbandona per sempre ma, dopo ogni
prova purificatrice, egli ritorna a far «brillare il suo volto
su di noi, a esserci propizio… e a concederci pace», come si
dice nella benedizione sacerdotale riferita nel libro dei Numeri
(6,25-26).


5. A conclusione, possiamo accostare alla supplica di Geremia
una commovente esortazione rivolta ai cristiani di Cartagine da
san Cipriano, Vescovo di quella città nel terzo secolo. In tempo
di persecuzione, san Cipriano esorta i suoi fedeli a implorare
il Signore. Questa implorazione non è identica alla supplica del
profeta, perché non contiene una confessione dei peccati, non
essendo la persecuzione un castigo per i peccati, ma una
partecipazione alla passione di Cristo. Nondimeno si tratta di
un’implorazione altrettanto pressante quanto quella di Geremia.
«Imploriamo il Signore, dice san Cipriano, sinceri e concordi,
senza mai cessare di chiedere e fiduciosi di ottenere.
Imploriamolo gemendo e piangendo, come è giusto che implorino
coloro che sono posti tra sventurati che piangono e altri che
temono le sventure, tra i molti prostrati dal massacro e i pochi
che restano in piedi. Chiediamo che ci venga presto restituita
la pace, che ci si dia aiuto nei nostri nascondigli e nei
pericoli, che si adempia quello che il Signore si degna di
mostrare ai suoi servi: la restaurazione della sua Chiesa, la
sicurezza della nostra salute eterna, il sereno dopo la pioggia,
la luce dopo le tenebre, la quiete della bonaccia dopo le
tempeste e i turbini, l’aiuto pietoso del suo amore di padre, le
grandezze a noi note della divina maestà» (Epistula 11,8, in: S.
Pricoco - M. Simonetti, La preghiera dei cristiani, Milano 2000,
pp. 138-139).
Papa
Giovanni Paolo II



GdS - 18 XII 2002 -
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