HABEMUS PAPAM - CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO DEL VESCOVO DI ROMA BENEDETTO XVI , 24.4.2005



CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER L’INIZIO DEL MINISTERO PETRINO DEL
VESCOVO DI ROMA BENEDETTO XVI


# OMELIA DEL SANTO PADRE


# TESTO IN LINGUA FRANCESE


# TESTO IN LINGUA INGLESE


# TESTO IN LINGUA SPAGNOLA


# TESTO IN LINGUA TEDESCA


Alle ore 10 di oggi, V Domenica di Pasqua, sul sagrato della
Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la
Santa Messa per l’inizio ufficiale del Suo ministero petrino.

Prima della Celebrazione Eucaristica, il Santo Padre e i
Cardinali concelebranti sostano nella Basilica di san Pietro
intorno alla Confessione dell’Apostolo. Quindi il Papa scende,
con i Patriarchi delle Chiese Orientali, al Sepolcro di San
Pietro e vi sosta in preghiera, incensando poi il Trophæum
Apostolico.

Nel corso della Santa Messa sul sagrato della Basilica, dopo la
proclamazione del Vangelo, il nuovo Romano Pontefice viene
insignito del Pallio petrino e dell’Anello del Pescatore, e
riceve poi l’obbedienza di 12 persone: tre Cardinali, un
Vescovo, un Presbitero, un Diacono, un Religioso, una Religiosa,
una coppia di sposi, due ragazzi cresimati, in rappresentanza di
tutta la Chiesa.

Quindi il Santo Padre Benedetto XVI tiene la seguente omelia:


# OMELIA DEL SANTO PADRE


Signori Cardinali,

venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,

distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico,

carissimi Fratelli e Sorelle!


Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle
litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del
nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell'ingresso
dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo
nuovamente cantate con l'invocazione: Tu illum adiuva - sostieni
il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del
tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande
consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la
dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa che per ben 26 anni è
stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo
tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel
mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede,
non è mai solo - non lo è nella vita e neanche nella morte. In
quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i
secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che
sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato
nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo
arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è
veramente a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo
il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il
Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome?
Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i
paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la
missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo
sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati,
condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo
momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito
inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso
fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici,
avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata
da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In
tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono
solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai
portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi
sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la
Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra
speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non
appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di
cui conosciamo i nomi. Noi tutti siamo la comunità dei santi,
noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di
Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci
simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la
meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi
giorni della malattia e della morte del Papa questo si è
manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa
è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del
mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il
futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la
gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva -
essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente
risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei
giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione
di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi
giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il
Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha
promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua
resurrezione.


La Chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine
voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli
Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori
pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose,
testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi,
fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del
Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della
vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che
rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo,
non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli
del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio
spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili
promesse di Dio. Il mio pensiero, infine – quasi come un’onda
che si espande – va a tutti gli uomini del nostro tempo,
credenti e non credenti.


Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un
programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio
compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20
aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero
programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non
perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta
la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi
guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in
questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma
io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con
cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del
Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto,
rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle
letture di oggi.


Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene
posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di
Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come
un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città,
il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di
Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà
non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la
libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via
della vita – questa era la gioia di Israele, era il suo grande
privilegio. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio
non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e
così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto
Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In
realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana
d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche
quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue
spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della
pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i
Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della
Chiesa. L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel
deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera
questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile
miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del
cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce.
La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi
stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le
pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati
da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un
l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del
pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La
santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui
non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi
sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il
deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono,
della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto
dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più
coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti
esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori
sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono
più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale
tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello
sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed
i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per
condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della
vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci
dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell’agnello ha
ancora un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re
designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era
un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano
per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a
suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio
vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte
degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio
così Egli si rivela come il vero pastore: "Io sono il buon
pastore… Io offro la mia vita per le pecore", dice Gesù di se
stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime, ma l’amore!
Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi
desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse
duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore.
Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano
la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla
liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio.
E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio,
che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal
Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla
pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.


Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere
quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così
come ama Cristo, al cui servizio si trova. "Pasci le mie
pecore", dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento.
Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a
soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il
nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il
nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo
Sacramento. Cari amici – in questo momento io posso dire
soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare
il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più
il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi
singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non
fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli
altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli
uni gli altri.


Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia
odierna l’insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna
dell’anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere
pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla
narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale
avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla
riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare
ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi
non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: "E sebbene fossero
così tanti, la rete non si strappò" (Gv 21, 11). Questo
racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi
discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora
i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte;
anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo
ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro,
diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le
reti! Ed ecco il conferimento della missione: "Non temere! D’ora
in poi sarai pescatore di uomini" (Lc 5, 1–11). Anche oggi viene
detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il
largo nel mare della storia e di gettare le reti, per
conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera
vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche
a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce,
creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso
viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento
all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il
contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della
sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La
rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci
porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’
proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito
di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di
tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di
Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli
uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita.
Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo
che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso
dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di
Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è
necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti,
sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello
che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il
compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire
faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un
servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo
ingresso nel mondo.


Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del
pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto
esplicito la chiamata all’unità. "Ho ancora altre pecore, che
non sono di questo ovile; anch’esse io devo condurre ed
ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo
pastore" (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon
pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la
gioiosa constatazione: "sebbene fossero così tanti, la rete non
si strappò" (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è
strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere
tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e
facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità,
che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al
Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai
promesso. Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non
permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere
servitori dell’unità!


In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978,
quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla
Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano
nelle orecchie le sue parole di allora: "Non abbiate paura,
aprite anzi spalancate le porte a Cristo!" Il Papa parlava ai
forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo
potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero
lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli
avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della
corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma
non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà
dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società
giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto
ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se
lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo
totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa
della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a
qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non
rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà?
Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare
Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che
rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia
si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si
dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione
umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello
e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e
grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita
personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di
Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui,
riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e
troverete la vera vita. Amen.


GdS 30 IV 2005 -
www.gazzettadisondrio.it

Fatti dello Spirito