All'etiope Abiy Ahmed Ali il Premio Nobel per la pace
(Maria de falco Marotta) L’umanità è sotto la minaccia di una guerra global, grazie alla sete di gloria di Erdogan, capo indiscusso della Turchia. Intanto Stoccolma ha assegnato il Nobel per la pace all’etiope Abiy Ahmed Ali, il politico più in vista di tutta l’Africa, arrivato al potere il 2 aprile 2018. Ha 42 anni, è il più giovane leader del continente con atteggiamenti da profeta, da duro e da grande sognatore. Parla correntemente inglese e punteggia le sue frasi di citazioni bibliche, riferimenti ai big data e versi di canzoni di Michael Jackson. Ha preso l’impegno di aprire il sistema politico chiuso dell’Etiopia ed è chiaramente sedotto dall’idea della popolarità.
Lo sforzo per migliorare l’ambiente che lo circonda, spiega Abiy, simboleggia la sua volontà di trasformare un paese che per quindici anni ha registrato i migliori risultati economici in Africa, ma il cui governo autoritario ha scatenato ampie proteste popolari. Nel 2018, nel suo primo giorno da premier, Abiy ha ordinato una ristrutturazione completa del suo ufficio. In due mesi un ambiente buio e austero si è trasformato in uno spazio bianco, da albergo di lusso, con opere d’arte e schermi per le videoconferenze alle pareti. I ripostigli ingombri di un tempo si sono trasformati in banche dati pulsanti di attività e al piano terra è nata una caffetteria – tutta bianca, naturalmente – dove i suoi giovani collaboratori, molti dei quali hanno studiato in occidente, possono confrontarsi e discutere nuove idee. “Voglio un ufficio futuristico”, dice. “Molti etiopi guardano al passato. Io invece guardo al domani”. Sta facendo costruire un museo digitale per celebrare la storia del paese, un parco a tema etiope e uno zoo con 250 animali: secondo lui attireranno ogni giorno migliaia di visitatori. “Questo è il prototipo della nuova Etiopia”, commenta questo ex ufficiale dei servizi segreti militari laureato in ingegneria informatica. “Rispetto ad altri miei colleghi ho già realizzato molte cose. Ma non sono neanche l’1 per cento di quelle che ho in mente”.
Un’eredità pesante
Le sue parole dimostrano preoccupazione per la situazione d’instabilità in cui versava il paese poco più di un anno fa: il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf, la coalizione di quattro partiti oggi guidata da Abiy) era in piena crisi esistenziale e si temeva una guerra civile. Abiy ha lanciato la più rapida operazione di apertura politica mai vista nella storia del paese. Ha fatto la pace con l’Eritrea. Ha liberato 60mila prigionieri politici, tra i quali tutti i giornalisti che erano stati incarcerati. Ha revocato la messa al bando di gruppi dell’opposizione che erano stati etichettati come organizzazioni terroristiche, e ha affidato metà degli incarichi di governo a donne. Si è impegnato a indire libere elezioni nel 2020 e ha scelto come capo della commissione elettorale Birtukan Mideksa, la leader di un partito dell’opposizione. In un paese dove le spie del governo erano dappertutto, oggi i cittadini si sentono liberi di esprimere opinioni che solo un anno fa li avrebbero fatti finire in prigione.
“Dice cose incredibili e poi le fa”, spiega Blen Sahilu, avvocata e attivista per i diritti delle donne, riferendosi in particolare alla pace con l’Eritrea, che ha messo fine a un conflitto ventennale. “Abiy ha dato una scossa al sistema. Aspettiamo di capire se il paese è in grado di assorbire un cambiamento simile in tempi brevi, e se lui ha riflettuto attentamente su come portarlo avanti”. Abiy infatti ha aperto la strada a nuove opportunità ma anche a nuovi pericoli. Alcuni temono che la liberalizzazione politica possa sfuggirgli di mano, sfociando nell’anarchia o aggravando le divisioni a sfondo etnico. “Sapevamo che l’euforia dei primi tempi non sarebbe durata in eterno”, dice Tsedale Lemma, direttrice del sito Addis Standard, con sede in Germania. “Tutti ora si stanno rendendo conto della triste eredità lasciata dalla precedente amministrazione dell’Eprdf”, che dal 1991 ha governato il Paese con il pugno di ferro.
La crisi sociale si è inasprita dopo le elezioni del 2015, quando l’Eprdf ha manipolato il voto in modo plateale
Non tutte le scelte fatte dall’Eprdf sono state negative. Secondo le statistiche ufficiali, per quasi quindici anni l’economia etiope è cresciuta di più del 10 per cento all’anno. Anche se fosse sovrastimata, questa crescita ha portato il pil dell’Etiopia, un paese in passato associato a fame e carestie, dagli otto miliardi di dollari dell’inizio del secolo agli 80 miliardi di oggi. L’Etiopia ha perfino superato il Kenya come prima economia dell’Africa orientale. Con l’obiettivo di imporre un modello economico dirigista ispirato alla Corea del Sud e alla Cina, il governo ha investito in strade, dighe, agricoltura, salute e istruzione. La speranza di vita degli etiopi è passata dai 40 anni del 1991 ai 65 di oggi. Le organizzazioni internazionali hanno cominciato a vedere l’Etiopia come un modello di sviluppo guidato dall’alto, il paese africano con le maggiori probabilità di replicare una trasformazione economica e sociale simile a quella avvenuta in Asia. Tutto questo, però, ha un costo. In un paese dove convivono più di ottanta gruppi etnici è cresciuta l’ostilità nei confronti dei tigrini, percepiti come l’etnia dominante anche se rappresenta solo il 6 per cento dei 105 milioni di abitanti. Il risentimento è particolarmente forte tra gli oromo, che formano un terzo della popolazione e che per lungo tempo, fino all’arrivo al potere di Abiy, si sono sentiti emarginati.
La crisi sociale si è inasprita dopo le elezioni del 2015, quando l’Eprdf ha manipolato il voto in modo così plateale che ha finito per occupare quasi tutti i seggi in parlamento. Nella regione di Oromia, che circonda la capitale, sono scoppiate proteste violente, che hanno preso di mira anche gli investimenti stranieri e i parchi industriali, il cuore dell’opera di modernizzazione voluta dal governo.
Alle rivendicazioni degli oromo si sono aggiunte quelle degli amhara, creando un’insolita coalizione: gli amhara, circa un quarto della popolazione, avevano amministrato il Paese fino a che i tigrini non avevano preso il sopravvento. Per fermare le proteste, l’Eprdf ha adottato misure repressive, dichiarando lo stato d’emergenza, incarcerando decine di migliaia di persone e ordinando alle forze di sicurezza di sparare sui manifestanti, che scendevano in piazza a centinaia, se non migliaia. Nel febbraio del 2018, mentre si moltiplicavano le voci di un’imminente guerra civile, il primo ministro Hailemariam Desalegn, il successore di Meles, ha dato le dimissioni aprendo la via alla battaglia per la successione all’interno dell’Eprdf. Dopo due giorni di discussioni è emerso vincitore Abiy Ahmed, all’epoca vicepresidente della regione di Oromia. Ignorando le obiezioni di uno dei partiti della coalizione, il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), Abiy è stato nominato presidente dell’Eprdf e quindi primo ministro, il primo oromo a ricoprire questa carica nella storia del Paese. Abiy è cresciuto in una famiglia povera composta da un padre musulmano oromo e una madre cristiana amhara. Inoltre parla il tigrino perché da giovane ha svolto parte del servizio militare nel Tigrai.
Secondo l’economista Stefan Dercon, docente della Blavatnik school of govern-ment dell’università di Oxford, il compito di Abiy è completare le riforme avviate da Meles. Se per il miracolo economico della Corea del Sud ci sono voluti 25 anni, “l’Etiopia è a metà strada”, sostiene Dercon. Abiy deve sovrintendere alla liberalizzazione politica ed economica necessaria a mantenere ritmi di crescita sostenuti per almeno dieci anni, al termine dei quali l’Etiopia dovrebbe rientrare nella categoria dei paesi a medio reddito.
Due sfide
La popolarità di Abiy è molto alta, soprattutto nella capitale, ma non tutto è andato secondo i suoi piani. Ha subìto un attentato, e il 10 ottobre un gruppo di militari è entrato con la forza nella sua residenza pretendendo di parlare con lui. “Gli ho mostrato che ero un soldato”, racconta. “Ho detto: ‘Non mi avrete ucciso prima che io sia riuscito a eliminare cinque o sei di voi’”. Poi, per dimostrare la sua virilità, si è messo a fare delle flessioni. Così il colpo di stato è stato sventato.
Spavalderia a parte, Abiy ha due sfide davanti a sé. La prima è politica. Con l’abolizione della censura e la riabilitazione di gruppi che erano stati messi al bando, alcune etnie chiedono più autonomia per le loro regioni. Si stanno formando delle milizie armate e delle bande di giovani che si comportano come vigilantes. Nella prima metà del 2018 circa 1,2 milioni di persone hanno abbandonato le loro case per sfuggire alle violenze. Il primo ministro evoca la possibilità di modificare la costituzione del 1994 e il modello di federalismo su base etnica, che secondo alcuni alimenta le rivalità tra i vari gruppi, mentre secondo altri tutela i loro diritti. Sarebbero modifiche delicate, spiega Abiy, che non possono essere affrontate senza un chiaro mandato popolare, cioè senza prima aver vinto le elezioni. Abiy vorrebbe anche adottare un sistema presidenziale, con un capo dello stato eletto direttamente dal popolo, e non dal parlamento, che è controllato dall’Eprdf. Mentre il primo ministro insiste “sull’unità della nazione e l’orgoglio nazionale”, l’idea di un’Etiopia più centralizzata non piace a chi preme, invece, per una maggiore autonomia delle regioni. Abiy ha anche preso iniziative contro i generali e gli ufficiali del Tplf. Tuttavia molti nel Tigrai le hanno interpretate come un attacco rivolto non tanto alla corruzione dei dirigenti del partito, quanto ai tigrini come gruppo.
“Ogni regione ha i suoi motivi per respingere la riforma del sistema federale”, spiega Tsedale Lemma, “e questo è pericoloso: Abiy si trova tra l’incudine e il martello”, tra la necessità di unire il paese e quella di soddisfare le richieste di autonomia regionale. Ma il primo ministro non sembra preoccupato. “Di recente a Mekele, capoluogo del Tigrai, in piazza c’era gente che m’insultava”, dice. “Ma va bene così. La democrazia è anche questo”. La sua intenzione, spiega, è ottenere la pace con la persuasione, non con le armi.
Alla fine, sostiene Abiy, se l’economia continuerà a espandersi, le tensioni si dissolveranno: “Quando si cresce, non si ha tempo per pensare ai contrasti tra le comunità”. Tuttavia mantenere la crescita sul binario giusto dipende dalla capacità di superare i problemi che da tempo affliggono l’economia etiope: l’indebitamento e una crisi valutaria apparentemente infinita, per cui l’Etiopia è in grado di coprire i costi delle importazioni per solo due mesi.
“In campo economico”, dice Abiy, “le politiche del passato ci soffocano”. Lui ha rinegoziato il debito commerciale a condizioni agevolate con la Cina e altri paesi, e ha chiesto prestiti e investimenti a governi del golfo Persico e del Medio Oriente. Nel 2018 il tasso di crescita dell’Etiopia è sceso al 7 per cento. Tra le sfide più difficili che Abiy dovrà affrontare ci sarà quella di decidere a che ritmo liberalizzare un’economia che mostra segni di rallentamento. Abiy sta portando avanti la privatizzazione del settore delle telecomunicazioni, che dovrebbe fruttare milioni di dollari. Tuttavia anche questo intervento presenta dei rischi: “Devo realizzare una privatizzazione a corruzione zero”.
Potenzialmente, una privatizzazione riuscita delle telecomunicazioni potrebbe portare a un intervento simile nel settore energetico e del trasporto marittimo, ma anche delle raffinerie di zucchero, e perfino della compagnia aerea nazionale, che ha reso Addis Abeba il primo snodo nel continente. “La sfida più grande per Abiy non è politica: sarà creare posti di lavoro”, sostiene Zemedeneh Negatu, un banchiere etiope. Con 800mila studenti iscritti all’università e 2,5 milioni di nuovi nati ogni anno, l’assenza di prospettive potrebbe presto far nascere nuove proteste.
C’è chi teme che Abiy nel lungo periodo possa finire nella lista dei politici africani che, dopo esordi promettenti, si sono trasformati in leader autoritari. Abiy esclude quest’ipotesi: quando il popolo lo vorrà, rinuncerà di buon grado al potere. “So che non potrò restare al potere per sempre. Intendo lasciare l’incarico prima o poi”. Un’altra voce gli sussurra che l’opportunità di scolpire il suo nome nella storia dell’Etiopia arriva solo una volta. “Per conquistare la popolarità dovrei fare uscire dalla povertà almeno 60 milioni di persone”, osserva. “Se ci riesco, il mio nome passerà alla storia”. (Questo articolo è uscito il 5 aprile 2019 nel numero 1301 di Internazionale. Era stato pubblicato sul Financial Times con il titolo Ethiopia’s Abiy Ahmed: Africa’s new talisman. L’11 ottobre 2019 Abyi Ahmed ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Da quando è uscito l’articolo Abyi ha compiuto 43 anni, gli sfollati in Etiopia sono diventati tre milioni e c’è stato un tentativo di colpo di stato militare il 22 giugno 2019).
Ma tutto questo non colpisce il giovane Abyi Ahmed, che Stoccolma- giustamente- ha voluto premiare con il Nobel della pace al posto della piccola Greta e del Papa (Dal Nord Europa al Papa? non lo vorranno mai! - nostra nota). Egli, sicuramente, apre speranze per il continente africano, tanto tormentato e sfruttato da tutti i paesi occidentali ed asiatici. Questo piccolo passo può aprire un sentiero largo e soleggiato per il mondo.