UNITRE

Sintesi ed approfondimenti della lezione tenuta per l?Unitre di Sondrio venerdì 22 aprile 2005 dal dott. Paolo Marchettini, Responsabile del Centro di Medicina del Dolore dell?Istituto Scientifico e Ospedale San Raffaele di Milano



1. LA TERAPIA DEL DOLORE

2. DANNI IATROGENI

3. DOLORE NEUROPATICO

4. NUOVE PROSPETTIVE NELLA TERAPIA DEL DOLORE

LA TERAPIA DEL DOLORE

John Bonica, un anestesista americano d'origine italiana
(era nato a Filicudi), iniziò la sua esperienza di medico
nella guerra del Pacifico e si rese immediatamente conto di
quanto fossero inadeguate le possibilità d'intervento
davanti al numero dei feriti ed alla gravità delle lesioni.
Anche il minimo ed essenziale intervento umanitario, lenire
il dolore dei sofferenti, era di fatto impossibile per la
totale disattenzione dei medici e delle gerarchie militari,
impegnati in altre priorità. Dopo aver ripreso la
professione a Seattle, Bonica si rese conto che neppure
nella vita civile vi era considerazione per il problema del
dolore. Le puerpere partorivano con dolore, negli ospedali i
degenti soffrivano dopo gli interventi e durante le manovre
diagnostiche, i malati di cancro spesso andavano incontro
alle fasi finali della malattia con dolori gravi ed
umilianti.

Bonica, un uomo tarchiato, che negli ultimi anni della sua
lunga ed intensa vita è andato sempre più assomigliando al
padrino dei film di Coppola, anche per via dell'inseparabile
bastone d'argento con cui sosteneva la zoppia dovuta
all'artrosi d'anca, ha compendiato le energie dell'immigrato
riuscito, il vigore del lottatore di wrestling che era stato
in gioventù per pagarsi gli studi e la vitalità del grande
Paese americano, nel momento in cui dopo la vittoria della
guerra mondiale, tutti i sogni erano possibili e le barriere
che ostacolavano una vita più umana e migliore per tutti
sembravano abbattibili. Con le sue sole forze scrisse il
libro-bibbia sul dolore, intitolato appunto "Pain". Si
tratta di un'opera mastodontica, più di tremila pagine
dedicate ai dolori relativi a tutti gli organi ed apparati,
suddivisi metodicamente secondo le malattie in ordine di
gravità e frequenza. Un lavoro enorme per un uomo solo, che
sotto molti aspetti pecca per dilettantismo o mancanza
d'approfondimento sui meccanismi fisiopatologici. E' però
un'opera storica che ha ribaltato un paradigma della
medicina: il dolore non è solo un sintomo, bensì una
malattia, non soltanto una spia di essa. Per combatterlo
Bonica, incoraggiato e sostenuto dal neurochirurgo John
Loeser, fondò la prima Pain clinic, modello e scuola per
tante altre nel mondo. Successivamente nel 1973, fu fondata
anche l'associazione internazionale per lo studio del
dolore, che conta oggi più di 6500 soci in diversi paesi,
centoquindici dei quali in Italia. Dai giorni pionieristici
di Bonica ad oggi di dolore si è parlato molto, non solo tra
medici e ricercatori (le pubblicazioni scientifiche
sull'argomento si sono moltiplicate vertiginosamente negli
ultimi dieci anni), ma anche nei media e nelle istituzioni
internazionali come l'organizzazione mondiale della Sanità,
che vi ha dedicato un dipartimento affidato a Kathleen Foley,
neurologo del prestigioso Sloan Kattering cancer Center di
New York. Dagli studi del gruppo di Foley, che ha preso in
esame il consumo minimo di morfina adeguato a lenire il
dolore da cancro e lo ha confrontato con l'incidenza di
tumori ed il consumo complessivo d'oppioidi nel mondo,
suddiviso per paese, è presto emerso che il dolore da cancro
è inadeguatamente curato ovunque, ma che in alcuni paesi non
lo è quasi per nulla.

L'Italia è stata il fanalino di coda nel consumo d'oppiodi
in rapporto all'incidenza di tumori in tutta l'Europa,
inclusi i paesi dell'est, con la sola Romania alle spalle.
Tale arretratezza nella terapia del dolore aveva molte
cause, e tante persistono, ma le più gravi perché più
facilmente rimediabili erano legislative. Va dato merito al
Prof. Vittorio Ventafridda, anestesista primario emerito
dell'Istituto dei Tumori di Milano, di aver "colto l'attimo"
e, Ministro della Sanità il suo chirurgo ed amico Umberto
Veronesi, di aver promosso con insistenza la da tempo dovuta
revisione della legislazione sulla prescrivibilità della
morfina e degli oppioidi in genere. La legge permette oggi
di prescrivere oppioidi a pazienti con dolori cronici per
malattie gravi per periodi di 30 giorni, senza dover
rinnovare la ricetta ogni sette giorni come prima. Contenuto
ancora più importante della legge è la depenalizzazione del
reato, in cui incorrevano il medico e soprattutto il
farmacista ritenuti responsabili d'errori di prescrizione o
archiviazione. Rimangono ancora sanzionabili, e con ammende
severe, ma solo secondo il codice civile, gli errori del
farmacista. E' stato anche permesso il trasporto degli
oppioidi a casa del malato, ed è quindi possibile per un
infermiere prestare le cure a domicilio senza incorrere nel
reato di trasporto abusivo di stupefacenti. Stupisce davvero
che fosse considerato quasi criminoso curare il dolore dei
malati di cancro nel nostro paese, eppure lo è stato fino a
poco tempo fa.

Nonostante la nuova legge il consumo d'oppioidi non ha però
avuto in Italia l'impennata auspicabile. Anche nella cura
del dolore l'Italia ha reagito all'italiana: la maggioranza
degli ordini dei medici non dispone ancora dei nuovi
ricettari in duplice copia per prescrizione di 30 giorni
anziché dei precedenti 7. Questo non è però il maggior
fattore limitante, l'età media dei medici di medicina
generale, a diretto contatto con i propri assistiti, supera
i 40 anni e si è perciò laureata oltre 15 anni fa, quando
l'associazione italiana per lo studio del dolore, nata nel
1976, stava ancora crescendo e si rivolgeva in ogni modo
soltanto agli specialisti cultori della materia.
L'aggiornamento di questi medici e lo scambio di vedute con
i pochi esperti di terapia del dolore è limitata dalle
restrizioni ministeriali che impediscono ai medici di
medicina generale di partecipare a congressi specialistici.


In Francia, Bernard Kouchner, insignito del premio Nobel per
aver fondato Médecin Sans Frontières, da Ministro della
Sanità si è trovato di fronte un Paese poco più avanti
dell'Italia per consumo individuale d'oppioidi e qualità
della ricerca e cura del dolore. Kouchner ha immediatamente
identificato la cura del dolore tra le priorità sanitarie
del suo mandato, ha fatto istituire nei dieci principali
istituti universitari cattedre d'insegnamento e ricerca sul
dolore ed ha dato mandato agli ospedali dipartimentali di
aprire dei centri di terapia del dolore. In soli cinque anni
le prescrizioni di analgesici in Francia si sono allineate a
quelle della Germania, che è con i paesi scandinavi quello
leader in Europa per la ricerca e la cura del dolore. In
Francia lo scambio di informazioni tra i centri universitari
ed i medici di medicina generale è più organizzato e
capillare, ma l'esempio d'oltralpe dimostra quanto sia
indispensabile un cambiamento di mentalità fondato su una
maggiore ed approfondita informazione. In aggiunta non è
sufficiente istituire insegnamenti di terapia del dolore
nelle Università, peraltro al momento non esistenti né
previsti, ma occorre informare i medici in attività dei
progressi avvenuti e delle possibilità esistenti nella cura
del dolore. Questi passi sono indispensabili per modificare
i pregiudizi e le errate impostazioni terapeutiche più
resistenti al cambiamento. Uno degli esempi più eclatanti è
la prescrizione/assunzione di analgesici al bisogno per
curare dolori persistenti o cronici, quando è invece
raccomandabile l'assunzione ad intervalli regolari, che
previene la comparsa di dolore e permette un costante
controllo con dosaggi più contenuti. Un secondo è l'abuso di
formulazioni iniettabili, non indicate nell'uso cronico e
poco indicate in generale, perché quasi tutti gli analgesici
assunti per via orale sono ben assorbiti. Un terzo è
l'eccessivo ricorso ad antiinfiammatori come analgesici di
prima linea per il dolore moderato, con conseguenti maggiori
rischi d'ulcere gastriche. Un quarto è la resistenza alla
prescrizione d'oppioidi, anche deboli, per incapacità di
controllarne gli effetti collaterali ed ingiustificati
timori di indurre resistenza. La lista è lunga e non è
questa la sede per un trattato sulla materia. Il punto è che
sarebbe illusorio descrivere le scoperte nella terapia del
dolore senza citare le cause che concorrono a limitarla.

Recentemente i responsabili della Sanità delle regioni, i
direttori delle ASL e delle strutture d'assistenza che si
sono proposte l'apertura di servizi dedicati, sono molto
impegnati nella realizzazione degli Hospice per le cure
palliative. Tuttavia questo progetto che è affrontato con
grave ritardo rispetto alla maggior parte del mondo evoluto,
pur essendo un atto d'apprezzabile impegno della Sanità
Nazionale, appartiene già al passato della terapia del
dolore.

Il dolore intenso, invalidante, il dolore che limita o
impedisce la gioia di vivere e anche i più comuni gesti
della vita quotidiana non riguarda esclusivamente i malati
di cancro in fase avanzata di malattia. Molte malattie non
mortali sono invalidanti e dolorose, molte di queste come la
nevralgia posterpetica, l'artrite reumatoide, l'artrosi
vertebrale, aumentano di prevalenza esponenzialmente con
l'invecchiamento, realtà che nel Paese con l'età media più
alta del mondo dovrebbe essere valutata con maggiore
considerazione. In aggiunta, e fortunatamente in questo
caso, il futuro della terapia dei tumori prevede uno
scenario meno tetro del presente. Sarà presto possibile
aggredirli specificamente inserendo vettori destinati alle
cellule neoplastiche ed anche impedire l'espressione dei
fattori di crescita. Il cancro non sarà ancora in molti casi
rimovibile, ma sarà meglio curabile, come molte malattie
croniche, e questo garantirà sopravvivenze per tempi lunghi.
Chi raggiungerà l'età avanzata, e saranno sempre di più
coloro che invecchieranno, andrà inevitabilmente incontro a
crescenti rischi di contrarre malattie croniche e dolorose.
Fortunatamente soltanto una minima percentuale della
popolazione italiana necessiterà di cure palliative ed
assistenza negli Hospice, al contrario molti cittadini, ed
in numero sempre crescente, avranno bisogno di curare
diversi tipi di dolori, più o meno costanti e più o meno
intensi.

Il futuro deve innanzi tutto garantire minori costi e
maggiore autonomia nelle cure, obiettivi che possono essere
raggiunti da coincidenti strategie. Sono già disponibili
nuovi antiinfiammatori a ridotta gastrolesività e
formulazioni trans-dermiche che rilasciano farmaci
analgesici, oppioidi ed antinfiammatori, in modo progressivo
e protratto. Queste possibilità terapeutiche tra breve si
espanderanno. Nuovi strumenti di somministrazione sono
all'orizzonte che permetteranno di erogare attraverso la
cute o per inalazione molecole voluminose, anche proteine
più efficaci e di lunga durata d'effetto. Nei casi di dolore
resistente alle terapie si può già oggi iniettare
direttamente morfina nel sistema nervoso centrale, vicino ai
centri nervosi d'arrivo dei segnali dolorosi. Entro uno/due
anni saranno disponibili nuovi analgesici non oppioidi
somministrabili per questa via, per trattare anche quei
pazienti che non rispondono alla morfina o non ne sopportano
gli effetti collaterali.

Questi mezzi di trattamento sono potenti, ma costosi e
richiedono perciò di rivedere il modo in cui pensiamo la
medicina. Bisogna informare sempre di più e meglio i malati,
che devono essere in grado di conoscere e prevenire i più
comuni effetti collaterali, peraltro noti e prevedibili. E'
importante offrire a chi è in terapia cronica, degli
strumenti che permettano autonomi aggiustamenti terapeutici,
nel rispetto della sicurezza per evitare sovradosaggi. E'
necessario mettere a disposizione dei cittadini in cura,
sistemi di dosaggio a distanza per via elettronica delle
dosi di farmaco assunte, per consentire la diffusione
capillare dei nuovi strumenti di terapia e non limitarli
soltanto ai residenti dei centri urbani vicini ai grandi
ospedali superspecialistici. Il medico ed il cittadino
avrebbero molto da guadagnare se il primo fosse in grado di
diventare consulente affidabile ed il secondo interlocutore
esperto. Si eviterebbe l'inutile affollamento dei servizi,
conseguente ad eccessiva ansia o tardiva valutazione dei
problemi, entrambe figlie della scarsa informazione. Medici
più capaci potrebbero dedicarsi a problemi più specifici ed
infermieri più gratificati sarebbero disponibili se fossero
sottratti alle gravose, e spesso non necessarie, fatiche
dell'assistenza. Questo si realizzerebbe perché una gestione
così impostata ridurrebbe drasticamente i ricoveri,
certamente quelli che avvengono in molti casi per il dolore,
la prima causa di richiesta d'aiuto sanitario.

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DANNI IATROGENI

Primo: non nuocere. È il principio che, dai tempi di
Ippocrate, insegna che la medicina, per quanto orientata a
ridare la salute a chi l’ha persa, in qualche caso può
provocare un danno non voluto che può aggravare la
situazione. I Greci esprimevano questa consapevolezza usando
la stessa parola per veleno e medicina (pharmacon).

Ai nostri giorni, per indicare le complicazioni, che
insorgono a seguito di un atto medico, si usa l’espressione
“danni iatrogeni”, che letteralmente significa “generati o
causati dalla medicina”.

Le scoperte degli antibiotici e dell’anestesia, insieme con
il progresso della chirurgia, hanno garantito un reale
miglioramento delle condizioni di salute dell’umanità, ma
questo successo ha anche favorito atteggiamenti
paternalistici da parte dei medici ed alimentato aspettative
non realistiche nei pazienti. La combinazione di questi
fattori, cui si aggiunge una maggior consapevolezza dei
propri diritti da parte dei pazienti, ma anche la
deresponsabilizzazione ed il rifiuto del rischio e della
morte, ha avuto effetti controproducenti nel rapporto
medico-paziente portando all’esplosione delle cause legali
cui si assiste oggi in America e, in parte, anche in Italia.

È giunto il momento di riconoscere che, per quanto la
medicina sia spesso molto efficace, tuttavia presenti, come
tutte le attività umane, dei fattori di rischio che i
pazienti devono aspettarsi. Anche i medici d’altra parte
devono mutare atteggiamento, riconoscendo che esistono
fattori di rischio legati ai propri limiti ed a quelli
strumentali ed organizzativi delle strutture in cui operano,
potranno sforzarsi di identificarli e discuterli apertamente
per evitarli e prevenirli il più possibile».

Uno studio della Harvard Medical Press, infatti, riporta che
il 70% delle complicazioni iatrogene riscontrate nel 1991, e
che hanno colpito più di 1.300.000 pazienti ricoverati negli
ospedali americani, si sarebbe potuto evitare. Una delle
cause più frequenti di iatrogenicità è l’eccessivo ricorso
ad atti diagnostici invasivi ed interventi chirurgici,
spesso non indispensabili ed a volte addirittura inutili.
Questa tendenza ad un eccesso d’aggressività è purtroppo
aumentata nell’ultimo decennio. Originariamente si tendeva
ad accusare la categoria medica di favorire le prestazioni
invasive perché più redditizie, tuttavia, anche se questo
sospetto ha una base di verità, le origini del fenomeno sono
più complesse. Gli atti invasivi e gli interventi impropri e
di pari passo anche la spesa sanitaria, sono, infatti,
ulteriormente aumentati dopo l’introduzione da parte delle
Assicurazioni sanitarie negli Stati Uniti, o dal ’95 anche
in Italia da parte del Ministero della Sanità, di nuovi
criteri di rimborso a prestazione: i DRG (Diagnosis Related
Group), che erano stati studiati ed introdotti proprio con
l’obiettivo opposto, di ridurre i costi della Sanità. Nel
nuovo sistema economico che si è venuto a creare i medici
non hanno più interessi diretti ad eseguire prestazioni
invasive, ma queste sono comunque in aumento, insieme con la
riduzione di accuratezza diagnostica, il che dimostra come
anche i responsabili della gestione economica e politica
della Sanità abbiano le loro responsabilità nell’aumento
della iatrogenesi e che questa non sia un problema
strettamente medico.

Questo tipo di gestione, che ha portato sicuramente una
maggiore efficienza nello sfruttamento dei tempi, tuttavia
aumenta la possibilità che, per la riduzione dei criteri di
selezione pre-operatori, la decisione di sottoporre un
determinato paziente ad un intervento chirurgico non sia
ponderata con la dovuta attenzione.

«È certo che, sedotti dal potere della scienza e delle nuove
tecnologie», continua il dottor Marchettini, responsabile
del centro di Medicina del Dolore dell’Istituto Scientifico
San Raffaele, gli specialisti già in precedenza abbiano
delegato la responsabilità diagnostica, cardine dell’arte
medica. Di questa rinuncia al valore della riflessione
diagnostica sono stati però ulteriormente responsabili anche
quelle istituzioni deputate al rimborso sanitario (negli
Stati Uniti le assicurazioni, in Italia il Ministero della
Sanità), che hanno privilegiato le prestazioni chirurgiche
rispetto a quelle diagnostiche. Favorire l’atto
chirurgico-terapeutico, ossia la precedenza dell’azione
sulla ragione, ha sicuramente amplificato la iatrogenesi.
Per restituire sicurezza all’azione medica, quindi, è
necessario in primo luogo ripristinare il valore culturale
ed economico dell’atto diagnostico.

Quando poi l’intervento sia stato adeguatamente ponderato e
giudicato necessario è di fondamentale importanza
identificare le cause più comuni delle complicanze
chirurgiche. Prendendo ad esempio il caso del dolore da
lesione nervosa, che purtroppo riconosce almeno nel 40 % dei
casi cause iatrogene, si possono identificare particolari
interventi più a rischio di altri. Esaminando la casistica
di 12 anni di attività del Centro di Medicina del Dolore del
San Raffaele, presentata al recente congresso mondiale di
Vienna dell’International Association Study of Pain, abbiamo
riscontrato che le lesioni nervose iatrogene si ripetono con
sorprendente costanza», spiega a questo proposito il dottor
Marchettini. «Tra le cause più frequenti ci sono le lesioni
ai nervi del collo causate dalle biopsie dei linfonodi
cervicali, quelle ai nervi ascellari, provocate da
interventi sulla mammella, e quelle ai nervi genitali,
causate dalle plastiche inguinali. Ma anche una banale
asportazione delle vene varicose non di rado provoca lesioni
dei nervi delle gambe. Paradossalmente anche le ultime,
sofisticate tecniche endoscopiche poco invasive, utilizzate
particolarmente per interventi sul polso (tunnel carpale) e
sulle ginocchia (artroscopia), causano più lesioni nervose
di quanto non facessero precedentemente gli interventi
tradizionali». Non tutte le colpe, però, sono da attribuire
al “bisturi selvaggio”: spesso le circostanze del danno sono
inevitabili. Infatti, solo nel 5-10% dei casi una lesione
iatrogena provoca dolore, mentre il più delle volte si
verifica una perdita di sensibilità più o meno completa: per
questa ragione, prevenire e riconoscere le nevralgie è
oggettivamente difficile dato che lo stesso tipo di trauma
non provoca conseguenze gravi nella maggior parte dei
pazienti. Le complicanze provocate involontariamente dai
medici tendono così a essere sottovalutate, anche perché il
dolore può apparire a distanza di tempo dal momento della
lesione e quindi non essere immediatamente riconducibile ad
essa».

Cose può essere fatto, allora, per limitare queste
preoccupanti conseguenze? «In primo luogo, evitare
interventi rischiosi quando non siano strettamente
necessari», insiste l’esperto, «molti pazienti affermano che
se avessero potuto immaginare i dolori cornici che stanno
soffrendo non si sarebbero mai sottoposti all’intervento.
Questa considerazione deve indurre a riflettere quando si
sta valutando l’ipotesi d’interventi minori, cosmetici o non
indispensabili. Le possibili complicanze iatrogene
dovrebbero poi essere sempre menzionate nel richiedere il
consenso informato. Un paziente informato accetta
responsabilmente e consapevolmente di assumersi un rischio
che in parte non dipende dalla competenza e capacità
professionale del medico».

Un grosso sforzo per ridurre questo dramma è fatto in questi
tempi dalla ricerca. In base a esperimenti per ora eseguiti
soltanto sui ratti, sembrerebbe possibile prevenire la
comparsa delle lesioni nervose bloccando completamente i
nervi con anestetici locali al momento del trauma. In questo
studio sugli animali, il pre-trattamento anestetico locale
previene completamente l’insorgenza d’iperattività del
sistema nervoso centrale e di cambiamenti nel comportamento
delle cellule nervose che costituiscono una specie di
“memorizzazione” del dolore. Sebbene l’applicazione clinica
di questa metodologia richieda prove più stringenti
attraverso ricerche sull’uomo, il potenziale effetto di
protezione dell’anestesia locale negli interventi in cui c’è
il rischio di lesioni ai nervi vale la pena di essere
indagato ulteriormente.

DOLORE NEUROPATICO

Nel corso dell’internato clinico in neurologia durante gli
ultimi anni di università, frequentavo il laboratorio di
elettromiografia e fui esposto per la prima volta alla
bizzarria del dolore neuropatico. Pazienti con lesione
nervosa, per lo più gravi lombosciatalgie, neuropatie
diabetiche e sequele di herpes zoster, lamentavano intensi
dolori con qualità e caratteristiche particolari,
localizzati nei territori cutanei in cui la sensibilità era
alterata, in alcuni casi quasi assente. Non di rado
l’intensità del dolore pareva sproporzionata all’entità
della lesione nervosa e spesso l’esame elettromiografico
mostrava poche alterazioni, contrariamente a quanto imparavo
a riconoscere nelle neuropatie motorie, nelle quali l’esame
sempre mostrava anormalità, che anticipavano spesso i
principali segni clinici. Ricordo in particolare un paziente
con dolore radicolare in esiti di laminectomia, tra i primi
ai quali eseguii personalmente l’esame ad ago dei muscoli,
che riferiva un intenso dolore provocato dallo sfregamento
dei peli della gamba malata. Paradossalmente tollerava meno
lo strofinamento superficiale della penetrazione dell’ago,
che riferiva meno dolorosa nei muscoli denervati rispetto a
quelli sani. La mia totale ignoranza delle manifestazioni
cliniche del dolore neuropatico m’impedì di diagnosticare il
mio primo caso di allodinia, il dolore evocato da stimoli
normalmente non dolorosi, che nel caso specifico non si
associava ad iperalgesia, condizione in cui il dolore
anormalmente intenso è provocato da stimoli adeguati ad
evocare dolore. La mia formazione di neurofisiologo proseguì
all’università di Madison Wisconsin, dove fui esposto allo
studio dei primi pazienti con dolore neuropatico da lesione
nervosa periferica. Il progetto di ricerca cui partecipavo
aveva lo scopo di registrare, mediante microelettrodi, le
attività elettriche anormali delle fibre sensitive di
pazienti con dolore neuropatico. Alcuni anni prima Wall e
Gutnik avevano documentato che il neuroma d’amputazione
sperimentalmente prodotto nel ratto diventava la sede di
generazione di impulsi nervosi anormali, la così detta
attività ectopica, e vi erano fondati presupposti per
ritenere che il dolore neuropatico provocato da alcune
lesioni nervose fosse conseguente ad un’anormale attività
spontanea degli assoni sensitivi. Tre anni di ricerche e
centinaia di registrazioni produssero risultati positivi, ma
complessivamente deludenti. Fu possibile registrare attività
nervose ectopiche nei nervi lesi (e, fatto particolarmente
interessante, anche in alcuni casi che avevano un esame
elettroneurografico convenzionale ancora normale), ma il
successo era raro ed in molti pazienti con dolore
neuropatico l’esame risultava normale. In alcuni casi le
registrazioni neurofisiologiche confermavano il sospetto che
il dolore neuropatico (ed anche gli altri disturbi sensitivi
positivi non dolorosi come le parestesie) fosse prodotto da
un’instabilità elettrica degli assoni sensitivi che
tendevano a depolarizzarsi spontaneamente in sedi diverse
dal recettore (attività per questo definita ectopica), ma
nella maggioranza dei casi non si riusciva a scoprire
un’anormalità elettrica.

Sull’onda dell’entusiasmo creato dalla teoria del cancello
di Melzack e Wall, formulata nel 1968, che per la prima
volta offriva un’ipotesi testabile sulla genesi del dolore
neuropatico, negli anni 70-80 si moltiplicarono
esponenzialmente i finanziamenti e gli anni 80 furono
particolarmente fervidi per la ricerca sul dolore
neuropatico, che attrasse molti neurofisiologi sperimentali.
Gli studi sull’animale permisero di scoprire i fenomeni di
sensibilizzazione centrale. Le lesioni sperimentali del
nervo periferico (sezioni complete o parziali, oppure
strozzamenti mediante legatura), oltre all’anormale attività
negli assoni periferici producevano anche la comparsa
d’attività spontanea nei neuroni del midollo spinale ed
addirittura nel talamo e nella corteccia. In aggiunta i
neuroni sensitivi del midollo spinale e del talamo (neuroni
sensitivi di secondo e terzo ordine) manifestavano un
aumento della frequenza e della durata delle scariche in
risposta alla stimolazione periferica. Questo fenomeno
anormale si verificava curiosamente anche in risposta ad
impulsi apparentemente del tutto normali provenienti dall’assone
periferico. Si tratta di un’alterazione permanente nel
comportamento dei neuroni spinali e cerebrali che richiede
un cambiamento a lungo termine del programma di scarica, che
è geneticamente strutturato per essere normalmente
proporzionato all’intensità dello stimolo periferico. Studi
successivi hanno effettivamente dimostrato che se nel
momento in cui avviene la lesione nervosa periferica si
verificano particolari condizioni di eccitabilità la cellula
di secondo ordine non soltanto scarica a frequenza elevata
proporzionale a quella periferica, ma superata una
determinata soglia di scarica, diventa permeabile anche a
ioni calcio oltre che a ioni sodio. Gli ioni calcio inducono
l’attivazione di geni che modificano per tempi lunghi o
anche permanentemente il comportamento cellulare. Il
risultato registrabile di questa sequenza di reazioni è
un’elevata attività di scarica nervosa della cellula di
secondo ordine in risposta anche a basse frequenze di
scarica del neurone periferico. Il fenomeno è
sorprendentemente analogo a quello che si verifica nelle
cellule dell’ippocampo e che sottende la formazione della
memoria. Molti incontri scientifici sui meccanismi del
dolore neuropatico sono, in effetti, intitolati “la memoria
del dolore” per esemplificare quanto i cambiamenti a lungo
termine responsabili del dolore neuropatico cronico
costituiscano una forma di ricordo patologico. La scoperta
dei fenomeni di sensibilizzazione centrale e delle
modificazioni a lungo termine delle caratteristiche di
risposta delle cellule spinali e cerebrali consente di
comprendere alcune caratteristiche complesse del dolore da
lesione nervosa quali l’allodinia, l’anestesia dolorosa, il
dolore fantasma dell’amputato, la ricomparsa del dolore dopo
rimozione del neuroma periferico. In tutti questi casi il
dolore, generato originariamente da una lesione periferica,
viene mantenuto ed anche in alcuni casi amplificato da
alterazioni di funzione del sistema nervoso centrale.

Il dolore centrale. Il dolore neuropatico non origina
soltanto da lesioni del sistema nervoso periferico, ma può
anche essere il risultato di lesioni dirette del midollo,
del tronco cerebrale o dell’encefalo. Anche nel dolore da
lesione del sistema nervoso centrale (definito dolore
centrale) si può riscontrare anestesia dolorosa e dolore
evocato da stimoli. Le lesioni spinali o cerebrali per
essere dolorose devono compromettere necessariamente la via
spinotalamica, che è la via di trasmissione degli stimoli
dolorosi. In tutti i pazienti con dolore centrale si possono
identificare delle alterazioni nella percezione del dolore,
del caldo e del freddo. Il dolore centrale può esordire
contemporaneamente al verificarsi della lesione nervosa, ma
di norma la sua comparsa è ritardata rispetto alla lesione.
In alcuni casi può comparire a distanza di molti mesi, anche
un anno. Si crede perciò che il dolore centrale sia
anch’esso conseguente ad un’iperattività neuronale, che può
apparire nella fase di recupero delle funzioni cellulari,
similmente a quanto si verifica in alcuni casi d’epilessia
post traumatica. Lo stimolo non doloroso più spesso
responsabile dell’allodinia nelle lesioni del sistema
nervoso periferico è lo strofinamento, mentre nel dolore
centrale è più comune il dolore evocato da stimoli termici,
soprattutto freddi. Il dolore in questi casi può assumere
qualità paradosse, con sensazioni di bruciore evocate dal
freddo e progressivamente crescenti, anche in assenza di
costante contatto, a causa della perdita di circuiti
inibitori indispensabile all’estinzione delle percezioni
normali ed alla naturale assuefazione. Dopo l’esperienza
americana mi trasferii a Stoccolma ed ebbi l’opportunità di
collaborare con Ulf Lindblom, il maggior esperto di disturbi
della sensibilità, che aveva messo a punto uno strumento per
la quantificazione delle soglie sensitive per gli stimoli
termici. Utilizzando questi strumenti ebbi modo di
documentare alcune caratteristiche alterazioni della
percezione termica in pazienti con lesioni dolorose del
sistema nervoso centrale, che se non ben analizzate
potrebbero essere interpretate come manifestazioni
psicopatologiche. In alcuni casi i pazienti per esempio sono
incapaci di riconoscere uno stimolo caldo, ma appena aumenta
di poco la temperatura, improvvisamente avvertono bruciore.
In altri casi il freddo viene immediatamente percepito come
bruciore o dolore profondo. Frequenti poi sono le
alterazioni del reclutamento temporale: il primo stimolo
viene percepito quasi normalmente, ma la discriminazione
degli stimoli successivi è alterata, per cui il paziente
avverte il singolo stimolo caldo o freddo, ma non discrimina
più ulteriori variazioni degli stimoli successivi che non di
rado sono percepiti unicamente come dolorosi. Fenomeni del
genere non sono dovuti alla disattenzione o scarsa
collaborazione del paziente, ma specifica conseguenza della
lesione spinotalamica e comunemente presenti in pazienti con
esiti di ischemia o emorragia cerebrale, trauma midollare o
sclerosi multipla che lamentano dolore centrale.

In aggiunta ad essere complicato nelle sue manifestazioni
sintomatiche il dolore centrale è anche difficile da
trattare. Il controllo del dolore naturale, il cosiddetto
dolore da attivazione dei recettori del dolore (nocicettori)
avviene, infatti, mediante farmaci che riducono l’intensità
della scarica afferente dei nocicettori oppure mediante
farmaci che aumentano l’attività inibitoria. A parte la
possibilità di eseguire un’anestesia locale, la prima
categoria di farmaci è principalmente costituita dagli
analgesici antiinfiammatori, la seconda categoria è invece
costituita dagli oppioidi ed anche da alcuni antidepressivi
con azione noradrenergica. Nel dolore neuropatico
l’alterazione è situata prossimalmente al nocicettore,
perciò non vi è spazio terapeutico per gli antiinfiammatori,
fatta salvo una loro parziale e limitata azione centrale.
Purtroppo anche gli oppioidi sono meno efficaci di quanto
siano nel dolore nocicettivo, perché il loro sito d’azione è
principalmente il neurone spinale, (la cellula sensitiva di
secondo ordine situata nel corno posteriore) e questo
neurone riduce la quantità dei siti recettoriali per gli
oppioidi quanto aumenta cronicamente l’attività di scarica.
Il neurone iperattivo rimane sensibile all’inibizione
noradrenergica e perciò un farmaco molto utilizzato è l’amitriptilina,
ma questa via inibitoria non è quasi mai sufficiente da sola
a controllare la maggior parte dei dolori neuropatici. Nel
dolore neuropatico i farmaci più efficaci sono i bloccanti
dei canali ionici, che inibiscono la depolarizzazione
neuronale. Si utilizzano sia bloccanti dei canali del sodio
che del calcio. I bloccanti dei canali ionici non sono
un’unica categoria farmacologica, svolgono questa azione gli
anestetici locali, alcuni antiaritmici e gli antiepilettici.
Purtroppo non tutti i farmaci farmacologicamente efficaci
hanno una pratica efficacia clinica. La lidocaina per
esempio è probabilmente il farmaco più efficace per curare
il dolore neuropatico, ma il suo impiego è limitato dalla
necessità di somministrazione endovenosa, la mexiletina
invece non e clinicamente molto utile perché le dosi
efficaci producono una vasodilatazione eccessiva con effetti
collaterali da ipotensione arteriosa. Come categoria gli
antiepilettici sono in genere i farmaci più efficaci per
curare il dolore neuropatico, ma anche in questo caso il
rapporto tra efficacia ed effetti collaterali è molto
variabile tra i diversi prodotti. Anche la tollerabilità
differisce molto da paziente a paziente perché, come ci
insegnano le recenti scoperte di farmacogenetica, esistono
notevoli variazioni genetiche per quanto riguarda
l’espressione del citocromoQ su cui questi farmaci
interferiscono. Il farmaco approvato dalla tradizione, ossia
introdotto nell’uso clinico prima che vi fossero requisiti
molto precisi per l’autorizzazione all’impiego in definite
condizioni cliniche, è la carbamazepina, mentre l’unico
farmaco ufficialmente approvato per la cura del dolore
neuropatico è la gabapentina. La carbamazepina è meno
costosa e rimane il farmaco di prima scelta per i dolori
lancinanti ed episodici, quali per esempio la nevralgia
trigeminale o i parossismi della sclerosi multipla. Una
valida alternativa a questo prodotto, è il suo derivato
oxcarbazepina. Per quanto riguarda le altre forme di dolore
neuropatico la gabapentina è attualmente il farmaco di
riferimento, anche se la sua efficacia sembra maggiore nel
controllo del dolore neuropatico periferico rispetto al
dolore centrale. Considerando le notevoli variazioni di
risposta individuale è sempre utile adattare la posologia di
questi farmaci al risultato clinico ed agli effetti
collaterali, raggiungendo anche dosi elevate, seppur con
aumenti lenti e graduali. Nel caso di insuccesso si devono
prendere in considerazione quale alternativa terapeutica
praticamente tutti gli altri antiepilettici di nuova
generazione, perché vi sono pazienti che rispondono
esclusivamente ad uno di questi farmaci e non agli altri. È
perciò necessario armarsi di pazienza e ricercare con cura
un possibile risultato anche dopo ripetuti fallimenti. È
utile anche ricordare che nel dolore neuropatico un
obiettivo realistico è la riduzione del dolore ad intensità
tollerabili, purtroppo la risoluzione completa rimane
attualmente un risultato eccezionale e non la regola. Per
questo motivo farmaci che siano stati parzialmente utili
vanno tenuti in considerazione e riprovati eventualmente a
dosi maggiori, quando al termine di numerosi tentativi si
fallisse il risultato inizialmente sperato. In questi casi
con dolore invalidante vanno prese in considerazione le
tecniche di neuromodulazione, la stimolazione spinale e
l’infusione di farmaci direttamente nello spazio liquorale,
queste procedure si eseguono nei centri di terapia antalgica
dopo stretti criteri di valutazione preoperatoria.

NUOVE PROSPETTIVE NELLA TERAPIA DEL DOLORE

Sono più di 880 i farmaci per la terapia del dolore citati
in Internet. I principi attivi sono però solo un centinaio,
distinguibili in poche categorie: analgesici non
antiinfiammatori, antiinfiammatori non steroidei (FANS),
oppioidi narcotici, analgesici centrali non narcotici e/o
adiuvanti. FANS e oppioidi hanno come capostipiti l'aspirina
sintetizzata dal 1875 e la morfina sintetizzata dal 1806. Le
sostanze naturali contenenti salicilati ed oppioidi sono
usati per curare i dolori da molti secoli. Quest'apparente
staticità farmacologica non corrisponde agli enormi
progressi di conoscenza avvenuti in questo campo, che hanno
radicalmente cambiato l'approccio terapeutico. In primo
luogo è stato riconosciuto che il dolore cronico può essere
conseguente a modificazioni dell'espressione genetica di
recettori del sistema nervoso e che va curato in modo
specifico e diverso dal dolore acuto. In altre parole i
farmaci efficaci nel controllo del dolore acuto, gli
antiinfiammatori e gli oppioidi, non sono altrettanto
efficaci nella cura del dolore conseguente a modificazioni a
lungo termine delle vie nervose, in cui si riducono i
recettori per gli oppioidi ed aumentano i recettori per
altri mediatori. Per questo motivo è diventato fondamentale
porre una diagnosi del tipo di dolore per impostare la
corretta terapia. In secondo luogo si comincia a
riconoscere, grazie a studi sul metabolismo cerebrale, che
la percezione ed elaborazione del dolore, e anche la sua
inibizione mediante trattamenti come l'agopuntura,
coincidono con l'attivazione di molteplici sedi corticali.
Queste osservazioni avvallano la base organica di controlli
inibitori genericamente considerati "placebo", o fenomeni
emotivi privi di substrato biologico. È oggi assodato che
l'apparato sensitivo per la percezione del dolore è
costituito da un insieme di strutture nervose in grado di
trasmettere e percepire, ma anche inibire, addirittura
sopprimere, o all'opposto amplificare, l'intensità della
percezione di stimoli che in ultimo sono definiti
"dolorosi". Per questo motivo i centri mentali della
cognizione possono generare dolore in assenza di stimoli
nocicettivi. Questo dolore, genericamente definito
psicosomatico, è realmente "percepito e vissuto", ma non è
curabile con gli analgesici disponibili.

Il dolore nocicettivo acuto è percepito quando stimoli
sufficientemente intensi attivano i terminali specializzati
di cellule nervose chiamate nocicettori. Il nocicettore
emette impulsi elettrici di frequenza proporzionale
all'intensità dello stimolo. I segnali raggiungono sinapsi
con cellule nel midollo spinale dove liberano sostanza P ed
aminoacidi eccitatori. Le cellule spinali hanno recettori
specializzati (i NK1 per la sostanza P e i recettori AMPA
per gli aminoacidi) e reagiscono allo stimolo producendo
impulsi diretti ai centri nervosi superiori, che in ultimo
elaborano la sensazione di dolore. Le cellule spinali, però,
producono una risposta soltanto se sono pronte ad essere
eccitate e se lo stimolo periferico ha intensità di
frequenza e durata adeguate. In normali condizioni le
cellule spinali non trasmettono al cervello tutti gli
stimoli che ricevono, ma solo quelli di intensità
soprasoglia. Vi è, infatti, una via nervosa che mantiene le
cellule spinali parzialmente inibite, mediante il rilascio
di diversi neuromediatori: noradrenalina, serotonina, acido
gamma aminobutirrico, cannabinoidi endogeni, e soprattutto
endorfine, che inibiscono neuroni sui quali si legano anche
i farmaci oppioidi. Le endorfine e gli altri mediatori
inibitori impediscono al cervello di ricevere gli stimoli
dolorifici esterni potenziando il "filtro" spinale. L'azione
di "filtro" spinale varia tra individui e nei diversi
momenti della vita. Può anche essere modificata da stati
mentali come l'esperienza, l'eccitazione e lo stato
dell'umore.

Nel dolore nocicettivo acuto e subacuto il nocicettore, può
rimanere attivo anche dopo la rimozione dello stimolo
nocicettivo. Se lo stimolo è abbastanza intenso provoca il
rilascio di mediatori chimici algogeni contenuti nei tessuti
traumatizzati o nello stesso nocicettore. Sostanze algogene
sono le prostaglandine, la sostanza P, l'istamina, le
citochine e anche il calcio ed il potassio o fattori di
crescita rilasciati dai tessuti sofferenti o dalle cellule
dell’infiammazione. Gli algogeni protraggono l'eccitazione
del nocicettore e lo rendono anche più sensibile agendo su
specifici recettori per i vanilloidi (VR1 e VRL1), situati
sulla membrana neuronale. In alcune malattie infiammatorie
croniche, come per esempio la colite ulcerosa, i recettori
per i vanilloidi aumentano di numero. Durante la fase
dell'infiammazione, il nocicettore è eccitabile anche da
stimoli nocicettivi di soglia molto bassa, una condizione
definita di "iperalgesia primaria". Il nocicettore libera le
proprie sostanze algogene quando gli stimoli nocivi sono
sufficientemente intensi da attivare oltre ai recettori AMPA,
anche un altro recettore sensibile ad un aminoacido
eccitatorio, il recettore per il N-metil-destro-aspartato (NMDA).
L'iperalgesia primaria è una naturale reazione
dell'organismo, che previene il ripetersi di lesioni nella
stessa sede, rendendo questa più sensibile.

In condizioni eccezionali, quando la lesione colpisce le vie
nervose, lo stato d'iperalgesia non si risolve. Il recettore
NMDA ha un potenziale di membrana che è reso dalla presenza
di ioni Mg2+; se la frequenza di scarica del nocicettore è
eccezionalmente elevata, a depolarizzazione si protrae e gli
ioni Mg2+ escono dai canali ionici, che rimangono liberi e
lasciano entrare Ca2+ all'interno del recettore, dando
inizio ad una cascata di reazioni che ne modificano in modo
protratto ed anche per sempre il comportamento. In questi
casi l'attivazione del recettore per il NMDA libera altre
sostanze eccitatorie (glutammato, fosfochinasi C, Nitrossido,
c-FOS), che attivano dei geni a breve termine i quali
amplificano l'espressione, ossia l'eccitabilità, del
recettore NMDA. Lo stato d'eccitazione della cellula nervosa
amplifica l'apertura di canali ionici permeabili al sodio ed
al calcio. Attualmente si conoscono almeno 8 distinti canali
del sodio all’interno del sistema nervoso. Queste profonde
modificazioni sulla membrana neuronale possono ridurre (down-regulation)
alcuni sottotipi di canali del sodio o aumentare altri (up-regulation),
che si concentrano nella sede di lesione. Contemporaneamente
si riducono numero ed espressione dei neurotrasmettitori
inibitori. In particolare, aumenta la produzione nei neuroni
sensitivi di colecistochinina, un inibitore endogeno
dell'espressione dei recettori per gli oppioidi, che è
perciò ridotta. Questo dolore cronico, definito neuropatico,
è spesso associato ad ipersensibilità al dolore ed a dolore
evocato da stimoli normalmente non dolorifici ("iperalgesia
secondaria", o "allodinia"). Nei pazienti con dolore
neuropatico non è più possibile intervenire bloccando i
mediatori dell'infiammazione in periferia, perché
l'alterazione si trova nel sistema nervoso, in aggiunta i
farmaci oppioidi sono poco efficaci perché la sensibilità
dei recettori dell'inibizione è ridotta.

Quali sono quindi i farmaci disponibili per il dolore
nocicettivo e quali quelli per il dolore neuropatico e quali
sono le prospettive per il futuro?

I FANS controllano il dolore inibendo la sintesi delle
prostaglandine e limitando infiammazione ed iperalgesia. La
loro azione è prevalentemente periferica, anche se
inibiscono in parte le risposte dei neuroni centrali. Sono
la categoria di farmaci più prescritta al mondo per la loro
azione analgesica, antipiretica ed antiinfiammatoria, ma il
loro uso e non infrequente abuso è spesso responsabile
d'ulcere gastroduodenali, ed è la prima causa di morte per
emorragia gastrica. Nei casi in cui lo scopo principale
della terapia è il controllo del dolore e non la riduzione
dell'infiammazione, sarebbe preferibile fare uso di un
analgesico non antiinfiammatorio meno gastrolesivo come il
Paracetamolo. I FANS possono anche complicare
un'insufficienza renale, specie se assunti
contemporaneamente ad altri farmaci che causano un danno
renale, come i chemioterapici. L'azione terapeutica, e
purtroppo anche gli effetti collaterali dei FANS, sono
conseguenti all'inibizione dell'enzima cicloossigenasi,
necessario alla sintesi delle prostaglandine. La scoperta
che esistono diverse isoforme di enzima cicloossigenasi (COX),
di cui la COX-1 principale responsabile del danno gastrico e
la COX-2 più espressa nelle sedi di infiammazione, ha
portato alla sintesi di prodotti che inibiscono in modo più
selettivo possibile la COX-2. Gli d'inibitori COX-2
selettivi rappresentano un importante passo avanti nella
ricerca farmacologica. Per questo motivo, quando sono stati
introdotti in clinica la promozione è stata entusiastica ed
ha generato aspettative superiori alla realtà. Gli inibitori
COX-2 selettivi si sono dimostrati anch'essi gastrolesivi,
anche se 50 % meno dei meno gastrolesivi tra i FANS
convenzionali. Purtroppo la tossicità renale degli inibitori
COX-2 è sovrapponibile a quella degli altri FANS. L'attesa
per il FANS ideale è ancora lunga, tuttavia il percorso di
ricerca è già tracciato, nel breve termine saranno
disponibili inibitori COX-2 selettivi che liberano
Nitrossido (NO), un mediatore importante delle difese
gastriche.

Gli oppioidi, pur avendo anche un'azione periferica, che è
interessante per l'eventuale impiego locale di questi
farmaci, esercitano la potente azione antalgica inibendo la
nocicezione spinale, ed in minor parte migliorando la
tollerabilità del dolore mediante l'effetto euforizzante.
Gli oppioidi hanno ciclicamente goduto di vasta diffusione e
di restrizioni nel corso dei secoli. Contrariamente
all'opinione comune, non sono farmaci tossici, anzi sono ben
tollerati anche da malati in gravi condizioni generali.
L'effetto pericoloso degli oppioidi è l'inibizione del
centro del respiro fino all'apnea. Gli oppioidi sono però
temuti per il rischio che i loro effetti psicomimetici
(inducono un senso di benessere e d'euforia), inducano
all'abuso ed alla dipendenza. Gli effetti collaterali
preoccupanti comuni sono piuttosto l'arresto dei movimenti
intestinali fino alla paralisi, il prurito diffuso dovuto a
stimolazione dei centri nervosi responsabili per questa
sensazione, la nausea ed eventualmente il vomito persistente
e, nei pazienti in terapia cronica, anche l'inibizione della
funzione della ghiandola ipofisi, con conseguente riduzione
della produzione dell'ormone della crescita e degli ormoni
sessuali, con maggior rischio d'osteoporosi, impotenza o
arresto del ciclo mestruale e perciò infertilità. La ricerca
sugli oppioidi ha avuto nuovo slancio dopo il 1975, quando
furono scoperte le endorfine, dei peptidi contenuti nel
cervello umano dotati d'azione oppioido-simile. Dopo la
sintesi delle endorfine sono stati scoperti anche i
recettori del sistema nervoso su cui esse e gli oppioidi
agiscono. In successione sono stati identificati diversi
recettori: ? 1, ? 2, ?, ? e ?. Tutti i diversi recettori
oppioidi sono espressi nei centri nervosi responsabili del
controllo del dolore, ma alcuni sono più specificamente
correlati a certi effetti collaterali. I recettori ? 1,
inducono analgesia, euforia, prurito, nausea e stipsi, i ? 2
depressione del respiro, dipendenza e bradicardia, i ?
analgesia, modificazioni dell'umore e nausea, i ? analgesia
spinale, sedazione e miosi, i ? disforia e allucinazioni. I
farmaci oppioidi in uso clinico hanno tutti azione mista e
soprattutto genericamente sono ? agonisti. Per questo motivo
il limite attuale dell'analgesia con oppioidi rimangono gli
effetti collaterali, che sono proporzionali alla potenza
analgesica.

Per identificare gli effetti di un blocco totale dei
recettori oppioidi sono stati preparati topi transgenici
privi di recettori. Questi topi transgenici si alimentano,
crescono e si riproducono come topi normali e presentano
naturali risposte d'evitamento degli stimoli nocivi.
Differiscono dai topi normali soltanto per una ridotta
attività sessuale ed un ridotto tempo di transito
intestinale. La loro normale risposta agli stimoli dolorosi
è un esempio della plasticità del cervello dei mammiferi,
che in mancanza di una via nervosa elabora funzioni
alternative, ad ulteriore dimostrazione di quanto sia
complesso il sistema nervoso deputato alla percezione del
dolore. La preparazione di farmaci oppioidi almeno
parzialmente selettivi per il controllo del dolore, rimane
la strategia principale della ricerca. Nell'attesa di
isolare farmaci specifici per alcune sottoclassi di
recettori ?, si stanno testando gli effetti d'inibitori
selettivi dei recettori ?, meno potenti, ma potenzialmente
responsabili di minori effetti collaterali. Un'altra
strategia è potenziare l'azione d'altri inibitori del
dolore, come i cannabinoidi endogeni, riducendone il
catabolismo. L'Anandamide è un lipide endogeno con deboli
effetti sui recettori per i cannabinoidi che viene
rapidamente catabolizzato dall'enzima FAAH, un idrolasi
delle amidi ed acidi grassi. È stato dimostrato che i ratti
transgenici senza questo enzima sopportano meglio il dolore.
Gli inibitori del FAAH potrebbero avere azione antalgica
priva d'effetti collaterali.

Come anticipato FANS ed oppioidi non sono efficaci nel
controllo del dolore neuropatico. In questa condizione le
cellule nervose sono "iperattive" e rispondono meno al
controllo inibitorio. L'iperattività neuronale può essere
ridotta limitando la permeabilità al passaggio degli
elettroliti responsabili della depolarizzazione nervosa.
Farmaci che bloccano i canali del calcio e del sodio si sono
dimostrati utili nella cura del dolore neuropatico. Questi
farmaci appartengono a diverse categorie: sono anestetici
locali, antiaritmici, vasodilatatori, e antiepilettici. Di
questi gli antiepilettici sono i più efficaci nel controllo
del dolore neuropatico e l'impiego degli antiepilettici di
nuova generazione nella cura di queste drammatiche
condizioni di dolore cronico ha realmente cambiato le
possibilità terapeutiche. Dopo una lunga fase di
sperimentazione, legata a seri effetti collaterali con
disturbi cognitivi ed amnesia, è stata recentemente
approvata per uso clinico una molecola dotata d'attività
antalgica che, essendo una proteina, deve però essere
somministrata direttamente nel sistema nervoso. Questa
sostanza, derivata dalle conotossine naturali, veleni
prodotti da lumache marine, si è dimostrata più potente
della morfina nella cura del dolore da cancro. Nonostante
gli effetti collaterali e la complessità di somministrazione
le conotossine rappresentano una nuova frontiera nella
terapia del dolore perché agiscono bloccando i canali
calcio, un sito d'azione comune ad altri antiepilettici
efficaci nel controllo del dolore neuropatico. Certamente
tutti questi farmaci causano inibizione dell'attività
nervosa normale, con effetti indesiderati come sonnolenza,
sedazione, riduzione dell'attenzione o anche della memoria e
anche in questo campo la ricerca è impegnata ad identificare
sostanze con azioni più mirate.

La cura del dolore neuropatico rappresenta un tema di grande
interesse per la ricerca farmaceutica, in primo luogo per
l'importanza di curare i pazienti colpiti da condizioni
croniche che oggi non sono curabili in modo adeguato, ma
anche per i contenuti di conoscenza collegati. Quando si
disporrà di efficaci e selettivi inibitori del recettore
NMDA, nel futuro si potrà "modulare" la risposta nervosa
agli stimoli nocicettivi per impedire il processo di
sensibilizzazione, e per esempio, si potrà ridurre il dolore
post-traumatico e post operatorio utilizzando meno oppioidi
e FANS di quanto sia oggi necessario.

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Paolo Marchettini


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Paolo Marchettini
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