L’INGRESSO UFFICIALE NELLA DIOCESI DI COMO-SONDRIO DEL VESCOVO DIEGO COLETTI - L’OMELIA
Care sorelle e cari fratelli,
non vi nascondo la trepidazione e l’intensità dei sentimenti che provo in questo momento. La vostra presenza e la vostra cordialità mi danno conforto e vi ringrazio molto per questo.
Il distacco dalla terra e dalla gente che ho servito ed amato per sei anni non è facile, ma l’obbedienza alla volontà di Dio che si è manifestata attraverso la Chiesa mi dà pace.
La diocesi che mi accoglie, la sua grandezza e complessità, la sua storia ricca di santità e di buone tradizioni, i problemi che l’attraversano e la preoccupano sono ormai da qualche settimana al centro dei miei pensieri e del mio cuore. Non è cosa facile diventare vostro Vescovo dopo un serie di pastori tra i quali non sono mancati dei grandi santi come il nostro Abbondio. Non è facile raccogliere l’eredità di un servizio così ricco di intelligenza e di amore appassionato come quello del vescovo Teresio e del vescovo Alessandro, per limitarmi agli ultimi due, alla preghiera dei quali affido con filiale confidenza questa nuova fase della vita della diocesi.
Ma vi guardo e il mio timore si trasforma in consolante fiducia. Sento la vostra presenza amica ed accogliente. Mi pare di avvertire la vostra disponibilità a condividere la responsabilità e la gioia di un fedele servizio al Vangelo. A partire dai laici, uomini e donne: siamo tutti a servizio e a sostegno del vostro sacerdozio battesimale; per andare al grande dono che lo Spirito fa alla Chiesa attraverso la presenza di coloro che hanno risposto alla chiamata ad una speciale consacrazione: religiose e religiosi, consacrati nella vita contemplativa, nel servizio ai poveri, nell’educazione dei piccoli, nella testimonianza profetica dei grandi valori del Vangelo, nelle varie forme della secolarità… Per giungere fino ai miei diretti fratelli nella successione apostolica, i Vescovi qui presenti che ringrazio per la loro vicinanza, e soprattutto i presbiteri e i diaconi impegnati nel servizio della Diocesi.
Ecco: vorrei che sapeste che già da qualche tempo e soprattutto da oggi in avanti non avrò altro scopo né altro proposito se non quello di mettermi a vostro servizio per amore del Signore. È la sua parola che mi ha tratto dalla palude di una vita senza senso ripiegata su me stesso; è il suo Spirito che mi ha fatto sentire l’amore del buon pastore come fine ultimo per orientare tutte le mie forze; devo fare in modo che i miei progetti, le mie speranze e i miei desideri siano, senza riserve e senza condizioni, orientati solo alla crescita e alla gioia della vostra fede. Questo non toglie nulla al mio amore per Gesù, perché egli non è il primo e il più amato, come se fosse semplicemente in cima alla lista. Egli è l’unico amato, nel senso che ogni altro amore, ogni altra dedizione e dono di sé sono iscritti nell’orizzonte del nostro amore per Lui, da tale amore traggono la forza e l’orientamento decisivo, in tale amore affondano le radici e da esso traggono la linfa vitale per esprimere fedeltà e fecondità. Più ci amiamo tra noi, quindi, come Egli ci ha comandato di fare e più alto e profondo sarà il nostro amore per Gesù e più intensa ed efficace sarà la presenza in noi del dono della grazia, cioè dello Spirito Santo che è Signore e ci dà la vita.
Sullo sfondo di queste considerazioni, vorrei ora meditare con voi sulla Parola che abbiamo ascoltato nelle letture della Messa, prendendo spunto, in particolare, da tre espressioni della pagina del Vangelo di Luca che è stata appena proclamata.
1. Oggi si è adempiuta questa Scrittura
La prima parola che Gesù pronuncia nella sinagoga di Nazareth, dopo aver letto la pagina del profeta Isaia che è andato a cercare nel rotolo della Scrittura e che noi abbiamo ascoltato domenica scorsa, è la parola “oggi”.
Il popolo d’Israele custodiva gelosamente nel proprio passato la memoria delle parole profetiche, e guardava al futuro nutrendo la speranza del compimento delle promesse del Signore. Il protrarsi dell’attesa richiedeva una grande pazienza, in mezzo alle contraddizioni della storia, ed esponeva al pericolo di ridurre la memoria ad un nostalgico ricordo sempre più sfumato e deludente, e la speranza a un vago desiderio mai appagato e, alla fine, illusorio.
Gesù viene in questo contesto e dice “oggi!”.
La sua presenza è il compimento delle antiche promesse contenute nella Scrittura ed è l’anticipo della futura pienezza dei beni messianici: una buona notizia per i poveri, la liberazione per i prigionieri, la vista per i ciechi, il sollievo per gli oppressi…
Gli occhi di tutti, nella sinagoga di Nazareth, stanno fissi su di lui e la gente può finalmente vedere la salvezza preparata dal Signore davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti, e gloria d’Israele.
Gesù Cristo viene oggi, fa oggi il suo ingresso nella storia di questo popolo di Dio; egli è l’adempimento, la pienezza del tempo, la venuta del Regno, la via, la verità e la vita. Egli salva il nostro passato dalla nostalgia e dal rimpianto, e salva il nostro futuro dalla sterile illusione e dall’inevitabile sua conseguenza: la delusione e lo scoraggiamento.
Tutto questo avviene “oggi”: la forza d’immediata concretezza contenuta in questa parola dovrebbe aiutarci a leggere in profondità quanto stiamo insieme celebrando. L’Eucaristia è il rinnovarsi nel nostro “oggi”, adesso e qui, della presenza del Signore che si offre per noi nel suo supremo gesto d’amore e così porta a compimento le promesse del passato e ci indica la strada del futuro.
La nostra umanità sembra avere un bisogno crescente di questo rinnovamento. Essa soffre di una povertà di memoria e di passato, in una cultura senza radici, ripiegata su se stessa, senza riferimenti e senza profondità d’esperienza, ed è così in molti casi anche povera di futuro, priva del coraggio della speranza, incapace di assumerne l’impegno e la fatica, chiusa nella ricerca di una soddisfazione che si accontenta dell’attimo fuggente e del suo immediato consumo.
Il nostro tempo, a ben vedere l’unico “oggi” che ci è dato di vivere, viene così frantumato in una dispersione insensata di momenti singoli, vissuti da individui isolati, senza legami, senza relazioni impegnative; o meglio viene “liquefatto” in una forma sempre cangiante e sempre ripresa daccapo, senza alcuna stabilità, senza un’identità precisa, senza un nome, una vocazione, un impegno per il quale valga la pena di affrontare la benedetta fatica di vivere da persone umane.
Abbiamo bisogno dell’”oggi” di Gesù.
All’inizio dell’essere cristiano, ci ha ricordato il Papa nell’enciclica “Deus Caritas Est”, non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
È l’incontro che viene reso a noi disponibile nella liturgia, in questo nostro “oggi”: l’incontro mio e vostro con il Signore Gesù che spezza il suo Corpo e sparge il Sangue della nuova ed eterna alleanza per noi.
La comunità cristiana non ha altro compito nella storia dell’umanità se non questo: portare al mondo la testimonianza di una speranza che non delude fondata sulla presenza di Gesù nella sua forma di Crocifisso vittorioso sul male e sulla morte.
Il vescovo, amico di Gesù e da lui mandato come gli apostoli, non ha altro compito se non quello di annunciare questo “oggi” e di far vivere questa testimonianza.
2. … ed erano meravigliati… e furono pieni di sdegno
La presenza della persona di Gesù e la sua parola manifestano una sorprendente novità a proposito della verità di Dio e della nostra relazione con Lui.
Egli va ben oltre i luoghi comuni della religione costruita sul buon senso umano; quella religione alla quale ci si riduce inevitabilmente tutte le volte che si perde il contatto vivo e sconcertante con la Parola: tutto diventa abitudine e comoda rassegnazione all’imprevedibile; si resiste ad ogni cambiamento impegnativo che richieda cioè qualche forma di impegno alla nostra libertà; si costruiscono confini e sbarramenti tra i buoni e i cattivi; si esige sempre e soltanto che Dio faccia qualcosa di buono per me, altrimenti a che cosa serve essere fedeli osservanti della sua volontà?
Anticipando la manifestazione della piena verità di Dio, che avrà il suo compimento proprio sulla Croce, Gesù a Nazareth invece delude le attese di questo modo di pensare e di vivere: si rifiuta di compiere miracoli; parla di un Dio, che pure i suoi interlocutori dovevano conoscere, che riserva i suoi doni straordinari a vedove pagane e a lebbrosi che vengono dalla Siria, e manda i suoi profeti anche là dove troveranno difficile accoglienza, anzi manda il suo Figlio quando sa che i peccatori cercheranno di toglierlo di mezzo anche con la violenza.
Un Dio che accetta di entrare fino in fondo nelle contraddizioni di un’umanità segnata dal peccato, per riscattare i prigionieri e gli oppressi, affrontando lo sdegno di coloro che si ritengono persone per bene e che non accetteranno la sua dimestichezza con i pubblicani e i peccatori, la sua frequentazione dei lebbrosi e dei poveri, la sua misericordia e la sua mitezza, e anche la sua intransigenza rivolta con parole infuocate contro l’ipocrisia e la falsa religiosità dei farisei.
Nella pagina del vangelo di Luca che stiamo meditando, come sapete, siamo alle prime battute della predicazione di Gesù, eppure ci troviamo già in qualche modo alla fine; i suoi compaesani vogliono ucciderlo! La sua verità crea scandalo e provoca contraddizione e rifiuto, anche violento. Un rifiuto totale, così come totalizzante e definitiva è la luce che si è accesa sulla verità di Dio. Un rifiuto che non deve sorprenderci o meravigliarci, se pensiamo che il cuore umano, anche il nostro cuore, pur non essendo incapace di accogliere con gioia lo svelamento ultimo di quella verità, è spesso ripiegato su se stesso, nella ricerca di altre sicurezze e di altri motivi di fiducia e di speranza. Preferiremmo un Dio trionfatore, che si compromette soltanto con i suoi amici e con coloro che hanno accumulato meriti di fronte a Lui con le proprie forze, meriti e forze che vengono così considerati come la vera garanzia della salvezza della propria vita.
E invece il Dio di Gesù ci dice che l’unica garanzia è il suo amore misericordioso e gratuito, preveniente e senza condizioni, quello che rende Dio “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” e ci chiama ad essere, anche noi, perfetti come Lui in questa perfezione e non in altre. Se no, non facciamo nulla di più di quanto non facciano i “peccatori”.
Si capisce allora perché volevano gettarlo giù dal precipizio. Non c’è operazione più pericolosa di quella che tenta di togliere al cuore umano sicurezze pacificamente acquisite per quanto false, e lo invita a cambiare, avventurandosi con fiducia sulla via dell’amore gratuito, incondizionato e definitivamente compromettente.
Quando si intraprende questa operazione si rischia la vita, anche perché questo non può essere fatto solo con un discorso, ma va accompagnato dalla testimonianza di una vita completamente donata e fedele fino alla fine, fino al compimento, fino alla morte e, se necessario, alla morte di croce.
Essere cristiani può voler dire qualcosa di meno di questo?
Testimoniare il Signore Gesù risorto può essere una cosa diversa dal rispondere all’invito di amare così come Lui ci ha amato e ci ama?
Pare che questo sia il comandamento nuovo, il “suo” proprio comandamento! Quello della nuova ed eterna alleanza, che non abolisce la legge antica, ma la porta verso un salto qualitativo e verso il suo definitivo compimento.
Ci chiederemo come svolgere questo compito in una cultura, come la nostra, nella quale pare che tutto debba essere ridotto a transazioni commerciali, a patti di mutuo vantaggio e interesse, pronti a saltare fuori dal patto tutte le volte che l’interesse cessa. E si riduce così tutto a garanzie perpetue di uscite laterali di sicurezza ogni volta che l’impegno diventa (o sembra diventare) non più redditizio e vantaggioso.
Non è forse questa la mentalità, anche religiosa, con la quale si scontra Gesù nella sinagoga di Nazareth quando intuisce che il solo modo di accattivarsi le simpatie della gente e di rappresentare per loro un Dio accettabile e credibile è quello di moltiplicare i miracoli a loro vantaggio?
Continueremo ad affrontare insieme queste ed altri simili domande; e ci aiuteremo gli uni gli altri a dare risposte efficaci e a tenere alta la qualità della testimonianza delle nostre comunità e, attraverso di essa, l’offerta di una speranza che non delude, messa gratuitamente a disposizione di ogni realtà umana.
Cosa dovrebbe fare un Vescovo, se non mettersi a servizio di questo stile nuovo e sconvolgente di amore, l’unico capace di rivoluzionare in modo autentico il mondo, l’unico capace di dare la buona notizia decisiva ai poveri, di liberare gli oppressi e di aprire gli occhi a ciechi?
La “carità”, l’amore della nuova alleanza sullo stile dell’amore crocifisso e vittorioso del Signore, è l’unica forza in grado di far crescere nelle nuove generazioni un’umanità migliore, di ridare giustizia e pace ai popoli, di contrastare in modo efficace le derive disumane della storia e i percorsi del male in tutte le sue forme; l’unica capace di sconfiggere la disperazione e la depressione attraverso l’esperienza di una vita così sovrabbondante da superare ed assorbire in sé perfino la morte!
3. le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca…
Lo stupore degli abitanti di Nazareth, dei compaesani di Gesù, si concentra, ci dice il Vangelo, sulle “parole di grazia” che uscivano dalla sua bocca. Citando il profeta Isaia, egli infatti ha parlato dell’annuncio di “un anno gradito al Signore Iddio” e forse ha commentato tale annuncio mostrando come ciò che è gradito al Signore sia il perdono, la riconciliazione, la riparazione delle offese, la paziente costruzione della pace, vale a dire l’insieme dei beni che il popolo d’Israele si aspettava da un anno giubilare.
Le parole di grazia, se le prendiamo sul serio, non cessano di meravigliare anche noi. La loro traduzione in termini di “agape”, di carità, che abbiamo ascoltato da san Paolo nella seconda lettura ce ne offrono un provvidenziale ed autorevole commento.
La carità, forma incarnata nella vita di Gesù Cristo dell’amore trinitario che è l’identità stessa di Dio, ci viene quindi segnalata come l’orizzonte ultimo della vita, il suo livello massimo di verità, la sua piena salvezza dal non senso e dal fallimento, in questa vita e per l’eternità.
L’obbedienza alla logica indicata da questa parola rende adulta la nostra vita. Abbiamo bisogno di comunità adulte, in questo senso.
Il mondo ne ha bisogno più di quanto non abbia bisogno di altri beni pur necessari alla vita.
Abbiamo bisogno di comunità fatte di fanciulli quanto a malizia, ma di adulti quanto a prudente discernimento e a qualità e profondità della relazione di amore vicendevole e rivolto a tutti, a partire dai piccoli e dai poveri, da coloro insomma che ne hanno maggiore bisogno.
Costruire comunità di questo tipo, o meglio assecondare il potente lavoro dello Spirito santo di Gesù che plasma e anima tali comunità, è un compito formidabile, e insieme urgente ed entusiasmante.
Vorrei qui citare un passo tratto dal messaggio conclusivo del Convegno di Verona che mi pare descriva per sommi capi ma anche in modo essenziale il compito della comunità cristiana, testimone di Gesù risorto speranza del mondo:
“Non ci tiriamo indietro di fronte alle grandi sfide di oggi: la promozione della vita, della dignità di ogni persona e del valore della famiglia fondata sul matrimonio; l’attenzione al disagio e al senso di smarrimento che avvertiamo attorno e dentro di noi; il dialogo tra le religioni e le culture; la ricerca umile e coraggiosa della santità come misura alta della vita cristiana ordinaria; la comunione e la corresponsabilità nella comunità cristiana; la necessità per le nostre chiese di dirigersi decisamente verso modelli e stili essenziali ed evangelicamente trasparenti”.
Molte cose avremmo da dirci, e ce le diremo, su ciascuna di queste sfide che l’oggi di Dio rivolge alla comunità dei discepoli del Signore, ed altre ne poteremmo individuare per proseguire l’elenco. Ma questo testo è sufficiente per renderci consapevoli della vastità del compito che ci attende. E anche della sua bellezza.
Si tratta comunque di un compito che potrebbe far nascere nel mio e nel vostro cuore un comprensibile timore.
Ma Dio, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, si rivolge al profeta e gli dice: “non spaventarti, io ti ho stabilito profeta per le nazioni; io ti conoscevo prima ancora di formarti nel seno materno; ecco, oggi io faccio di te come una fortezza; io sono con te per salvarti”.
All’inizio del mio servizio apostolico alla crescita e alla gioia della vostra fede mi muovo dunque sulla fiducia che voi ed io condividiamo in queste parole.
Vi chiedo di essere con me, tutti voi preti diaconi religiosi religiose e laici, collaboratori e corresponsabili di questa missione; vi chiedo fin d’ora di accogliere questo invito con generosità e con fiduciosa passione: non c’è cosa più bella e importante nella quale impegnare tutte le nostre forze; non c’è speranza più grande né dono più prezioso da offrire alle persone che il Signore ci chiede di servire e di amare in nome suo.
Seguiamo dunque l’invito del profeta Geremia e, cinti i fianchi per intraprendere un nuovo tratto di cammino, proclamiamo al mondo intero “la via migliore di tutte”, affinché tutti coloro che ascolteranno abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
+ Diego Coletti
Vescovo della Diocesi di Como-Sondrio