QUESTIONE DICO: 4) INDAGINE ISTAT (5.1.2006): IL PATTO INTERESSEREBBE NON PIÙ DI 10MILA COPPIE
In modo apparentemente casuale, è riesploso nelle scorse settimane l’ormai annoso dibattito sulle cosìddette "coppie di fatto", o "libere unioni" come sarebbe più preciso definirle. Per l’ennesima volta, però, i promotori di quella che viene di volta in volta definita "una battaglia di civiltà", un "progresso nella tutela dei diritti", una "lotta contro le discriminazioni", si guardano bene dall’indicare in modo credibile e scientificamente fondato la dimensione quantitativa del fenomeno, lasciando intendere – crediamo intenzionalmente – che il fenomeno abbia ormai dimensioni imponenti, tali da riguardare milioni di persone. Ecco perché – al di là e prima di ogni altra considerazione – non è affatto inutile porci una domanda tanto semplice quanto basilare: ma qual è in Italia la reale consistenza delle "unioni libere"? di cosa stiamo veramente parlando?
La risposta a queste domande è da un lato abbastanza semplice, dall’altro più complessa e articolata, fino a fornirci qualche indicazione sulla consistenza qualitativa del fenomeno. Se prendiamo gli ultimi dati diffusi dall’Istat relativamente al fenomeno in generale, il discorso sarebbe presto chiarito: «Nel 2002-2003 le libere unioni sono 564.000 … il 47,2% è formato da coppie di celibi e nubili». Quindi, la situazione fotografata dall’Istat è la seguente: in Italia le convivenze sono poco più di mezzo milione (su oltre 22 milioni di nuclei); di queste, meno della metà sono coppie veramente libere, mentre nelle altre coppie almeno un componente deve fare i conti con una precedente esperienza matrimoniale conclusasi con una separazione o un divorzio. Si tratta quindi di un fenomeno nient’affatto così rilevante, anzi tuttosommato ancora abbastanza esiguo: complessivamente solo il 3,9% del totale delle coppie (sottolineiamo: delle coppie, non dei nuclei famigliari) italiane.
Come mai allora l’impressione generale è che il fenomeno sia molto più diffuso, ed anche la semplice esperienza personale spesso ci presenta una realtà in cui queste forme di unione appaiono in forte crescita? In effetti, il discorso è più complesso, e va specificato in base soprattutto a due parametri: l’anno di matrimonio e l’area geografica di appartenenza. Se prendiamo le coppie italiane secondo l’anno di matrimonio, si nota nel corso degli ultimi decenni una crescita rilevante delle coppie che prima del matrimonio hanno fatto l’esperienza della convivenza: se solo l’1,4% dei matrimoni celebrati prima del 1974 era stato preceduto da una convivenza, tale quota sale al 9,8% tra il 1984 e il 1993, al 14,3% tra il 1994 e il 1998, e raggiunge il 25,1% dei matrimoni più recenti, dal 1999 al 2003 (vedi tabella 1 in rosso). Quindi, se sul totale delle coppie italiane i conviventi sono ancora pochi, nondimeno bisogna segnalare come rilevante il numero delle coppie che – pur attualmente sposate – hanno in precedenza avuto una o più convivenze.
La ripartizione geografica accentua ancora di più questa tendenza, almeno in alcune aree: come possiamo notare sempre dalla tabella 1, il dato relativo alle esperienze di convivenza nel Nord-est e nel Nord-ovest è di circa 9 punti (il trenta per cento) superiore alla media nazionale, mentre al Sud si nota una diffusione molto più bassa, addirittura in calo nell’ultimo quinquennio. Allo stesso modo, si può segnalare come nel contesto urbano-metropolitano ha luogo una maggiore diffusione delle convivenze rispetto ai comuni di medie e piccole dimensioni (32,2% contro 21,4% nei comuni fino a 10.000 abitanti, per i matrimoni contratti nell’ultimo quinquennio).
Sempre dalle indagini Istat è possibile ricavare altri dati molto interessanti: «La crescita delle convivenze prematrimoniali per chi ha già avuto una prima esperienza matrimoniale è stata molto rilevante: dal 17,5% tra chi ha contratto nuove nozze prima del 1974 al 67,6% dei secondi e terzi matrimoni celebrati nell’ultimo quinquennio. Anche la durata della convivenza è differente tra chi convive senza essersi mai sposato in precedenza (un paio di anni) e chi ha invece già avuto una esperienza coniugale alle spalle (quasi quattro anni per le persone sposate tra il 1993 e il 2003): ciò è in parte dovuto all’attesa dell’espletamento delle pratiche burocratiche necessarie alla celebrazione delle nuove nozze... Aumentano anche le convivenze in cui almeno uno dei partner era in attesa di una sentenza di divorzio (dal 5,4% al 17,5%), mentre coloro che erano contrari al matrimonio continuano a rappresentare un’esigua minoranza (circa il 2%)» .
Se passiamo poi ad operare un confronto diacronico sul numero totale delle convivenze presenti in Italia, possiamo notare da un lato come – dopo una stasi alquanto prolungata, con una presenza veramente poco significativa – nello scorso decennio siano più che raddoppiate (vedi tabella 2 in blu), passando dall’1,6% del totale delle coppie al 3,9%, ma dall’altro come i numeri assoluti restino ancora esigui. Analogamente, all’interno di questo dato va sottolineato il peso percentualmente più significativo assunto dalle libere unioni di celibi e nubili, ma anche il fatto che queste restano ancora minoritarie; così come va registrato un lieve consolidarsi della tendenza alla stabilità: tra le coorti più anziane, ben il 35,6% delle convivenze non superava i sei mesi, mentre tra quelle più giovani tale quota raggiunge appena l’11,6%; crescono, viceversa, anche se non di molto, le unioni libere che hanno raggiunto i quattro anni o più (dal 21,8% al 28,7%), anche se circa la metà delle coppie conviventi (precisamente il 49,7%) è deciso a sposarsi sin dall’inizio della convivenza.
Da questi dati si possono ricavare quindi alcune interessanti conclusioni: in Italia le convivenze, diversamente ad esempio dai Paesi del Nord Europa, sono per la stragrande maggioranza un passaggio verso il matrimonio, e un’alternativa allo stesso solo per un’infima minoranza di casi; la presenza e quindi la visibilità di questo tipo di convivenze è comunque notevole, soprattutto nelle fasce di età più giovani e nell’Italia del Centro-Nord, e giustifica quindi l’impressione generalizzata (ma che è solo un’impressione) che le convivenze siano in forte crescita; è altamente probabile che la stragrande maggioranza delle coppie conviventi risolva da sola il problema delle supposte (e tutte da dimostrare) discriminazioni di cui sarebbero oggetto semplicemente sposandosi; una quota rilevante di conviventi è tale perché in attesa di regolarizzare la propria posizione giuridica a causa di un precedente matrimonio.
Per riprendere la domanda iniziale, allora, le convivenze in Italia sono tante o sono poche? Abbiamo detto più sopra che coloro che pongono la questione della "tutela" delle coppie conviventi come una sorta di "emergenza nazionale", normalmente si guardano bene dal fornire dati precisi e attendibili. Con una lodevole eccezione: il professor Massimo Livi Bacci, uno dei massimi demografi italiani, che pur essendo personalmente favorevole all’introduzione di un istituto simile ai Pacs francesi, ha avuto l’onestà intellettuale di riconoscere che «il numero di queste coppie, in Francia, si aggira sui 2,5 milioni, circa il quadruplo dell’Italia, dove un’indagine Istat nel 2002-03 ne ha stimate 564.000. È vero che la tendenza è alla crescita – all’inizio degli anni ’90 queste erano appena 200.000 – soprattutto nel Centro-nord e nelle grandi città, ma le dimensioni del fenomeno sono ancora modeste. Se si estendesse l’esperienza francese all’Italia, non più di 10-15.000 coppie farebbero ricorso al nuovo istituto nei primi anni ».
Sarebbe già qualcosa se, nel discutere delle implicazioni giuridiche, etiche e sociali delle proposte sul tappeto, non si ignorassero o non si distorcessero i dati reali del problema. Così, probabilmente, le cose riacquisterebbero il loro giusto peso e il loro vero valore.
é-famiglia – Avvenire – Pietro Boffi