Tarabini. Una sconfitta datata non 27 ma 14 giugno

Tarabini. Una sconfitta datata non 27 ma 14 giugno.

La sua uscita dalla Provincia non è datata 27 giugno 2004 ma 14 giugno 2004 quando lo scrutinio, dopo quello “europeo” della sera prima, ha visto profilarsi e poi sostanziarsi il risultato da lui – come dichiarato ai giornali – non previsto, vale a dire il ballottaggio con il sen. Provera e non, come ipotizzato alla vigilia, con il dr. Tognini.


In tante situazioni ma in particolare in una campagna elettorale é buona norma, come negli scacchi che sono più che un gioco una proiezione della vita, fare tutte le ipotesi, anche le meno realistiche, prima di impostare la propria strategia e di pensare le mosse tattiche. Questo porta ad essere pronti così a fronteggiare eventuali imprevisti, anzi a cercare di prevenirli. Chi scrive di campagne elettorali ne ha dirette tredici. Uno dei compiti più difficili era regolarmente quello, all’inizio, di convincere i collaboratori diretti a “perdere un po’ di tempo” per analizzare ipotesi che venivano regolarmente prese, le prime volte, come “astruserie” o cose del genere. Poco alla volta queste difficoltà sparirono perché ci si rese conto che qualcuna di quelle “astruserie” magari non era proprio tale. Quando si è scoperto che averne tenuto conto all’inizio era stato vincente si è capito che quello era il metodo giusto. Capitava magari di analizzare 10 eventualità per vedere poi che se ne verificava solo una, ma c’era il piccolo particolare che a priori non si sapeva quale delle 10 si sarebbe realizzata. E per quella che succedeva c’era già pronta la risposta, per non parlare poi delle misure che si potevano prendere per anticipare altre eventualità.

In questo caso le variabili erano solo due, Tognini e Provera, ma con le subordinate dovendosi valutare l’incidenza nel quadro generale di altri sei candidati alla Presidenza della Provincia. Saggezza politico-organizzativa avrebbe pertanto voluto che si valutassero altre eventualità, a cominciare, ad esempio, dalla posizione assunta dall’UDC - che valeva un 8% valendo doppio un voto che da una parte si leva e dall’altra si aggiunge – e dalle altre liste


Nella logica “semplificata” il risultato era scontato

Nella logica semplificata, ammessa dallo stesso sen. Tarabini, di una previsione che il ballottaggio sarebbe stato tra i due “T” entrambi con il finale in “ini”, il voto pareva fin superfluo dato il largo margine esistente non certo rimontabile dal candidato del centro-sinistra, per quanto persona di assoluta dignità e di larga stima. Risultato considerato scontato, come ad esempio agli europei, secondo illustri commentari sportivi, scontato che la finale fosse Italia-Francia…

Fosse stata considerata invece anche l’ipotesi “Provera”, e quindi considerato il voto non una formalità o quasi, qualche arma da giocare Tarabini l’avrebbe avuta così come qualche mossa da fare. Almeno sul piano teorico.

All’omissione di analisi aggiungasi la stranezza di una campagna elettorale non condotta dalla coalizione. La dichiarazione del segretario di FI in campagna elettorale, “sono quaranta giorni che non sento Tarabini”, le pagine di resoconto dell’attività a Palazzo Muzio targate soltanto Tarabini e Popolari Retici, altri aspetti ulteriori sono gli indicatori di una scelta, per quanto inconsapevole e forse per difetto di esperienza politico-organizzativa, della “via alla sconfitta”. La logica, ma le stesse esigenze organizzative tipiche di una campagna elettorale, avrebbe voluto che il candidato alla Presidenza, non appena ufficializzata la candidatura – e a maggior ragione considerata la via tortuosa, e fuori provincia, alla quale ci si è arrivati – convocasse una allargatissima riunione delle liste di appoggio, fissando linee politiche, operative, organizzative unitarie. Lo stesso dopo il primo turno.

Si può dire che la coalizione abbia retto al primo turno con un cedimento non da poco dei soli Popolari Retici, in parte rilevante – anche se non è stato rilevato da nessuno – dovuto alla personalizzazione che ha portato molti a votare il solo candidato-Presidente . Al primo turno c’erano però in ballo i simboli delle varie liste da votare e, per quel che riguarda la partecipazione al voto pure influente, il richiamo sempre forte delle contemporanee elezioni comunali in 61 Comuni su 78, richiamo che ovviamente non c’era più al secondo turno. Cosa è successo? Per Tarabini, probabilmente sulla base del dato statistico più che dimezzato al secondo turno con un modestissimo esito finale (16427 voti in tutto rispetto ai 33035 del primo turno mentre a Provera sono andati 38568 rispetto agli iniziali 29049) si è trattato “di una manovra ai suoi danni”. Non seguiremo né questa via né quelli che dicono che in realtà la manovra c’è stata prima del varo delle liste ed ha riguardato la sua candidatura imposta da Roma e Milano. Vedremo invece le cose da un altro punto di vista più documentalmente serio all’inizio della parte dedicata al sen. Provera.

Tornando alle ragioni di un risultato numericamente éclatante, nelle dimensioni e nello scarto rispetto a quello del primo turno, va ricordata una dichiarazione del Presidente Tarabini che lamentava di non essere riuscito a far conoscere il lavoro fatto durante il mandato. Una cosa che i suoi stessi alleati gli hanno rimproverato: due conferenze-stampa in 5 anni, nessun ufficio-stampa, rapporti scarsissimi con i mass-media. Questo è vero, ma non sarebbe cambiato molto. Occorrerebbe andare più a fondo per trovare i due punti deboli, figli entrambi di una sua personale concezione del principio della delega: la scarsa collegialità sotto il profilo politico e la scarsa collegialità nei rapporti con la cosiddetta società civile. Punti, questi due e quello precedente, del tutto controproducenti visto che hanno, in definitiva, oscurato anche aspetti positivi dell’uomo e della sua attività, come Presidenza e della stessa Giunta.
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