Oh, Armenia! - Arshile Gorky
In questa grande confusione politica- economica dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, figuriamoci se qualcuno si ricorda che Papa Francesco è andato in Armenia per ricordare il loro terribile genocidio del 1915 e far sentire loro l’appoggio e la disponibilità dei loro fratelli cristiani- Ma l’Armenia non è un'altra da noi, anche se è più vicina alla Russia e sempre perseguitata dai turchi. In modo particolare, abbiamo avuto sempre nel cuore l’Armenia per alcuni fatti. Il primo: mio figlio Enrico mi portò a casa una sua coetanea dell’Accademia di Belle arti che non aveva più un posto dove dormire ed io l’aiutai a comporre la tesi di laurea (lei l’italiano lo masticava appena e per una tesi…) fino a che fu promossa con 99(!!!), data la sua perfetta padronanza della nostra lingua! La portai in giro con me per ricevere appoggi anche materiali, in un convegno dove c’era Don Antonino Bello, ma la gente non si commosse tanto alle sue disgrazie di esiliata da Erevan, così accettò l’invito di una sua parente in Canada e partì. Da allora, non ho mai più saputo niente di lei. Spero che si sia realizzata e che sia felice. Poi nel 2013 alla Mostra del cinema di Venezia, abbiamo visto il film Vodka Lemon del regista curdo Hiner Saleem, che ci mostra l'Armenia in un'ottica alternante tra cruda realtà e favolistica felicità, comunque sempre racchiusa in un complessivo scenario di decadimento, testimoniato dalla costante presenza della neve, in attesa del disgelo. Ci commosse tanto questo Vodka Lemon che approvammo in pieno il Premio che il film ricevette dalla Giuria internazionale della sezione "Controcorrente" a Venezia 2003.
Ma quello che ci è rimasto nel cuore, anche a distanza di anni e se proprio nessuno l’ha nominato durante la visita del papa Francesco così poco se stesso sotto quegli orribili ed antichi baldacchini che si rifanno ad un cristianesimo che non c’è più, è il pittore- poeta Arshile Gorky, di cui accenniamo la biografia.
Arshile Gorky
Si chiamava Vosdanig Adoian ed era nato il 15 aprile 1904, o 1903, oppure 1905, a Khorkom, nell'Armenia ch'era parte del fatiscente impero ottomano. Infanzia tra campi e armenti. Il trauma dell'abbandono da parte del padre, emigrato in America a cercare pane e sopravvivenza, gli fece perdere, per qualche tempo, la parola. Rimasto con la madre Shushan e due fratelli, fu travolto dalla storia: l'annessione alla Russia, il genocidio degli armeni, la rivoluzione sovietica, la grande guerra, l'emigrazione forzata tra Armenia e Turchia, miseria, fame, perdita d'ogni certezza. Infine perdita della madre, spentasi d'inedia nel 1919: “Un momento di bruciante tragedia personale intrecciato nell'arazzo della più vasta catastrofe nazionale”. Raggiunta Bat'umi, sul Mar Nero, e su una barca di profughi Costantinopoli, e di qui, via Atene e Napoli, finalmente con la sorella Vartoosh, arriva nel 1920 in America, dal padre operaio. Le lezioni di disegno a Boston, la scoperta di una straordinaria abilità, il passaggio da studente ad insegnante, l'immedesimazione con i pittori da cui imparare, “ero con Cézanne, adesso sto con Picasso”, i primi quadri, l'inizio della ricostruzione d'una propria identità, la firma apposta a un paesaggio urbano, nel 1924, con uno pseudonimo che sarà il suo nome, o quasi: “Arshele Gorki”. Poi, con l'ultima correzione ortografica, l'emergere di un creatore della pittura americana: Arshile Gorky.
Certo in Gorky, il pittore che prese il surrealismo parigino e lo trasformò nell'espressionismo astratto americano, la biografia sembra spiegare tutto. Come diceva un altro armeno-americano, William Saroyan, citato da Mattew Gale, la diaspora armena ha sempre avuto a che fare con “terremoti, guerre, massacri, carestie”. Ma gli orrori caucasici, attraversati con pena e fatalismo di gioventù, non si vedono nei quadri di Gorky: prima ancora che per la loro importanza, le sue composizioni di “creature biomorfiche ed erotiche”, come le definisce Jackie Wullschlager sul “Financial Times”, sbalordiscono per la loro bellezza, quasi fossero oggetti da toccare, accarezzare, morsicare. No, benché la biografia conti moltissimo, c'è qualcosa di più profondo che possa spiegare la freschezza, l'originalità, la fantasia artistica di Gorky. Ma che cosa? La ricostruzione dell'identità di Gorky, a cominciare dal nome, fu complessa e ingenua. Si diceva cugino di Maximin Gorky, lo scrittore rivoluzionario russo, per nascondere le sue origini provinciali, forse senza sapere che pure quello era uno pseudonimo, che in russo significa “amaro”. D'altronde non conosceva che poche parole di russo, così come non aveva mai messo piede in Francia, dove vantava di avere studiato, o in altre città dove pretendeva d'essere stato allievo di Kandinskij. L'unica città europea che aveva conosciuto, per un solo giorno, era stata Napoli, scalo sulla via dell'America. Si sentiva un outsider, sia socialmente che sessualmente, eppure i surrealisti (“Gente terribile... I mariti fanno l'amore con tutte le mogli degli altri. Le mogli fanno l'amore tra loro. E i mariti tra di loro”), lo sentirono come uno della corrente. André Breton ne elogiò un quadro come “una delle più importanti pitture fatte in America”, ma forse non l'aveva capita: spiegò a Gorky che “l'arte deve sgorgare da una fonte e chi non ha una patria non può dare molto alla cultura”. Pare che Gorky, annuendo, tacesse sulle proprie origini: “La sua vita interiore, segreta, era certamente la sua forza e il suo sacrificio”, scrive la Wullschlager
C'è un soggetto, divenuto il quadro centrale delle sue opere, e che spiega questa pena segreta. Si chiama “L'artista e sua madre”, e fu dipinto, per anni, in due versioni successive. Nel 1912, a Van, la madre Shushan aveva preso il piccolo Vosdanig con sé e s'era fatta fare un ritratto da un fotografo professionista, che aveva poi mandato al marito in America, forse per ricordargli che s'era lasciato alle spalle una famiglia. Quella foto, ritrovata da Gorky molti anni dopo tra le carte del padre, dovette avere per lui l'effetto di un talismano: la riprodusse nella prima versione, in cui diversi dettagli tradiscono la pena per il distacco fatale, e nella seconda, piatta e ieratica come un'icona orientale. Ma se quell'immagine faceva da contenitore dell'arte di Gorky, il contenuto erano i suoi straordinari soggetti biomorfici, simili a ricami sul tessuto della fantasia. E, in fondo, l'ammise lui stesso: “Mi racconto storie, mentre dipingo... Spesso dalla mia infanzia”. E poi: “Mia madre mi raccontava molte storie mentre io schiacciavo la mia faccia, a occhi chiusi, nel suo lungo grembiule. Le storie e i ricami sul grembiule si confondevano nella mia mente. E per tutta la vita hanno continuato a dipanare immagini nella mia memoria”. Gorky cercava le sue radici, quelle che Breton credeva avesse saldissime, e questa ricerca produceva la geografia fantastica del suo mondo, “Immagine a Harkov”, “Giardino a Sochi”, “Cascata”. Quadri di una concretezza pittorica, strati e strati di colore, aggiunti e raschiati, all'infinito, “per ottenere il peso della realtà”. In “L'aratro e la canzone” una figura verticale e un torso femminile nuotano in allusioni di campi e di fienili. Sono paradisi perduti, di cui nessun pittore europeo, sicuro di una propria patria, avrebbe potuto avere nostalgia. Arshile Gorky, l'uomo senza radici, era l'unico che potesse fondare un'arte davvero americana, non solo post-europea. Quando morì suicida, nel 1948, ormai incapace di nascondere il volto nel grembiule della madre, aveva già piantato l'albero della sua eredità: Jackson Pollock, Willem De Koenig, Cy Twombly, solo per dire qualche nome, sono rami della sua pianta.
Voglio ricordare che assunse lo pseudonimo di "Arshile Gorky" in omaggio allo scrittore russo Maksim Gor'kij, ("gor'kij" in russo significa "amaro"), che come lui ebbe una vita errante e dolorosa. Lavorò negli Stati Uniti con gli amici Jackson Pollock, Willem de Kooning e soprattutto con Roberto Matta, che lo influenzò con le sue teorie esistenziali-psicologiche.
André Breton gli dedicò una poesia, L'adieu à Arshile Gorky, così come Alain Jouffroy, Arshile Gorky et les secrets de la nuit, (Cahiers du Musée De Poche, Paris).
Morì suicida all'età di 44 anni. Di tale gesto venne accusato Roberto Matta a causa di una sua relazione con la moglie dell'artista armeno. Harold Rosenberg scrive «Matta diventò "l'altro" di Gorky, nel senso più fatale del termine... come punto focale della sua violenta gelosia.»
Nei primi dipinti si misurava ancora con i maestri del primo Novecento come Picasso nel periodo rosa e nella svolta cubista. Ma già si intravedeva nel suo stile una morfologia morbida ed elastica, senza angoli né spigoli e con colori caldi e soffici.
I suoi lavori si trovano, tra gli altri, alla National Gallery of Art di Washington, al Museum of Modern Art, Metropolitan Museum of Art e Whitney Museum of American Art di New York, all'Art Institute of Chicago, e alla Tate Gallery di Londra