Ritorno a Sostila: la mitica Arcadia

(Nello Colombo)  Signore e sovrano incontrastato di sé e di un piccolo paesello all'apparenza scordato perfino da Domeniddio, Fausto Mottalini è il figliuol prodigo tornato all'aurea solitudine della terra dei padri. A chi sale dal versante cupo e silenzioso della Sirta seguendo la rozza bisettrice  che s'incunea  selvaggia per un aspro sentiero varcando longitudinalmente l'incanto della Val Fabiolo spaccata come un antico decumano romano nel cuore delle Orobie, appare infine, quasi un miraggio, l'antica Sostila: una sgrigiata di cenere slavata appena smossa di quattro umili case di legno e di sasso addossate l'una all'altra quasi a darsi calore e coraggio nelle avversità, circondate dal verde sfumato di faggi, peri e castagni inveterati, antichi patriarci naturali testimoni di una vita un tempo pulsante, abbarbicate attorno all'antica pieve di Madonna della Neve col biancore sporco del  campanile aguzzo e l'abside tornito. Sprofondata nel fulgore di un letto di foglie dei colori dell'oro, dell'argento e del rame, pare un piccolo cerbiatto addomentato che attende una timida carezza. A Sostila anche il tempo pare essersi fermato, respirando piano al canto errabondo, stridente, quasi sgraziato di un gipeto  che s'aggira volteggiando nell'aria, e al mistero argentino dello “zampungnìi” il campanello ancestrale delle barbute capre al pascolo lungo il dosso gibboso. Da tempo ormai non s'ode più il “dolce rumore” delle frotte di bambini che fino all'ultimo Dopoguerra frequentavano la pluriclasse ospitata dal vecchio curato. Erano l'orgoglio della vecchia maestra di scuola e di vita. E anche lei se n'è andata. Da tempo ormai qui  non è rimasto che lui, il  proustiano “cantore del tempo perduto”;  il poeta filosofo che si nutre del frutto della terra e del cielo; il cultore solerte del noce e del mite castagno, della bruna messe dei boleti nel muschio sprillante, degli ortaggi salubri tutti in fila “col resto di due”, nel prodigo, prezioso orticello; pittore incantato della natura che rapisce gli squarci dei suoi paesaggi che racchiudono l'infinito in un'istantanea d'autore; amabile nonno che racconta la vita ai virgulti della nuova famiglia. Inevitabile per Mottalini, a sera, nel ritiro silente delle sue umili stanze, negli angoli bui  velati da ipercettibili aracnidi tele,  indossare le vesti curiali per inseguire la primigenia radice del tempo e lo spazio infinito, il corso delle stelle e del cuore. E' così che è nato il suo  libro “Val Fabiolo, mon amour”. Dettato da un amore viscerale, incommensurabile, incontenibile, e racchiuso in uno scrigno di aneddoti dolci e struggenti, di fascinosi versi che sembrano “cantare” di luce propria, e  aforismi pungenti e solenni. Un libro che ha la meraviglia e lo stupore di un antico abbecedario in cui tuffarsi come in un letto di gelsomini. Le parole emergono misurate, levigate come i suoi affreschi fotografici, composte, vibranti  come un raggio di sole che fa capolino tra ciuffi d'erba vagante e nuvole cangianti, misteriose, sognanti tra rivoli di stelle che rilucono nel prato brumato sul far del mattino e sciabolate di luce che emergono dalle lunghe ombre della notte. Su tutto, la saggezza che si veste dell'umile saio dell'anacoreta che s'inchina  innanzi alle cattedrali di ghiaccio  dell' “iverna quiete” che scendono baroccamente tortuose dall'alto, come guglie capovolte, tra scheletri  cristallizzati, crisalidi ialine di rami adunchi tesi allo spasimo verso la luce che li irrora. E' il canto del figlio che torna, presto o tardi, alla sua amata terra, un figlio errante che si nutre ancora della carezzevole voce materna sedimentata nel cuore come una nenia antica che conquista e che consola, un figlio troppo amato, perso tra i ricordi di un fanciullo troppo presto rapito al mondo dei sogni per servire distratti avventori  per un pugno di  maccheroni al sugo o per gustare l'ultimo cioccolatino rimasto nel sacchetto, e troppo presto privato delle paterne cure. “Val Fabiolo, mon amour” diventa allora per Mottalini, unico coinquilino privilegiato, una dichiarazione perdutamente d'amore per Sostila che non rappresenta per lui una regressione nel tempo vagheggiato e nostalgico del regno delle fiabe e dei giochi infantili, né la fuga da un mondo sfinito dietro mille problemi e troppo avvezzo alle futili contese, che vive di sterili illusioni cercando nel vuoto bisogno il segreto di una effimera felicità che non viene dalle cose, quanto invece il felice ritorno alla mitica Arcadia, da vivere pienamente tra la beata deità della Natura.

 

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