Mola: 1) “Perchè falliscono le nazioni” 2) Un'occhiata in quel di Praga: Freso

1) “Perché falliscono le nazioni”. E invece perché prosperano gli altri?

Un saggio di storia ed economia pubblicato dal Saggiatore, ed uscito da poco  in Italia “Perché falliscono le nazioni” è degno di più di una attenzione. Il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2012, da  quel momento ha avuto un’ampia affermazione fra i lettori e ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui un posto tra i finalisti per il premio “Libro dell’anno” del Financial Times. I due autori sono Daron Acemoglu, professore di economia al MIT di Boston, e James A. Robinson, scienziato politico e professore ad Harvard. Sarà bene fare la conoscenza anche dei due autori (per chi già non li conosce), Kamer Daron Acemoglu (in turco: [adʒemoːɫu]; nato 3 settembre 1967) è un economista turco e americano. Acemoglu è laureato nel 1986 dal Liceo Galatasaray a Istanbul, lo troviamo all’Università di York, nel Regno Unito  con un’altra laurea in Econometria e Economia Matematica e poi il  dottorato di ricerca,  nel 1992, dalla London School of Economics. E 'stato docente di economia presso la London School of Economics nel 1992-1993, prima di diventare un membro di facoltà del MIT nel 1993. Vincitore di numerosi premi e segnalazioni.  James Robinson è professore presso la Harvard University  socio di facoltà presso l'Istituto di Quantitative Social Science e il Centro Weatherhead per gli affari internazionali. Ha studiato economia alla London School of Economics, l'Università di Warwick e Yale University. In precedenza ha insegnato presso il Dipartimento di Economia presso l'Università di Melbourne, poi l’University of Southern California e prima di trasferirsi ad Harvard era un professore dei Dipartimenti di Economia e Scienze Politiche presso l'Università della California a Berkeley.

Una parte del  boom di critica e di vendite del libro è quasi certamente dovuto alla  sua concezione “innovatrice”.  Il noto giornalista Gideon Rachman del Financial Times, ha scritto che il libro afferma una tesi che appare costruita per essere di gradimento al lettore occidentale che vuole assicurarsi la qualità del sistema occidentale. Il contenuto del libro, infatti, si può riassumere con una frase piuttosto semplice: nel lungo periodo, la democrazia rappresentativa e il libero mercato sono le uniche due vie che uno Stato può percorrere per garantire al suo popolo la prosperità. Un concetto ambizioso L’aggettivo più adoperato per descrivere il libro è “ambizioso” ed è  un aggettivo appropriato. I due autori, infatti, esprimono una teoria con cui cercano di spiegare perché certe nazioni falliscono –  i loro abitanti diventano sempre  più poveri, le istituzioni crollano ed  avvengono rivolte e guerre civili – intanto altri paesi proseguono a progredire sul lungo periodo. La spiegazione di Acemoglu e Robinson è di tipo “istituzionale”: la diversità la fanno le istituzioni che una manifesta società si somministra nel flusso del tempo. Nei primi capitoli del libro i due autori rifiutano come mancanti o secondarie una serie di altre cause: quella geografica (una nazione prospera o fallisce per via della posizione geografica in cui si trova). (Devo dire che, personalmente, non sono molto d’accordo con questa analisi). Poi  quella culturale (ci sono società che hanno caratteri “intrinseci” che le rendono più adatte a riuscire o a fallire) e quella “dell’ignoranza”, come la chiamano gli autori (le nazioni falliscono perché i loro leader non sanno scegliere la strada giusta).

Le loro argomentazioni sono esposte in forma scorrevole e i dati, non sono molti  (per fortuna di chi legge) e sono  meno consistenti degli esempi e degli aneddoti che popolano una sezione del libro.  Perché le nazioni falliscono?   Per il particolare modello di istituzioni politiche ed economiche che una società  si concede. Sono due  le  grandi categorie in cui gli autori le riuniscono quelle inclusive (o pluraliste) e quelle estrattive. L’economia basate sulla società feudale del Medioevo europeo quella sulle piantagioni nei Caraibi del XVIII secolo, o quella della  Corea del Nord, sono tutti esempi di istituzioni dell’ultimo tipo: quelle estrattive.

In questo tipo di categoria vi sono piccoli gruppi di potere (i proprietari delle piantagioni, gli aristocratici e la ristretta cerchia vicino alla famiglia Kim)  che dominano. Questo tipo di società vengono determinate estrattive  perché hanno alla vetta una piccola élite che ricava la ricchezza dall’altra numerosa parte della società. Quella degli sfruttati impossibilitati ad esprimere anche la minima emancipazione e autonomia.

Da questo tipo di società,  secondo gli autori, non può fare nascere uno sviluppo compatto e duraturo per la totale mancanza di incentivi. Lo schiavo, il contadino medioevale o l’operaio nordcoreano non hanno nessun motivo per ingegnarsi e trovare un modo di rendere il loro lavoro più produttivo: il frutto che qualunque miglioria nel rendimento dei prodotti, infatti, finirà nelle mani del padrone, del feudatario o dello stato. In altre parole: nelle mani dell’élite estrattiva.

Quest’ultima, a sua volta, non ha nessun interesse a favorire in alcun modo lo sviluppo tecnologico o qualunque altro tipo di innovazione. Il risultato di un simile cambiamento rischierebbe di alterare lo status quo.

E invece perché prosperano gli altri? Se istituzione politiche ed economiche estrattive sono la prescrizione per il fallimento, funziona che le istituzioni economiche di tipo inclusivo e politiche di tipo pluralista sono invece la via per il successo. Le due cose, almeno secondo Robinson e Acemoglu, non possono quasi mai andare staccate Le istituzioni politiche pluralistiche consentono che nei centri dove si assumono  decisioni coesistono i rappresentanti di molteplici e contraddistinti valori – e non unicamente quelli di una ambigua élite.
In due bellissimi fondi sul “Corriere della Sera” di Francesco Giavazzi  ( 9 agosto 2014)  e Ernest Galli Della Loggia ( 11 agosto 2014) approfondiscono in larga parte i temi proposti. (CARLO MOLA)

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2) Inaugurata ieri  una grande  personale di Viktor Freso
Allarghiamo i confini! A Praga presso la Dvorak Sec Contemporary nella centralissima via Dlouha, inaugurata ieri e aperta fino al 17 settembre 2014,  curata da Vladimir Beskid,  una grande  personale di Viktor Freso (nato nel 1974)  un artista concettuale slovacco, pittore, fotografo, scultore, (fra l’altro è  nipote del grande attore e regista Palo Bielik). Freso (altra notizia importante!) è venuto alla ribalta come collega di David Cerny.  David Cerny (Praga, 15 dicembre 1967) è un altro importante scultore ceco. Le  discusse sculture di Cerny sono oggetto di stupore e ammirazione in diversi punti di Praga, e non unicamente. Artista polemico ed assai ammirato, ma anche discusso, Cerny ha raggiunto la rinomanza nel 1991 dipingendo di rosa un carro armato sovietico, a ricordo del secondo conflitto mondiale. Ebbe per questo guai con la giustizia, ma  poi con grandi adesioni per il gesto  (12 membri del Parlamento ceco dipinsero a loro volta il carro armato di rosa per documentare la propria solidarietà con l'artista). Nel 2005 Cerny ha creato Shark, un’opera presentata alla Biennale di Praga e costituita dal corpo di Saddam Hussein immerso in una vasca di liquido. Altra opera che ha suscitato innumerevoli discussioni è Entropa, creata in occasione della presidenza Ceca al Consiglio dell’Unione Europea nel primo semestre del 2009.  Ma torniamo a Freso. Soltanto dobbiamo aggiungere  che anche questo artista è seguace di Entropia. Nata dalla questione sulla possibilità che la teoria dell'informazione porti a un’unificazione culturale. Se per informazione si intende improbabilità e imprevisto, osserva Arnheim, ci troviamo di fronte a una contraddizione radicale, «il massimo di ordine viene trasmesso con il massimo di disordine: qualcuno o qualcosa ha confuso i nostri linguaggi». Solo ridiscutendo i concetti di «ordine» e di «disordine» è possibile comprendere lo stesso meccanismo della creatività, e capire come l'arte sfugga all'antico e ambivalente sogno di prevederla e imbrigliarla. Viktor Freso  ha studiato all'Accademia di Belle Arti di Bratislava e all'Accademia di Belle Arti di Praga, dove si laureò nel 2003.  Il suo lavoro e l'approccio globale con l’arte contemporanea è che egli crea concetti e progetti in cui si esprimono critiche e aggressivi disprezzi per la scena artistica attuale, con sfumature di leggerezza e umorismo. Nel suo lavoro utilizza la sua enfasi sull’ego l’auto-ironia. Ed ancora il suo lavoro e l'approccio globale all'arte è molto atipico, ma riflette fortemente il contesto sociale e culturale.  Uno degli elementi più affascinanti del suo lavoro è  un evidente contrappunto accento sull’enorme. Ego grandioso associato al gesto, in combinazione, con una disarmante umiltà. Ha fondato diversi gruppi artistici, come Egoart e Fifty-fifty gruppo o Binderfresh. Grado, con Jiri Georg Dokoupil. Nell’artista slovacco multimediale, Viktor Freso, si sviluppano contemporaneamente diversi strati di produzione visiva a partire con interventi concettuali attraverso oggetti minimalisti fino alla pittura  espressiva. E ogni volta  pone l'accento su un feroce gesto, una fotografia o un intervento escludendo obbligatori preliminari estetici. Allo stesso tempo, egli sostiene la provocazione, l'ironia e il distacco umoristico. La raccolta temporanea di Viktor Freso offre ancora una volta situazioni inverse e le immagini che vanno contro le radicate percezioni artistiche. Egli crea connessione univoca tra il folk e l'estetica pseudo religiosa. Progetta la sua versione ost-pop che ha correlazione diretta con il nostro background culturale di primo piano. Disgustosamente bellissimi ornamenti di fiori in cornici ovali, noti nelle camere da letto delle nostre nonne religiose, accompagnano con spazi ispessiti su tela da un modello di spruzzo da assomigliare a esclusivi soggiorno sfondi (L'arte è bello). Assurdamente cromato rivestito zappa incastonata (Chrompáč) è anche il fondo di questi dipinti astratti sintetici con movimenti espressivi specchi esclusivi. Installazione oggetto di una sfida ostinata e ribellione di un individuo arrabbiato in una massa anonima (Zrodenie Pičusa) è completato con un rombo neon incandescente con il titolo profetico dipinto in nero in alto: "Dio è amore”. Si conferma la costante necessità di Freso di punti di vista radicali e gesti elementari per rafforzare le parole che 'l'arte è bella”.  (CARLO MOLA)
 

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