"FURORE" al Sociale di Sondrio

Oklahoma. Una torrida estate del ’36. In principio ci fu la polvere. Sottile, silenziosa, turbinosa, che dalle vertigini del cielo corrusco, di colpo cancellato alla vista degli uomini, s’insinuava serpeggiando ovunque: nelle fenditure della terra e dei tetti fessi delle vecchie case, sugli inutili steccati corrosi dal tempo e sulle vie lastricate di sporca fuliggine grigiastra. Tempestava ululando nel vento sui carri abbandonati nelle stalle e sulle aride distese di mais ormai marcio che s’inclinava subietto al passaggio vorticoso della coltre renosa.  All’esausto colono null’altro restava che rintanarsi sprofondando nell’angolo fondo di casa con la prole affannata, le vigili madri in disarmo, attendendo la fine del funesto presagio di morte. Poi, come bibliche piaghe, vennero i delegati delle banche a riscuotere il loro tristo tributo: quello dell’invisibile mostro che tutto divora nella sua insaziabile fame di interessi e profitto. La banca. Su tutto. Fu poi la volta del “Trattore”, coi suoi cingoli rombanti di ferro, il clangore stridente del vomere che affondava la sua lama rovente ravanando terra e polvere, sterpi e foglie stecchite. La desolazione in un nero letto disfatto, squarciato nel mezzo. E’ così che inizia l’odissea dei miseri braccianti dell’Oklahoma e dell’Arkansas annichiliti da tempeste sabbiose e un’irreparabile siccità che avevano falcidiato le terre del granturco e il cotone. Inizia così la lunga e devastante migrazione di popoli vinti da abbandono e miseria costretti a vendere tutto, bruciando anche i ricordi alle loro spalle, per avviarsi lungo la “Route 66” verso la vagheggiata terra di Canaan: la California. Una “Terra Promessa” che non manterrà i propri impegni, eppure cantata da narratori improvvisati accanto ai bivacchi dell’umida sera tra evocazioni tribali e i semi dell’odio che si moltiplicano tra una moltitudine immensa di diseredati costretti a graffiare per un tozzo di pane.  E’ questo il senso del capolavoro di Steinbeck, “Furore”, che prende corpo e anima al Teatro Sociale di Sondrio con Massimo Popolizio in proscenio, protagonista dell’avvincente e spietato racconto adattato da Emanuele Trevi, vissuto con rabbia e tormento, con mesta commozione e cupo furore. Un dialogo serrato e suadente, amaro e commosso, il suo, con l’orchestra percussiva di Giovanni Lo Cascio che detta ritmo e azione. Ci pensano poi Igor Renzetti e Lorenzo Bruno a narrare l’orrore scenico della migrazione americana del ’36 attraverso strazianti e incisive immagini in bianco e nero che fanno sussultare lo stomaco nel loro livore contro un destino avverso che macina spietatamente un’umanità devastata nei suoi sdrucciolevoli ingranaggi del progresso. Su tutto la graffiante letteratura di Steinbeck che proietta sul fondale della vita il dramma delle eterne migrazioni dell’uomo in disarmo. Basti guardare i derelitti che si affollano premendo lungo i confini dell’America Latina o della “onesta” Europa, o semplicemente approdando su carrette scalcinate sulle nostre spiagge isolane. E la storia è la stessa, quella di sempre, fatta di disperazione e di morte. E di irreversibile odio verso chi “è sporco e ignorante, o è un ladro e portatore di malattie”, gente schiava della fame e del bisogno che fugge dalle guerre e la miseria nella fallace visione di un “Eldorado” che molto spesso si rivela un tragico inferno. Popolizio ha saputo suonare tutti i registri del suo organo tonante seminando, uno ad uno, tutti i semi di un furore che monta selvaggio nel cuore di chi non ha più nulla. Nemmeno la propria dignità di uomo. E piangere in silenzio su una tragedia che nessuna penna saprà mai raccontare a fondo.
Nello Colombo           

 

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